L’equilibrio nella contrattazione: evoluzione della ratio legis dalla legislazione consumeristica al contratto telematico
Sin dall’ultimo decennio dell’ormai trascorso XX° secolo, soprattutto sulla scorta di indicazioni provenienti dagli organi comunitari, anche il legislatore italiano ha dedicato la propria attenzione alla materia del commercio elettronico.
Sono state così appositamente promulgate norme destinate a regolamentare in modo specifico fattispecie riconducibili all’ambito dell’e-commerce strettamente inteso, ovvero di carattere più generale, estensibili per interpretazione analogica anche al commercio elettronico.
Il primo testo legislativo italiano ove viene riportata una norma puntualmente destinata al commercio per via telematica è il decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art. 4, quarto comma, Legge 15 marzo 1997 n. 59): al Titolo IV dedicato alle “Forme speciali di vendita al dettaglio”, compare l’art. 21 rubricato appunto “Commercio Elettronico”.
Questa norma non possiede soltanto un valore meramente programmatico, ma preannuncia l’intervento del legislatore nella disciplina del commercio elettronico (intervento che verrà attuato compiutamente con il decreto legislativo 70/2003) anche e soprattutto grazie alla cooperazione europea ed internazionale per lo sviluppo comune del commercio elettronico, ed offre altresì alcune interessanti indicazioni relative alle direttrici imboccate dall’ordinamento italiano nel disciplinare la contrattazione telematica.
Anzitutto l’attenzione all’”equilibrio” del mercato, affinché gli scambi commerciali si svolgano nel rispetto delle condizioni di trasparenza, affidabilità e consapevolezza.
Per raggiungere questi obiettivi, il legislatore considera preminenti l’interesse dei consumatori ad una puntuale informazione e la predisposizione di misure ed interventi volti ad assicurare l’affidabilità degli operatori commerciali e la piena partecipazione degli stessi al processo di informatizzazione.
La promozione dell’interesse e della fiducia dei consumatori non possono procedere disgiuntamente dalla promozione della competitività delle imprese attraverso l’implementazione della contrattazione telematica.
La sempre maggiore crescente ampiezza degli scambi negoziati fuori dai locali commerciali, o mediante l’impiego di strumenti di contrattazione a distanza, ha condotto l’interesse del legislatore italiano a svolgere una serie di interventi diretti a tutelare l’equilibrio contrattuale in quelle situazioni in cui il consumatore si fosse trovato particolarmente impreparato e quindi esposto alle conseguenze di una scelta non del tutto consapevole.
Anche sulla scorta delle indicazioni fornite dal legislatore comunitario, furono così promulgate tra il 1992 ed il 1998 una serie di normative note come leggi a tutela del consumatore, espressamente abrogate dall’art. 149 decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo) che ha interamente riformulato e riformato la materia.
Il Codice, nel definire come “particolari” tutte le modalità diverse dal contratto concluso all’interno dei tradizionali locali commerciali, riconosce a quest’ultimo una valenza generale di base, una sorta di modello di contrattazione caratterizzato dalla consapevole azione dell’utente del prodotto o del servizio.
La normativa comunitaria a tutela del consumatore ruota in effetti intorno ad un nuovo modello contrattuale e di mercato ben lontano da quello ora descritto, perché caratterizzato proprio da nuovi strumenti e meccanismi di contrattazione in cui il consumatore si trova rispetto all’interlocutore professionale in una posizione di squilibrio informativo.
L’azione del legislatore comunitario è stata orientata ad interventi normativi di ripristino non tanto di una parità di condizioni, bensì di equilibrio nella contrattazione.
Sulla scorta di queste indicazioni la soluzione in concreto seguita dal legislatore italiano è stata nel senso di contemplare, in seno alla stessa disciplina generale del contratto e dei singoli tipi contrattuali di derivazione europea, l’obbligo di trasmissione al consumatore delle informazioni indispensabili per il corretto funzionamento di un mercato pienamente concorrenziale, perché il fruitore di un servizio o acquirente di un bene quanto più compiutamente informato, tanto più è in condizione di orientare consapevolmente ed efficacemente la propria scelta.
La portata innovativa del Codice del consumo risiede dunque anche in questa serie di considerazioni: il sistema delle informazioni preventive fornite al consumatore non rappresenta una fase estrinseca all’operazione negoziale, ma entra a far parte delle singole manifestazioni dell’autonomia contrattuale.
Questo ordine di valutazioni è alla base della regolamentazione di cui al decreto legislativo 70/2003, il cui principale e dichiarato obiettivo è quello di promuovere il commercio elettronico, inteso come uno dei servizi della società dell’informazione.
