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Salute in carcere: riflessioni non convenzionali

Status detentionis e diritti umani come due parallele destinate a non incontrarsi
Carcere
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Salute in carcere: riflessioni non convenzionali


La salute in carcere come primo diritto umano intangibile e irrinunciabile. Un diritto sempre raggiungibile per la concretezza di un sistema normativo leale e legittimo.

Health in prison as the first intangible and inalienable human right. It is a right that can always be reached for the concreteness of a loyal and legitimate regulatory system.

Se la natura e le finalità dell’istituzione carceraria sono sempre al centro di un dibattito pubblico senza fine, quello che accade fuori le stanze dei bottoni istituzionali, ipotesi senza cognizione tecnica, sembra indicare che la strada più corretta e dritta al problema è quella di considerare concretamente il piano carcere in un’ottica riabilitativa e non strettamente punitiva.

Seppur vi sono tentativi di intraprendere strade di rieducazione e risocializzazione dei detenuti, falliscono in maniera automatica quando si tratta di tutelare soggetti con bisogni particolari e specifici come le cure mediche, e rimangono semplici soggetti vittime della violenza detentiva.

Il carcere è senza dubbio area fertile per l’insorgere di patologie psichiche di vario grado anche nella fase di prossimità della scarcerazione.

Esaminando la salute mentale all’interno delle strutture carcerarie si può notare come uno dei profili della portata della problematica suesposta è in stretto legame all’indice di suicidi e di atti di autolesionismo. Sicuramente, la fase di entrata è il momento centrale di criticità per l’insorgere delle patologie psichiatriche e psicologiche sino poi alla fase di fine esecuzione poena (XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione: “Salute mentale in carcere o della solitudine; di Benedetta Centzone, in: Antigone online 2022”.

Le condizioni strutturali generali del reparto di cura risultano anch’esse carenti: le stanze presentano necessità di risanamento ristrutturale; presentano sporcizia diffusa e servizi igienici inefficienti, pressoché inesistenti. l’unico elemento, se vogliamo positivo, è l’assistenza psichiatrica quotidiana h 24. Il reparto di trattamento chiamato sezione VIII è nel complesso buono.

Passando però all’analisi specifica delle modalità con cui viene trattata la salute mentale in carcere, risultano evidenti le lacune che l’istituzione penitenziaria soffre rispetto al tema della salute mentale.

La Corte europea dei diritti dell’uomo più volte ha espresso il parere giurisprudenziale in merito al mantenimento in vinculis di un soggetto portatore di “minorate” condizioni psichiche ovvero alterazioni di percezione della realtà dovute a patologie accertate.

La Corte ritiene:

a) che il mantenimento in stato detentivo in ambiente penitenziario ordinario, nonostante il parere contrario degli psichiatri che seguono il caso – a loro sottoposto – impedisce al soggetto di beneficiare di una cura terapeutica adeguata al suo stato di salute mentale, tale da poter aggravare le sue condizioni così da costituire un vero e serio TRATTAMENTO INUMANO E DEGRADANTE, vietato dall’art. 3 della Cedu;

b) bisogna sempre indagare che la privazione della libertà personale sia conforme ai parametri di legittimità del diritto interno ed europeo;

c) il ricorrente presso la sede giudiziaria deve disporre di tutti i mezzi necessari ad ottenere con un grado di sufficiente certezza l’applicazione del diritto secondo parametri di legittimità indiscussa ed i mezzi necessari per ricorrere alla sede europea, pena la violazione dell’art. 5 Cedu.

La Corte rammenta ad ogni ricorso intrapreso per violazione dell’art. 3 Cedu (trattamento disumano e degradante) che l’articolo summenzionato impone agli stati aderenti alla Cedu di assicurarsi

che tutte le persone ristrette siano detenute in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana;

che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stress ovvero ad una prova la cui intensità vada oltre il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e

che, considerate le esigenze pratiche della detenzione, la salute e lo star bene del detenuto siano garantiti in modo adeguato, in peculiar modo per mezzo della esecuzione di cure mediche richieste e stabilite.

Da una attenta osservazione risulta evidente che il carcere, per la sua stessa natura, nonostante i tentativi affannosi del legislatore, non può e non deve essere considerato come un luogo adatto alla cura dei malati psichiatrici.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo non contiene alcuna disposizione espressamente e direttamente indicativa del diritto alla tutela della salute. La “protezione della salute”, anzi, figura nel testo della Convenzione e dei Protocolli addizionali esclusivamente per individuare una delle ragioni che, a certe condizioni, legittimano delle restrizioni a taluni dei diritti e libertà riconosciuti ovvero ingerenze delle pubbliche autorità nell’esercizio degli stessi.

