Le sfide di re Carlo III

La morte della Regina Elisabetta, tra ripercussioni europee ed esigenze contemporanee
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Scenari in tilt

La regina lascia a suo figlio Re Carlo III non solo la sovranità sul Regno Unito, ma anche sul “Reame del Commonwealth”.

Si tratta di un sottogruppo del più ampio “Commonwealth delle nazioni”, associazione quest’ultima formata da 54 Paesi sovrani, molti dei quali ex colonie dell’Impero britannico. Il Reame invece è composto da quindici Paesi, UK compreso, che a differenza di quelli appartenenti al “Commonwealth delle Nazioni” riconoscono il sovrano del Regno Unito come capo di Stato. Il primo in ordine alfabetico è l’Australia.

Anche l’arcipelago delle Bahamas, tra la Florida e Cuba, fanno parte del Reame del Commonwealth. Nel gruppo è presente anche il Belize, Stato dell’America centro-settentrionale. Tra i Paesi che riconoscono i sovrani del Regno Unito come capi di Stato c’è anche il Canada ed anche Grenada, isola del Mar dei Caraibi sud-orientale, fa parte del Reame del Commonwealth: Nel sottogruppo di Paesi c’è la Jamaica.

A riconoscere i sovrani del Regno Unito come Capi di Stato sono quattordici delle nazioni del Commonwealth. Re Carlo III è il Capo di Stato di Regno Unito, Antigua e Barbuda, Australia, Bahamas, Belize, Canada, Grenada, Giamaica, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Isole Salomone e Tuvalu.

 

Ansie ed incertezza internazionali del Commonwealth

La fine di un Regno così longevo e forte, durato più di mezzo secolo, non indica soltanto una notizia storica documentale per aggiornare le conoscenze e memorie storiografiche. Il passaggio di consegne a Londra da un sovrano a un altro non è un faccenda riguardante unicamente le lunghe e consolidate tradizioni culturali e storiche della monarchia inglese.

Se è vero che oramai regina e re in Gran Bretagna hanno un ruolo rappresentativo e cerimoniale, è altresì vero che chi eredita la corona diventa capo di Stato in altre 14 nazioni. Quanto avviene a Buckingham Palace ha quindi una diretta incidenza negli affari internazionali e negli equilibri del Commonwealth e degli ex possedimenti dell’impero britannico. In un contesto così delicato come quello attuale, la morte della Regina Elisabetta apre quindi a diversi interrogativi ed incertezze in prospettiva futura.

La carica del sovrano seppur di ruolo rappresentativo e cerimoniale che si badi bene non sono sinonimi, impegna fondamentalmente la forma istituzionale con ingerenze pesanti. Anche se la corona non ha più da tempo in mano il potere esecutivo, la funzione rappresentativa non è unicamente cerimoniale ma, al contrario, da anni ha assunto un’importanza quasi primaria nella gestione del regno.

Per rappresentare una corona la parola d’ordine in primo luogo è quella di unità: priorità massima è data al mantenimento dell’unità tanto del Regno Unito, quanto del Commonwealth.

In tale rotta, la figura di Elisabetta II è stata essenziale: la regina è stata rispettata dai vari leader di governo britannici e degli altri Paesi di cui è risultata sovrana. Da Buckingham Palace è riuscita più volte ad assorbire tensioni e scandali che hanno coinvolto esecutivi, personaggi pubblici e la sua stessa famiglia. In una sola parola, la sovrana ha preservato una certa credibilità alla corona e questo a sua volta ha contribuito a preservare l’unità.

L’incognita del problema che grava tanto nel Regno Unito quanto negli altri Paesi del Commonwealth riguarda l’eredità politica di Elisabetta II. E, in particolare, se Carlo III sarà in grado di garantire allo stesso modo del predecessore l’unità di Londra e dei Paesi gravitanti attorno l’orbita della corona.

La fine politica, prima ancora che umana, della regina potrebbe imminentemente dare ampio impulso alle forze da tempo impegnate per una maggiore autonomia dalla corona o per l’indipendenza. In tal senso il pensiero ritorna subito alla Scozia.

Dopo la Brexit decretata nel 2016, il governo di Edimburgo ha nei suoi progetti quello di indire un nuovo referendum indipendentista. La fine del regno di Elisabetta II potrebbe accelerare questo proposito. Non è certo ad oggi che in caso di secessione i futuri leader scozzesi offrano al nuovo re la possibilità di continuare a essere capo di Stato. Si creerebbe in tal modo una rottura storica e forse definitiva. Uno scossone capace di raggiungere in tempo breve anche le altre periferie del Regno e del Commonwealth.