Tale obiettivo risulta funzionalmente perseguito attraverso la predisposizione di regole chiare e trasparenti che consentano di attuare un regime pienamente concorrenziale, il quale dovrebbe contribuire ad una migliore scelta e qualità dei prodotti offerti e consegnati (dal punto di vista dei fruitori del servizio telematico) e ad escogitare nuove soluzioni tecniche che favoriscano l’abbattimento dei costi di produzione (garantendo così anche una maggiore competitività tra i diversi operatori commerciali).
Ciò condurrebbe, secondo i propositi del nostro legislatore (e di quello comunitario) ad accrescere la fiducia degli utenti nella contrattazione telematica.
Tale fiducia dovrebbe attuarsi attraverso la predisposizione di meccanismi che garantiscano sicurezza, trasparenza ed affidabilità delle comunicazioni in rete, nonché la certezza dell’integrità del documento.
L’introduzione di una serie di obblighi preventivi di informazione a carico dei prestatori di servizi della società dell’informazione risponde appunto a questi obiettivi.
Obblighi informativi che, peraltro, non eliminano quelli già esistenti per determinati beni e servizi (ad esempio, operazioni finanziarie di investimento in valori mobiliari ovvero diritti di godimento parziale di beni immobili) e diventano ancor più stringenti quando la comunicazione informatica è specificamente destinata a finalità commerciali.
Caratteristica di tali informazioni è l’obbligatorietà e la preventiva diffusione.
Il corredo di informazioni deve esse fornito indipendentemente da una richiesta espressa del destinatario o del consumatore e deve essere facilmente accessibile in modo diretto e permanente (art. 7). a prescindere dal fatto che il soggetto cui è diretta la comunicazione telematica concluda o meno il contratto ed indipendentemente dal concreto contenuto di quest’ultimo.
Il legislatore ha così elaborato i parametri di “facilità” ed “accessibilità diretta”: tali nozioni, strutturate lessicalmente come un’endiadi, in realtà rappresentano due modalità specifiche, l’una intesa come semplicità nell’intellegibilità, l’altra intesa come comodità di lettura.
La permanenza va invece intesa in combinato disposto con il comma successivo che impone al prestatore l’obbligo di aggiornare le informazioni fornite. Deve quindi ritenersi che il requisito della permanenza vada inteso nel senso che dovrà essere garantita la possibilità di memorizzare e riprodurre le informazioni minime imposte dalla norma.
In altro senso non si può escludere che il requisito della “permanenza” indichi un criterio temporale, secondo cui le informazioni devono essere sempre “facilmente accessibili”, anche successivamente alla conclusione del contratto e per tutto il tempo della sua esecuzione.
Nei casi in cui l’attività del prestatore di servizi consista nell’invio di comunicazioni commerciali, alle informazioni obbligatorie appena indicate se ne affiancano di ulteriori.
Secondo l’art. 2, la nozione di comunicazione commerciale coincide con tutte le forme di comunicazione destinate, in modo diretto o indiretto a promuovere beni, servizi o l’immagine di un’impresa, di un’organizzazione o di un soggetto che esercita un’attività agricola, commerciale, industriale, artigianale o una libera professione.
Non costituiscono comunicazioni commerciali (art. 2 lett. f) quelle informazioni che consentono un accesso diretto all’attività d’impresa, del soggetto o dell’organizzazione, come nome di dominio, o un indirizzo di posta elettronica ovvero relative a beni, servizi, immagine di tale impresa, soggetto o organizzazione elaborate in modo indipendente, senza corrispettivo.
La nozione di comunicazione commerciale dovrebbe quindi intendersi come informazione relativa ai beni, servizi o all’immagine di un’impresa elaborata dietro corrispettivo.
Nell’ipotesi di comunicazione non specificamente commerciale il legislatore ha dunque inteso salvaguardare la correttezza nella formazione del consenso contrattuale e la buona fede nell’esecuzione del contratto, rendendo noti una serie di indizi in forza dei quali il contraente telematico può conoscere esattamente l’identità del proponente il bene o servizio e conseguentemente può orientare la propria scelta verso questo o quel prestatore e, successivamente alla conclusione del contratto, mantenere una possibilità di dialogo con il prestatore anche per la fase relativa all’esecuzione del contratto.
Qualora si tratti di informazione commerciale, la specifica informativa deve precisare in modo chiaro ed inequivocabile che si tratta di una comunicazione con quella finalità; in tal modo si dovrebbe poter scongiurare l’invio di messaggi pubblicitari occulti, per i quali non sarebbe neppure possibile l’esercizio del diritto di opporsi ad ulteriori e future comunicazioni.
La scelta del legislatore è sintomatica di una ratio: l’attenzione dedicata alla disciplina della forma muove dal convincimento secondo cui alcuna influenza sull’operazione economica riveste la scelta dello strumento utilizzato.
Il decreto legislativo 70/2003 non prevede comminatorie di inefficacia, e comunque non per l’incidenza dello strumento informatico sul contratto.