L’assenza di una disposizione paragonabile all’art. 32 Cost. agevolmente si spiega con l’estraneità, rispetto all’originaria impalcatura della Convenzione, della categoria dei cc.dd. diritti sociali (vedi: M. Mazziotti di Celso, voce Diritti sociali, in: Enc.dir., vol. XII, Milano, 1964, p. 862 ss.) alla quale si riconduce il diritto alla salute (G. Corso, I diritti sociali nella Costituzione italiana, in: Riv. trim. dir. Pub., 1981, p. 755 ss., che definisce il diritto sociale come diritto ad una prestazione positiva da parte del potere pubblico, funzionale alla partecipazione dei singoli ai benefici della vita associata, o alla concretizzazione del principio di uguaglianza o della freedom from want) quantomeno in una delle due accezioni che anche la giurisprudenza italiana costituzionale, relativa all’art. 32 Cost., gli ha riconosciuto (F. Modugno, I “nuovi diritti” nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1995; La Consulta ne ha affermato il valore primario sia per l’inerenza alla persona umana sia per la sua valenza al diritto sociale, caratterizzante la forma di Stato sociale disegnata dalla Costituzione; Corte cost., sent. N. 37 del 1991).

Estraneità che non connota solo la CEDU, ma in generale, è rinvenibile nei diversi sistemi internazionali di tutela dei diritti umani: negli anni in cui, in molti Paesi occidentali, si assisteva alla costituzionalizzazione dei diritti sociali sul piano interno, sul piano internazionale quel fenomeno compiutosi solo in parte (vedi: A. Guazzarotti, I diritti sociali nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in: Riv. trim. dir. Pub., 2013.).

Le ragioni sottostanti della “collaterizzazione” internazionale dei diritti sociali sono plurime e stratificate. Da una parte si deve ricondurla all’impostazione di concetto del costituzionalismo di matrice liberale classica, che viene preso in considerazione dal Consiglio d’Europa nel momento della scrittura formale della CEDU, dall’altra viene in risalto l’assoluta cautela con cui gli Stati membri, assumono obblighi internazionali che si trasformano in veri impegni economici a tutto campo connessi con il profilo “condizionato” dei diritti trattati. Questo tratto comunque, non consente di dire che il diritto alla salute sia un diritto sub specie o dipendente.

Il medesimo anzi, è stato ricondotto (proprio nelle istanze europee, nell’ alveo dei diritti massimamente garantiti, quale corollario (Vedi: D. RANALLI, Nuovi interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di trattamento carcerario, in: Rass. pent. crim., 2, 2013, p. 157-158).

Ad una attenta valutazione, appare chiaramente evidente che il diritto alla salute in carcere riceve dall’istanza di Strasburgo una tutela solamente indiretta o come largamente definita “par ricochet” per situazioni nelle quali il pregiudizio alla salute si riflette nella lesione o messa in pericolo di altri diritti garantiti dalla stessa Cedu.

La suesposta tecnica di garanzia, se su un fronte ha permesso al Giudice europeo di estendere il proprio sindacato verso pratiche ed istituti iuris non tecnicamente predisposti per l’applicazione della Convenzione colmando delle lacune tecniche insite nella medesima, sull’altro, ha inserito veri e propri impedimenti alla tutela piena del diritto de quo e soprattutto di individuare un perfetto nucleo non circoscrivibile o limitabile del diritto alla salute (Vedi: D. Ranaldi: Nuovi interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di trattamento carcerario, cit.).

Di fatto ciò che si verifica in termini di tutela è che la Corte Costituzionale può agevolmente riconoscere il nucleo irrinunciabile ed incondizionato del diritto alla salute, parametrando il sindacato alla costituzionalità ovvero alla legittimità di quanto sollevato innanzi ad essa, la Corte di Strasburgo invece, può tutelare lo stesso diritto solamente se la lamentata violazione si configuri quale violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti ovvero di violazioni plurime di altri diritti garantiti dalla Convenzione.

Il focus della giurisprudenza europea non è quello di garantire un prolungamento della vita umana, ma garantire che la pena inflitta non comporti ulteriori privazioni umane che vanno ben oltre la libertà personale, ingenerando trattamenti degradanti, non consentiti.