Tutto ciò in un momento piuttosto turbolento della vita politica d’oltremanica. Negli ultimi sei anni, con l’insediamento di Liz Truss quale nuovo premier, si sono alternati quattro primi ministri. Un fatto non proprio usuale e consuetudinario a Londra e che sottolinea la forte instabilità politica. Se quindi la parola di sicurezza per il nuovo sovrano sarà quella di unità, le prime preoccupazioni arriveranno dal fianco interno.

Mantenere salda l’unità interna è ovviamente prioritario per preservare l’unità nel dominio del Commonwealth. Carlo III è capo di Stato anche in Paesi quali il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e altre 11 nazioni sparse tra il nord America e l’Oceania. Ancora qui il ruolo del Re è rappresentativo e cerimoniale, ma a lui spetta la nomina di un governatore generale e da Londra viene seguito da vicino l’indirizzo in politica estera dato dai vari esecutivi locali.

La figura di Elisabetta II è stata importante durante i suoi 70 anni di regno per garantire l’unità del Commonwealth, organizzazione che riunisce anche Paesi dove il sovrano britannico non esercita formalmente alcun potere. Ci sono in ballo equilibri molto delicati, soprattutto nell’area pacifica. Oltre all’Australia, nella regione oceanica la corona regna anche sulle Isole Salomone, il cui governo  ha espresso orientamenti vicini a Pechino. Il tutto in una zona da anni diventata cuore nevralgico della sfida tra Stati Uniti e Cina (Mauro Indelicato, articolo 8 settembre 2022 in Insiderover, politica: “Come la more della Regina potrebbe influire nel contesto internazionale).

Di consequenziale riflessione è che la stabilità della corona britannica rimane essenziale per l’unità interna del Paese e per quella del Commonwealth. Un ingranaggio delicato quest’ultimo, convogliato ancora oggi sulla figura del sovrano a cui spetta il delicato ruolo di evitarne il disfacimento.

 

Programmi venturi del Commonwealth

Il compito spettante a Carlo III “novello re” non è semplice perché il nemico da affrontare è la progressione apparentemente inarrestabile della storia. In un sondaggio realizzato in Canada all’inizio dell’anno, ad esempio, il 55% di chi vi ha preso parte ha dichiarato di essere in favore del fatto che il proprio Paese rimanga una monarchia costituzionale fintanto che la Regina Elisabetta fosse stata sul trono. Philippe Lagasse, professore alla Carleton University di Ottawa, ha dichiarato all’Afp che “persino nel Canada anglofono il supporto per la monarchia è calato nel corso degli anni”. 

Marc Chevrier, professore di Scienze Politiche all’università’ di Montreal, ha chiarito come “il Canada sia un’eccezione monarchica nel bel mezzo di un continente repubblicano” e che “il dibattito si riaprirà dopo alcune settimane di lutto”.

In Giamaica, al contrario, il processo di transizione verso una Repubblica è già iniziato lo scorso giugno e la rimozione del monarca britannico come capo di Stato è attesa prima delle elezioni generali del 2025.

Santa Lucia il leader dell’opposizione, Allen Chastanet, ha dichiarato alla Reuters che supporta la tendenza “generale” del suo Paese verso una repubblica.

Antigua e Barbuda, uno Stato caraibico nelle Piccole Antille, ha annunciato, subito dopo lo svolgimento di una cerimonia che ha confermato Carlo III come sovrano del Paese, piani per organizzare un referendum sulla Repubblica entro i prossimi tre anni e il primo ministro Gaston Browne ha confermato a Itv News che “questo tema dovrà essere risolto con un referendum”.

In Australia il movimento repubblicano è spopolato negli ultimi anni e ha beneficiato dell’elezione del primo ministro Anthony Albanese che ha nominato il deputato Matt Thistlethwaite nel nuovo ruolo di ministro Assistente per la Repubblica. Thistlethwaiste dichiarato a Current Affairs: “Molti australiani ritengono che i tempi siano maturi”.

L’esecutivo Albanese si è “impegnato a esaminare l’opzione di trasformazione in una Repubblica nel corso di un suo eventuale secondo mandato. Laburista e repubblicano convinto, ha recentemente raffreddato gli animi affermando che, come riportato dall’Australia Broadcasting Corporation, ha la responsabilità di difendere il ruolo di Re Carlo III come monarca australiano perché “il suo ruolo costituzionale glielo richiede”. Nel 1999 gli elettori australiani avevano respinto un emendamento costituzionale che avrebbe abolito la monarchia ma alcuni sondaggi recenti hanno evidenziato come la maggior parte dei cittadini sia in favore della Repubblica. Il governatore generale, rappresentante del monarca, gode di alcune prerogative che, in alcuni casi, possono essere esercitate indipendentemente dal primo ministro.

In Nuova Zelanda, secondo Katie Pickles, professoressa di storia presso l’Università di Canterbury intervistata dal Wall Street Journal, “c’è la maggior reticenza al cambiamento di tutto il Commonwealth” e le cose sono complicate dall’esistenza del trattato di fondazione dello Stato, stipulato tra la Corona Britannica e i Maori. Il periodico neozelandese Stuff ritiene che la Nuova Zelanda abbandonerà la monarchia solamente dopo una campagna politica che dovrà culminare in un referendum.