Tuttavia, disponendo analitici obblighi informativi in ragione dello strumento usato per concludere il contratto, anche quando non si tratti di rapporti con i consumatori, attesta la volontà di collegarvi una peculiare forma di tutela, inderogabile però solo nei rapporti B2C, e connessa al ruolo di prestatore di servizi prima ancora che al suo indispensabile strumento.
In considerazione del contenuto del decreto legislativo 70/2003 si potrebbe ritenere sussistente una connessione tra la “debolezza” meritevole di tutela al ruolo di acquirente rivestito dal consumatore o dal destinatario del servizio.
Tale ordine di valutazioni conduce l’interprete a concentrare la propria attenzione più al ruolo contrattuale che allo strumento della contrattazione e al fenomeno della distanza più che allo strumento utilizzato.
La ricostruzione dell’esperienza giuridica maturata a livello normativo nazionale, comunitario e transnazionale evidenzia il variegato estendersi della rete di protezione e di disciplina a favore del fruitore dei prodotti dell’impresa anche come navigatore telematico.
Il dato comune che se ne può ricavare è rappresentato dall’indirizzarsi della tutela al fruitore dei prodotti dell’impresa: il destinatario della protezione è tutelato nella fase antecedente all’atto di scambio (messaggi pubblicitari, informazioni preventive), in occasione dell’atto di scambio (controllo della vessatorietà delle clausole, garanzia di informazione) e successivamente allo stesso (disciplina del recesso, ipotesi di declaratoria di invalidità).
Taluni meccanismi di tutela operano solo con riferimento al “consumatore” a fronte di una controparte che assume la qualifica di professionista, mentre altre (ad esempio, in materia di pubblicità) sono estese agli altri operatori economici.
Sorge allora l’interrogativo sulla ragione che abbia spinto il legislatore a richiedere quale presupposto applicativo il ricorrere della qualifica formale di “consumatore” solo per alcune normative ed abbia invece predisposto altre forme di tutela generalizzata a clienti e contraenti per tutti i fruitori o destinatari dei servizi d’impresa.
La tutela generalizzata del fruitore dei servizi d’impresa (ossia non condizionata dal ricorrere della qualifica formale di consumatore) è rivolta al soddisfacimento di specifiche esigenze quali i diritti della persona umana, dirimenti rispetto ad ogni qualificazione economica del soggetto fruitore (si pensi alla disciplina relativa alla pubblicità ingannevole), alla garanzia di trasparenza del mercato (si pensi alla disciplina relativa agli obblighi di informazione di cui al decreto legislativo 70/2003), alla tutela verso imprese oggettivamente deboli nei confronti della propria controparte contrattuale.
Nel mercato ciò che rileva è la concreta forza negoziale della categoria di appartenenza.
Il soggetto che accede ai prodotti di un’imprese è tutelato nella mera dimensione oggettiva di fruitore degli stessi: ci si riferisce alla posizione del cliente di una compagnia di assicurazione, di un istituto di credito, nell’acquisto di prodotti finanziari ovvero di pacchetti turistici.
La tutela accordata al fruitore dei prodotti dell’impresa si giustifica con la valutazione operata dalla legge di una sua istituzionale debolezza rispetto ai ceti bancario, finanziario, assicurativo: in definitiva, opera una tutela oggettiva e perciò generalizzata.
Il dibattito intorno alla tutela del fruitore dei prodotti dell’impresa, specie a seguito del delinearsi di una nozione comunitaria di consumatore, si è orientato essenzialmente in due direzioni: l’una, espressione di uno status di debolezza da proteggere, l’altra espressione di un modello di accesso al mercato.
Nel primo senso si pone l’attenzione alla ratio di quegli interventi legislativi diretti ad accordare protezione alla persona fisica che, sollecitata dai richiami dell’impresa, accede ai consumi indotti dalla pubblicità e nella maggior parte dei casi accetta supinamente le condizioni praticate dall’impresa.
Nella seconda prospettiva si vuole tutelare l’operatore economico che, nel mercato, non è in grado di competere su un piano di parità con le organizzazioni di produzione e distribuzione di massa.
La disamina degli interventi normativi elaborati anche in sede comunitaria negli ultimi quindici anni (ivi compresa la normativa sul contratto telematico) consente peraltro di arricchire quest’ultima impostazione, suggerendo una nuova prospettiva di inquadramento: il valore da difendere e da proteggere è quello dell’equilibrio contrattuale, pregiudicato in tutte quelle situazioni in cui colui che acceda ai servizi di un’impresa non sia in grado di svolgere liberamente e consapevolmente le proprie valutazioni, per un problema di scarsa conoscenza, o per una non corretta informazione, o ancora per una redazione del contratto effettuata non secondo buona fede.
In ogni disequilibrio negoziale si rinviene (come già accaduto per la tutela del consumatore) una parte contrattuale che, grazie alla propria forza economica, determina un vero e proprio abuso.