Il mezzo tramite il quale la Corte europea ha potuto “calamitizzare” nell’ambito della tutela convenzionale il diritto alla salute delle persone “ristrette”, valutando la compatibilità delle condizioni della detenzione rispetto alla Convenzione che è rappresentato dall’art. 3 CEDU, il quale essendo di ampia latitudine nella portata contenutistica e nozionistica in termini di salute, ha reso possibile ai giudici  europei una esegesi evolutiva, costruttiva e sensibilmente più estesa per la quale si sono potute individuare un ventaglio di violazioni del divieto alla tortura o trattamenti o ancora, pene inumani e degradanti (Commissione EDU, 9 luglio 1981, Krocher and Moller v. Switzerland, ric. n. 8463/78).

Spostandoci dall’asserzione che con lo status detentionis non si perdono le garanzie dei diritti e delle libertà affermati e riconosciuti dalla Convenzione, gli organi posti a tutela della CEDU hanno riconosciuto che una pena, seppur legittimamente comminata, può comportare problematiche in ordine alla compatibilità con quanto stabilito dall’art. 3 CEDU, soprattutto in ordine all’esecuzione delle pene.

Posto che in ogni formula di privazione della libertà personale ci si imbatte in una vera umiliazione, affinché il minimo di gravità che delimita lo spazio applicativo dell’art. 3 CEDU sia scavalcato, è necessario accertare che nella fattispecie singola le modalità di esecuzione comportino un’umiliazione ed una mortificazione di “scalino peculiare” distinti e maggiori rispetto quelli intrinseci e ineliminabili.

Da qui: gli obblighi imposti agli Stati membri in tema di trattamento dei detenuti devono essere rivolti ad assicurare il massimo delle condizioni di compatibilità con il rispetto della dignità umana, le modalità esecutive della misura inflitta non devono sottoporre il detenuto a sofferenze ed angosce di intensità tale da esorbitare l’inevitabile grado di sofferenza già ricompreso nella condizione detentiva. La salute ed il benessere devono essere adeguatamente assicurati tramite la necessaria assistenza medica (Vedi: Francesco Cecchini: La Tutela del diritto alla salute in carcere nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo; in: “Diritto Penale Contemporaneo”, archiviodpc.org 2017).

Al di là di tracciare i confini dell’area applicativa dell’art. 3 CEDU, il principio della soglia minima del grado di gravità assolve anche un’altra funzione e cioè, di differenziare nella tortura la pena/trattamento inumano e la pena/trattamento degradante. I comportamenti vietati si pongono su di una scala progressiva in senso discendente come lesività; ovvero, una volta accertato il superamento del minimum level (rientrante nella violazione art. 3) sulla base degli elementi riferiti, questi ed eventuali effetti cumulativi rilevano tutti ai fini della qualificazione della fattispecie posta in esame.

La Corte europea ha largamente inteso chiarire che deve considerarsi inumano un trattamento premeditato, applicato per ore e che causa lesioni corporali o sofferenze intese sotto il profilo fisico e mentale; è invece da considerare degradante il trattamento che ingenera nella vittima un senso di paura, angoscia ed inferiorità tali da umiliarla e piegarne la resistenza fisica o morale, inducendola ad agire contro la sua volontà o coscienza (Corte EDU, Grande Camera, 11 luglio 2006, Jalloh v. Germany, ric. n. 54810/00).

La tortura in sé è più una forma aggravata di trattamento inumano e degradante (A. Colella: “C’è un giudice a Strasburgo. In margine alle sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l’inadeguatezza del quadro normativo italiano in tema di repressione penale della tortura, in: Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1817).

La Corte inoltre afferma genericamente che si deve procedere ad un esame estremamente meticoloso (Grande Camera, 1 giugno 2010, Gafgen v. Germany) chiedendo che l’allegazione di comportamenti contrari all’art. 3 Cedu debba essere supportata da prove adeguate. Nella valutazione delle medesime, il criterio da seguire è quello della “prova ogni oltre ragionevole dubbio” precisando che tale standard probante può ritenersi raggiunto a fronte della “coesistenza di elementi sufficientemente validi, chiari e concordanti o di analoghe ed incontestate presunzioni di fatto”.

Ne discende come unico corollario “inaggirabile”

l’adeguatezza (da raggiungere in ogni caso che si presenti) delle cure mediche in carcere,

la valutazione di compatibilità tra condizioni di detenzione e stato psico-fisico di salute,

l’obbligo positivo di assicurare health and well-being dei detenuti;

Quanto rilevato in senso negativo non è possibile procrastinarlo alla luce dei messaggi esegetici a cui l’Italia deve uniformarsi per garantire pienamente il godimento dei diritti umani. L’assenza di un nucleo di norme giuridiche di tutela e applicazione immediata non può esser più tollerata.