Eccessivo dire che ha “portato in salvo” la monarchia inglese a tratti vacillante per numerosi problemi familiari, ma certamente l’ha ancorata al suo disegno politico e incoraggiata. Un tempo la debolezza degli uomini si appoggiava sulla forza delle istituzioni, familiari e politiche. Oggi  è necessario un vero stoico eroismo degli uomini e delle donne per portare sulle proprie spalle il peso delle istituzioni. Senza spirito di sacrificio, non si sorregge né una famiglia, né una dinastia istituzionale e non privata. E nell’epoca postmoderna l’immagine di Elisabetta Windsor si staglia come quella di una donna che ha improntato la sua vita e il suo regno al sacrificio e alla dedizione al bene comune del suo paese, alimentando così l’attaccamento del suo popolo alla Monarchia (Prof. De Mattei in Corrispondenza Romana”, 14 settembre 2022).

Non va dimenticato che quindici anni prima della sua ascesa al trono, la Monarchia inglese era stata scossa dal caso del re Edoardo VIII, il duca di Windsor, che aveva deposto la corona per inseguire la favola di un amore piccolo-borghese con la spregiudicata Wallis Simpson, divorziata e addirittura non battezzata. Nel 1936, il primate di Canterbury, Cosmo Gordon Lang, era stato il più duro oppositore alle nozze di Edoardo, in nome del principio, condiviso dalla Famiglia Reale, secondo cui il matrimonio poteva essere sciolto solamente dalla morte.

I suoi successori a Canterbury, soprattutto da Michel Ramsay e Robert Runcie fino all’attuale primate Justin Welby, hanno accettato non solo il divorzio, ma le “nozze gay” e l’ordinazione sacerdotale delle donne e degli omosessuali, riducendo al lumicino la chiesa anglicana, come rileva il settimanale britannico The Spectator: scossoni familiari che mettevano a rischio lo scenario istituzionale, non solo religioso.

Il popolo inglese ha mantenuto, a differenza di altri popoli europei, certe qualità antiche, quali il coraggio, la determinazione, la tenacia, e anche la consapevolezza della propria identità e delle proprie tradizioni: una coscienza nazionale tanto più forte quando l’Impero, divenuto Commonwealth delle nazioni, ha iniziato a disgregarsi, in nome di un democratico progresso dei diritti umani e di interessi diversi da tutelare. 

Il prof. Plinio Corrêa de Oliveira salutò l’incoronazione della Regina Elisabetta, scrivendo che l’uomo contemporaneo, ferito e maltrattato nella sua natura da un tenore di vita costruito su astrazioni, chimere, teorie vane, si mostrava affascinato verso il miraggio di un passato aristocratico e anti-ugualitario così diverso dal terribile giorno d’oggi,  «non tanto per nostalgia del passato, quanto di certi princìpi dell’ordine naturale che il passato rispettava, e che il presente viola in ogni momento» (Catolicismo, 31 giugno 1953). 

 

Cosa accadrà oggi al Commonwealth?

La corona britannica (e non inglese) è riconosciuta ben oltre i confini di Londra e della Gran Bretagna. Anche se ora, con il passaggio tra la popolare Queen Elizabeth al figlio Charles si avanza la riflessione che la monarchia rischia piano piano di disgregarsi. Un processo che rischia di coinvolgere peraltro anche il Regno Unito alle prese con le questioni di Scozia e Irlanda del Nord.

Nonostante i suoi legami con l’Impero britannico, qualsiasi paese può entrare a far parte del moderno Commonwealth e di recente sono stati ammessi altri paesi senza alcun legame con il passato coloniale, come Rhonda e Mozambico. Gli ultimi due paesi a entrare nel Commonwealth sono stati il Gabon e il Togo nel 2022. E durante il regno di Elisabetta la lista di nazioni a farne parte è aumentata.

Tuttavia con Re Carlo III si rischia di assistere il processo inverso.

Durante una recente visita in Belize, Giamaica e Bahamas, William e Kate hanno affrontato le proteste per la storia del dominio coloniale del Regno Unito e rinnovato il discorso sulla possibilità di transizione verso repubbliche indipendenti.  

Barbados è stato l’ultimo Paese del Commonwealth a diventare una repubblica quando, all’inizio dell’anno, ha rimosso la regina come capo di Stato e ha giurato un presidente. Barbados resta un membro del Commonwealth ma Carlo non è riconosciuto come suo sovrano. La decisione delle Barbados segna la prima volta in quasi tre decenni che un regno sceglie di rimuovere il monarca britannico come capo di Stato. L’ultima nazione a farlo era stata l’isola di Mauritius nel 1992