Con la Legge 18 giugno 1998, n. 192 il legislatore sanziona il comportamento di un’impresa che, trovandosi in posizione di preminenza economica, abusi di tale sua forza e quindi dello stato di dipendenza economica e tecnologica dell’impresa cliente o fornitrice, disponendo la nullità della clausola contrattuale attraverso cui si realizza tale abuso. Il legislatore nazionale ha così trasfuso l’originale idea della tutela dell’equilibrio contrattuale, proposta dal legislatore comunitario, dal piano dei rapporti tra professionista (spesso un’impresa) ed il cliente-consumatore a quello dei rapporti di subfornitura, tra imprese di grandi dimensioni e quelle di dimensioni più piccole.
Il successivo decreto legislativo 231 del 9 ottobre 2002 (disciplina sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali), attuativo di una Direttiva comunitaria (2000/35/CE), rispecchia la scelta di tutelare il mercato da qualsiasi situazione di abuso di posizione contrattuale.
Anche in questo caso, l’intento perseguito è quello di rimuovere le situazioni di abuso che paralizzano il mercato e determinano una limitazione nella circolazione del denaro: la parte contrattuale debole è stata individuata nel creditore il quale sopporta il ritardo nel pagamento della prestazione debitoria, non potendo contare su strumenti giuridici che lo tutelino, se non ricorrendo all’azione giudiziaria e alle lungaggini ad essa collegate. Tutti questi interventi normativi (la maggior parte dei quali indotti dalla necessità di adeguare l’ordinamento interno alla legislazione comunitaria) rivelano la sempre crescente attenzione del legislatore a predisporre adeguati strumenti di tutela per evitare la sproporzione tra le prestazioni dei contraenti ed ogni situazione di squilibrio economico-giuridico delle parti.
E’ la c.d. ingiustizia contrattuale, che ha visto l’elaborazione di una categoria giuridica specifica: quella della sproporzione, del significativo squilibrio tra le prestazioni.
Sia la legislazione speciale che quella di derivazione comunitaria hanno fatto costante uso di questa categoria concettuale.
Pure nella loro apparente frammentarietà, gli interventi comunitari sulla disciplina del contratto hanno rinnovato non solo l’ordinamento italiano ma anche quello degli altri Paesi europei che in tal modo si vanno progressivamente allineando ai principi del diritto comunitario ed alle regole interpretative elaborate dalla Corte di Giustizia.
Sotto questo profilo, è forse corretta l’opinione di coloro che ritengono doveroso un aggiornamento del diritto dei contratti delineato dal legislatore del 1942: in molte discipline si è venuto infatti a sedimentare un insieme disomogeneo e disorganico di discipline che risultano spesso incompatibili con i principi giuridici fondamentali, cardini dei singoli codici civili nazionali dei singoli Paesi Membri dell’Unione.
Forse, integrazione e cooperazione fra i Paesi dell’Unione potrebbe anche significare adozione di un comune “codice dei contratti”, come da più parti si chiede, anche nell’ottica di quell’aspirazione all’integrazione legislativa che consentirebbe una maggiore certezza nei traffici commerciali.
Il Parlamento europeo da tempo coltiva l’ambizioso obiettivo di non tanto di un mero riavvicinamento delle legislazioni nazionali in materia contrattuale, quanto dell’elaborazione di un vero e proprio codice comune europeo che disciplini l’intera materia del diritto privato.
Tale intenzione ha ispirato l’insediamento della Commissione per il diritto contrattuale europeo (Commissione Lando) che ha pubblicato già nel 2000 la seconda edizione dei Principi di diritto europeo dei contratti regole non vincolanti che possono però essere adottate dai contraenti nell’esercizio della propria autonomia contrattuale per disciplinare i contratti.
Nella medesima direzione si collocano anche i Principi dei contratti commerciali internazionali elaborati dall’Unidroit.
Certo il cammino verso una legislazione uniforme non è facile e presenta luci ed ombre: l’adozione di principi vincolanti mediante un “codice dei contratti”, se da un lato potrebbe costituire lo strumento più efficace per risolvere i problemi di uniformazione della disciplina degli ordinamenti nazionali, dall’altro potrebbe scontrarsi con la diversità degli ordinamenti interni di diversa tradizione giuridica, lasciando insoluto il problema delle lacune non facilmente colmabili.
Del resto il modello codicistico, nel prevedere regole specifiche e di dettaglio, difficilmente riesce a seguire il divenire dell’evoluzione economica e sociale.
E’ auspicabile che questa revisione del “diritto dei consumatori” condotta dal legislatore comunitario segni la prima tappa di un percorso che possa davvero condurre all’elaborazione di soluzioni e terminologie uniformi non solo per una particolare categoria contrattuale, ma di tutta la materia contrattuale e compiutamente del diritto privato.
Sin dall’ultimo decennio dell’ormai trascorso XX° secolo, soprattutto sulla scorta di indicazioni provenienti dagli organi comunitari, anche il legislatore italiano ha dedicato la propria attenzione alla materia del commercio elettronico.
Sono state così appositamente promulgate norme destinate a regolamentare in modo specifico fattispecie riconducibili all’ambito dell’e-commerce strettamente inteso, ovvero di carattere più generale, estensibili per interpretazione analogica anche al commercio elettronico.
Il primo testo legislativo italiano ove viene riportata una norma puntualmente destinata al commercio per via telematica è il decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art. 4, quarto comma, Legge 15 marzo 1997 n. 59): al Titolo IV dedicato alle “Forme speciali di vendita al dettaglio”, compare l’art. 21 rubricato appunto “Commercio Elettronico”.
Questa norma non possiede soltanto un valore meramente programmatico, ma preannuncia l’intervento del legislatore nella disciplina del commercio elettronico (intervento che verrà attuato compiutamente con il decreto legislativo 70/2003) anche e soprattutto grazie alla cooperazione europea ed internazionale per lo sviluppo comune del commercio elettronico, ed offre altresì alcune interessanti indicazioni relative alle direttrici imboccate dall’ordinamento italiano nel disciplinare la contrattazione telematica.
Anzitutto l’attenzione all’”equilibrio” del mercato, affinché gli scambi commerciali si svolgano nel rispetto delle condizioni di trasparenza, affidabilità e consapevolezza.
Per raggiungere questi obiettivi, il legislatore considera preminenti l’interesse dei consumatori ad una puntuale informazione e la predisposizione di misure ed interventi volti ad assicurare l’affidabilità degli operatori commerciali e la piena partecipazione degli stessi al processo di informatizzazione.
La promozione dell’interesse e della fiducia dei consumatori non possono procedere disgiuntamente dalla promozione della competitività delle imprese attraverso l’implementazione della contrattazione telematica.
La sempre maggiore crescente ampiezza degli scambi negoziati fuori dai locali commerciali, o mediante l’impiego di strumenti di contrattazione a distanza, ha condotto l’interesse del legislatore italiano a svolgere una serie di interventi diretti a tutelare l’equilibrio contrattuale in quelle situazioni in cui il consumatore si fosse trovato particolarmente impreparato e quindi esposto alle conseguenze di una scelta non del tutto consapevole.
Anche sulla scorta delle indicazioni fornite dal legislatore comunitario, furono così promulgate tra il 1992 ed il 1998 una serie di normative note come leggi a tutela del consumatore, espressamente abrogate dall’art. 149 decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo) che ha interamente riformulato e riformato la materia.
Il Codice, nel definire come “particolari” tutte le modalità diverse dal contratto concluso all’interno dei tradizionali locali commerciali, riconosce a quest’ultimo una valenza generale di base, una sorta di modello di contrattazione caratterizzato dalla consapevole azione dell’utente del prodotto o del servizio.
La normativa comunitaria a tutela del consumatore ruota in effetti intorno ad un nuovo modello contrattuale e di mercato ben lontano da quello ora descritto, perché caratterizzato proprio da nuovi strumenti e meccanismi di contrattazione in cui il consumatore si trova rispetto all’interlocutore professionale in una posizione di squilibrio informativo.
L’azione del legislatore comunitario è stata orientata ad interventi normativi di ripristino non tanto di una parità di condizioni, bensì di equilibrio nella contrattazione.
Sulla scorta di queste indicazioni la soluzione in concreto seguita dal legislatore italiano è stata nel senso di contemplare, in seno alla stessa disciplina generale del contratto e dei singoli tipi contrattuali di derivazione europea, l’obbligo di trasmissione al consumatore delle informazioni indispensabili per il corretto funzionamento di un mercato pienamente concorrenziale, perché il fruitore di un servizio o acquirente di un bene quanto più compiutamente informato, tanto più è in condizione di orientare consapevolmente ed efficacemente la propria scelta.
La portata innovativa del Codice del consumo risiede dunque anche in questa serie di considerazioni: il sistema delle informazioni preventive fornite al consumatore non rappresenta una fase estrinseca all’operazione negoziale, ma entra a far parte delle singole manifestazioni dell’autonomia contrattuale.
Questo ordine di valutazioni è alla base della regolamentazione di cui al decreto legislativo 70/2003, il cui principale e dichiarato obiettivo è quello di promuovere il commercio elettronico, inteso come uno dei servizi della società dell’informazione.
Tale obiettivo risulta funzionalmente perseguito attraverso la predisposizione di regole chiare e trasparenti che consentano di attuare un regime pienamente concorrenziale, il quale dovrebbe contribuire ad una migliore scelta e qualità dei prodotti offerti e consegnati (dal punto di vista dei fruitori del servizio telematico) e ad escogitare nuove soluzioni tecniche che favoriscano l’abbattimento dei costi di produzione (garantendo così anche una maggiore competitività tra i diversi operatori commerciali).
Ciò condurrebbe, secondo i propositi del nostro legislatore (e di quello comunitario) ad accrescere la fiducia degli utenti nella contrattazione telematica.
Tale fiducia dovrebbe attuarsi attraverso la predisposizione di meccanismi che garantiscano sicurezza, trasparenza ed affidabilità delle comunicazioni in rete, nonché la certezza dell’integrità del documento.
L’introduzione di una serie di obblighi preventivi di informazione a carico dei prestatori di servizi della società dell’informazione risponde appunto a questi obiettivi.
Obblighi informativi che, peraltro, non eliminano quelli già esistenti per determinati beni e servizi (ad esempio, operazioni finanziarie di investimento in valori mobiliari ovvero diritti di godimento parziale di beni immobili) e diventano ancor più stringenti quando la comunicazione informatica è specificamente destinata a finalità commerciali.
Caratteristica di tali informazioni è l’obbligatorietà e la preventiva diffusione.
Il corredo di informazioni deve esse fornito indipendentemente da una richiesta espressa del destinatario o del consumatore e deve essere facilmente accessibile in modo diretto e permanente (art. 7). a prescindere dal fatto che il soggetto cui è diretta la comunicazione telematica concluda o meno il contratto ed indipendentemente dal concreto contenuto di quest’ultimo.
Il legislatore ha così elaborato i parametri di “facilità” ed “accessibilità diretta”: tali nozioni, strutturate lessicalmente come un’endiadi, in realtà rappresentano due modalità specifiche, l’una intesa come semplicità nell’intellegibilità, l’altra intesa come comodità di lettura.
La permanenza va invece intesa in combinato disposto con il comma successivo che impone al prestatore l’obbligo di aggiornare le informazioni fornite. Deve quindi ritenersi che il requisito della permanenza vada inteso nel senso che dovrà essere garantita la possibilità di memorizzare e riprodurre le informazioni minime imposte dalla norma.
In altro senso non si può escludere che il requisito della “permanenza” indichi un criterio temporale, secondo cui le informazioni devono essere sempre “facilmente accessibili”, anche successivamente alla conclusione del contratto e per tutto il tempo della sua esecuzione.
Nei casi in cui l’attività del prestatore di servizi consista nell’invio di comunicazioni commerciali, alle informazioni obbligatorie appena indicate se ne affiancano di ulteriori.
Secondo l’art. 2, la nozione di comunicazione commerciale coincide con tutte le forme di comunicazione destinate, in modo diretto o indiretto a promuovere beni, servizi o l’immagine di un’impresa, di un’organizzazione o di un soggetto che esercita un’attività agricola, commerciale, industriale, artigianale o una libera professione.
Non costituiscono comunicazioni commerciali (art. 2 lett. f) quelle informazioni che consentono un accesso diretto all’attività d’impresa, del soggetto o dell’organizzazione, come nome di dominio, o un indirizzo di posta elettronica ovvero relative a beni, servizi, immagine di tale impresa, soggetto o organizzazione elaborate in modo indipendente, senza corrispettivo.
La nozione di comunicazione commerciale dovrebbe quindi intendersi come informazione relativa ai beni, servizi o all’immagine di un’impresa elaborata dietro corrispettivo.
Nell’ipotesi di comunicazione non specificamente commerciale il legislatore ha dunque inteso salvaguardare la correttezza nella formazione del consenso contrattuale e la buona fede nell’esecuzione del contratto, rendendo noti una serie di indizi in forza dei quali il contraente telematico può conoscere esattamente l’identità del proponente il bene o servizio e conseguentemente può orientare la propria scelta verso questo o quel prestatore e, successivamente alla conclusione del contratto, mantenere una possibilità di dialogo con il prestatore anche per la fase relativa all’esecuzione del contratto.
Qualora si tratti di informazione commerciale, la specifica informativa deve precisare in modo chiaro ed inequivocabile che si tratta di una comunicazione con quella finalità; in tal modo si dovrebbe poter scongiurare l’invio di messaggi pubblicitari occulti, per i quali non sarebbe neppure possibile l’esercizio del diritto di opporsi ad ulteriori e future comunicazioni.
La scelta del legislatore è sintomatica di una ratio: l’attenzione dedicata alla disciplina della forma muove dal convincimento secondo cui alcuna influenza sull’operazione economica riveste la scelta dello strumento utilizzato.
Il decreto legislativo 70/2003 non prevede comminatorie di inefficacia, e comunque non per l’incidenza dello strumento informatico sul contratto.
Tuttavia, disponendo analitici obblighi informativi in ragione dello strumento usato per concludere il contratto, anche quando non si tratti di rapporti con i consumatori, attesta la volontà di collegarvi una peculiare forma di tutela, inderogabile però solo nei rapporti B2C, e connessa al ruolo di prestatore di servizi prima ancora che al suo indispensabile strumento.
In considerazione del contenuto del decreto legislativo 70/2003 si potrebbe ritenere sussistente una connessione tra la “debolezza” meritevole di tutela al ruolo di acquirente rivestito dal consumatore o dal destinatario del servizio.
Tale ordine di valutazioni conduce l’interprete a concentrare la propria attenzione più al ruolo contrattuale che allo strumento della contrattazione e al fenomeno della distanza più che allo strumento utilizzato.
La ricostruzione dell’esperienza giuridica maturata a livello normativo nazionale, comunitario e transnazionale evidenzia il variegato estendersi della rete di protezione e di disciplina a favore del fruitore dei prodotti dell’impresa anche come navigatore telematico.
Il dato comune che se ne può ricavare è rappresentato dall’indirizzarsi della tutela al fruitore dei prodotti dell’impresa: il destinatario della protezione è tutelato nella fase antecedente all’atto di scambio (messaggi pubblicitari, informazioni preventive), in occasione dell’atto di scambio (controllo della vessatorietà delle clausole, garanzia di informazione) e successivamente allo stesso (disciplina del recesso, ipotesi di declaratoria di invalidità).
Taluni meccanismi di tutela operano solo con riferimento al “consumatore” a fronte di una controparte che assume la qualifica di professionista, mentre altre (ad esempio, in materia di pubblicità) sono estese agli altri operatori economici.
Sorge allora l’interrogativo sulla ragione che abbia spinto il legislatore a richiedere quale presupposto applicativo il ricorrere della qualifica formale di “consumatore” solo per alcune normative ed abbia invece predisposto altre forme di tutela generalizzata a clienti e contraenti per tutti i fruitori o destinatari dei servizi d’impresa.
La tutela generalizzata del fruitore dei servizi d’impresa (ossia non condizionata dal ricorrere della qualifica formale di consumatore) è rivolta al soddisfacimento di specifiche esigenze quali i diritti della persona umana, dirimenti rispetto ad ogni qualificazione economica del soggetto fruitore (si pensi alla disciplina relativa alla pubblicità ingannevole), alla garanzia di trasparenza del mercato (si pensi alla disciplina relativa agli obblighi di informazione di cui al decreto legislativo 70/2003), alla tutela verso imprese oggettivamente deboli nei confronti della propria controparte contrattuale.
Nel mercato ciò che rileva è la concreta forza negoziale della categoria di appartenenza.
Il soggetto che accede ai prodotti di un’imprese è tutelato nella mera dimensione oggettiva di fruitore degli stessi: ci si riferisce alla posizione del cliente di una compagnia di assicurazione, di un istituto di credito, nell’acquisto di prodotti finanziari ovvero di pacchetti turistici.
La tutela accordata al fruitore dei prodotti dell’impresa si giustifica con la valutazione operata dalla legge di una sua istituzionale debolezza rispetto ai ceti bancario, finanziario, assicurativo: in definitiva, opera una tutela oggettiva e perciò generalizzata.
Il dibattito intorno alla tutela del fruitore dei prodotti dell’impresa, specie a seguito del delinearsi di una nozione comunitaria di consumatore, si è orientato essenzialmente in due direzioni: l’una, espressione di uno status di debolezza da proteggere, l’altra espressione di un modello di accesso al mercato.
Nel primo senso si pone l’attenzione alla ratio di quegli interventi legislativi diretti ad accordare protezione alla persona fisica che, sollecitata dai richiami dell’impresa, accede ai consumi indotti dalla pubblicità e nella maggior parte dei casi accetta supinamente le condizioni praticate dall’impresa.
Nella seconda prospettiva si vuole tutelare l’operatore economico che, nel mercato, non è in grado di competere su un piano di parità con le organizzazioni di produzione e distribuzione di massa.
La disamina degli interventi normativi elaborati anche in sede comunitaria negli ultimi quindici anni (ivi compresa la normativa sul contratto telematico) consente peraltro di arricchire quest’ultima impostazione, suggerendo una nuova prospettiva di inquadramento: il valore da difendere e da proteggere è quello dell’equilibrio contrattuale, pregiudicato in tutte quelle situazioni in cui colui che acceda ai servizi di un’impresa non sia in grado di svolgere liberamente e consapevolmente le proprie valutazioni, per un problema di scarsa conoscenza, o per una non corretta informazione, o ancora per una redazione del contratto effettuata non secondo buona fede.
In ogni disequilibrio negoziale si rinviene (come già accaduto per la tutela del consumatore) una parte contrattuale che, grazie alla propria forza economica, determina un vero e proprio abuso.
Con la Legge 18 giugno 1998, n. 192 il legislatore sanziona il comportamento di un’impresa che, trovandosi in posizione di preminenza economica, abusi di tale sua forza e quindi dello stato di dipendenza economica e tecnologica dell’impresa cliente o fornitrice, disponendo la nullità della clausola contrattuale attraverso cui si realizza tale abuso. Il legislatore nazionale ha così trasfuso l’originale idea della tutela dell’equilibrio contrattuale, proposta dal legislatore comunitario, dal piano dei rapporti tra professionista (spesso un’impresa) ed il cliente-consumatore a quello dei rapporti di subfornitura, tra imprese di grandi dimensioni e quelle di dimensioni più piccole.
Il successivo decreto legislativo 231 del 9 ottobre 2002 (disciplina sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali), attuativo di una Direttiva comunitaria (2000/35/CE), rispecchia la scelta di tutelare il mercato da qualsiasi situazione di abuso di posizione contrattuale.
Anche in questo caso, l’intento perseguito è quello di rimuovere le situazioni di abuso che paralizzano il mercato e determinano una limitazione nella circolazione del denaro: la parte contrattuale debole è stata individuata nel creditore il quale sopporta il ritardo nel pagamento della prestazione debitoria, non potendo contare su strumenti giuridici che lo tutelino, se non ricorrendo all’azione giudiziaria e alle lungaggini ad essa collegate. Tutti questi interventi normativi (la maggior parte dei quali indotti dalla necessità di adeguare l’ordinamento interno alla legislazione comunitaria) rivelano la sempre crescente attenzione del legislatore a predisporre adeguati strumenti di tutela per evitare la sproporzione tra le prestazioni dei contraenti ed ogni situazione di squilibrio economico-giuridico delle parti.
E’ la c.d. ingiustizia contrattuale, che ha visto l’elaborazione di una categoria giuridica specifica: quella della sproporzione, del significativo squilibrio tra le prestazioni.
Sia la legislazione speciale che quella di derivazione comunitaria hanno fatto costante uso di questa categoria concettuale.
Pure nella loro apparente frammentarietà, gli interventi comunitari sulla disciplina del contratto hanno rinnovato non solo l’ordinamento italiano ma anche quello degli altri Paesi europei che in tal modo si vanno progressivamente allineando ai principi del diritto comunitario ed alle regole interpretative elaborate dalla Corte di Giustizia.
Sotto questo profilo, è forse corretta l’opinione di coloro che ritengono doveroso un aggiornamento del diritto dei contratti delineato dal legislatore del 1942: in molte discipline si è venuto infatti a sedimentare un insieme disomogeneo e disorganico di discipline che risultano spesso incompatibili con i principi giuridici fondamentali, cardini dei singoli codici civili nazionali dei singoli Paesi Membri dell’Unione.
Forse, integrazione e cooperazione fra i Paesi dell’Unione potrebbe anche significare adozione di un comune “codice dei contratti”, come da più parti si chiede, anche nell’ottica di quell’aspirazione all’integrazione legislativa che consentirebbe una maggiore certezza nei traffici commerciali.
Il Parlamento europeo da tempo coltiva l’ambizioso obiettivo di non tanto di un mero riavvicinamento delle legislazioni nazionali in materia contrattuale, quanto dell’elaborazione di un vero e proprio codice comune europeo che disciplini l’intera materia del diritto privato.
Tale intenzione ha ispirato l’insediamento della Commissione per il diritto contrattuale europeo (Commissione Lando) che ha pubblicato già nel 2000 la seconda edizione dei Principi di diritto europeo dei contratti regole non vincolanti che possono però essere adottate dai contraenti nell’esercizio della propria autonomia contrattuale per disciplinare i contratti.
Nella medesima direzione si collocano anche i Principi dei contratti commerciali internazionali elaborati dall’Unidroit.
Certo il cammino verso una legislazione uniforme non è facile e presenta luci ed ombre: l’adozione di principi vincolanti mediante un “codice dei contratti”, se da un lato potrebbe costituire lo strumento più efficace per risolvere i problemi di uniformazione della disciplina degli ordinamenti nazionali, dall’altro potrebbe scontrarsi con la diversità degli ordinamenti interni di diversa tradizione giuridica, lasciando insoluto il problema delle lacune non facilmente colmabili.
Del resto il modello codicistico, nel prevedere regole specifiche e di dettaglio, difficilmente riesce a seguire il divenire dell’evoluzione economica e sociale.
E’ auspicabile che questa revisione del “diritto dei consumatori” condotta dal legislatore comunitario segni la prima tappa di un percorso che possa davvero condurre all’elaborazione di soluzioni e terminologie uniformi non solo per una particolare categoria contrattuale, ma di tutta la materia contrattuale e compiutamente del diritto privato.