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Let the Music Play: la censura sovietica al tempo della disco

Disco music
Disco music

In un’epoca travagliata come quella immediatamente attuale, trattare di “febbre del sabato sera” ha tutta la parvenza di un beffardo gioco di parole. Eppure, forse nessun termine riuscirebbe a cogliere in maniera più icastica quell’ondata pandemica che, quarant’anni prima del Covid-19, contagiò i quattro angoli del globo: la disco.

Ragionando in termini medici, se ne potrebbe identificare il “paziente zero” in quel discreto numero di disk jockeys che, alla fine degli anni ’60, iniziarono a proporre musica dance nei locali notturni della costa orientale statunitense e dell’Europa occidentale; ed il suo picco nell’anno di grazia 1977, collocazione temporale sia dell’inaugurazione di quel tempio dell’edonismo newyorkese noto come Studio 54 (26 aprile) sia dell’uscita nelle sale de La febbre del sabato sera (16 dicembre) – destinata a divenire pellicola di culto nonché trampolino di lancio per le carriere di John Travolta e dei Bee Gees.

Ogni pandemia che si rispetti è per definizione un fenomeno mondiale – e la disco music non fece eccezione (pur essendo i suoi focolai principali saldamente localizzati in Occidente). La questione assume però una valenza particolare se si inserisce la disco fever nel suo contesto temporale di appartenenza, ovverosia la fine degli anni ’70.

A livello internazionale, il 1977 segnò l’ascesa alla Casa Bianca del democratico Jimmy Carter e la “discesa” (più fisica che politica) del segretario generale sovietico Leonid Brežnev – gravemente malato dal 1974 e prossimo ormai alla morte, sopravvenuta per infarto nel 1982. Sin dai primi giorni, quella di Carter volle contraddistinguersi come una presidenza “umanitaria”, come ribadito dal presidente stesso in occasione della 32ª Assemblea generale dell’ONU (dove affermò che gli Stati Uniti avevano uno "storico diritto di nascita" di essere associati ai diritti umani), riferendosi in particolare alle violazioni delle libertà fondamentali verificatesi in Cecoslovacchia, Unione Sovietica ed Uganda. Qualche mese più tardi, lo stesso Carter avrebbe irrigidito la postura nei confronti di Mosca conseguentemente all’invasione sovietica dell’Afghanistan (24 dicembre 1979) ed alla scoperta del dispiegamento di una brigata di combattimento dell’Armata Rossa a Cuba[1] – in realtà presente sull’isola dalla crisi cubana del 1962[2]. Tra le decisioni ritorsive prese da Washington la più eclatante fu il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980, seguita a ruota da Canada, Giappone, Cina, Paesi arabi, Germania Ovest e decine di altri Paesi.

La XXII Olimpiade passò però alla storia anche per un altro aspetto, politicamente secondario ma di indiscutibile impatto culturale. Nel bel mezzo del villaggio olimpico moscovita predisposto per gli atleti, difatti, le autorità sovietiche avevano deciso di installare una discoteca – insieme ad alcune altre già sparse per tutta la città. La vera notizia è che la decisione non venne affatto avvertita come sorprendente dall’opinione pubblica, dato che la liaison sovietica per la musica disco occidentale era già stata palesata dall’invito ufficiale al gruppo tedesco-occidentale Boney M. ad esibirsi nell’Unione due anni prima, nel 1978 – un onore invero riservato a pochissimi artisti stranieri sino a quel momento[3]. Conosciuta ai più per aver sfornato una discreta quantità di singoli di successo come “Rasputin”, “Sunny” e “Daddy Cool”, la band non godette di assoluta libertà artistica ad est della “cortina di ferro”. Venne difatti imposta loro la censura degli elementi più marcatamente erotici o “controversi” della propria produzione musicale (l’ironica hit “Rasputin”, ispirata al celebre personaggio e presunto amante della zarina Aleksandra Romanova, fu oggetto di un divieto di riproduzione tout court). Ciononostante, l’evento in sé ebbe una portata storica, segno di un mutato atteggiamento nei confronti della musica straniera – rectius di un dato tipo di musica – da parte delle autorità di Mosca (in particolare dell’Unione della Gioventù Comunista Leninista sovietica, in sigla “Komsomol”).

Pochi anni prima, a cavallo tra gli anni ’60 e i primi anni ‘70, i sovietici avevano al contrario imposto una rigida censura per il sound allora in voga nei Paesi atlantici. La mossa aveva una propria logica, dal momento che sarebbe stato un quintessenziale atto di autolesionismo quello di “importare” inni al pacifismo ed alla giustizia sociale à la Bob Dylan in un sistema governato da chi, negli stessi anni, era stato costretto ad intervenire manu militari per sedare la “primavera di Praga” (indice di una crescente disaffezione degli Stati socialisti satelliti verso il potere moscovita). La forte carica etico-sociale del rock “impegnato” rendeva quest’ultimo un pericolo da tenere fuori dai confini imperiali a tutti i costi – pur con relativo successo, dato il fiorente commercio di vinili d’importazione sul mercato nero.

La disco, però, era qualcosa di completamente diverso. Già dai primi anni ’70, le tancploščadki (“sale da ballo”) erano divenute un fenomeno di costume, specialmente nella regione baltica e nella Russia europea. Tra i primi archetipi fu un piccolo caffè nell’edificio dell’Università statale di Mosca, dove gli studenti si incontravano per ballare e socializzare (con il placet del Komsomol). Protagonisti originali della scena disco non erano infatti barbuti fautori della giustizia sociale, ma piuttosto afroamericani, Latinos ed italoamericani alla Tony Manero – interessati primariamente ad un divertimento schiettamente narcisistico piuttosto che all’immanenza dei grandi temi globali. Venne persino derogato il requisito di reciprocità nella pubblicazione di album (a vantaggio degli artisti occidentali), tale per cui ad un disco occidentale pubblicato in Russia dall’etichetta statale Melodija doveva solitamente corrispondere un disco sovietico pubblicato in Occidente[4].

È verosimile che dietro la decisione sovietica di “aprire le proprie porte” alla musica disco ci fosse una volontà di captatio benevolentiae nei confronti di una gioventù sempre più nichilista e scoraggiata. In quel contesto, la disco avrebbe aiutato a risollevare parzialmente il morale generale – non differentemente dalla storia stessa di Tony Manero, la cui esistenza, pur largamente anonima e familiarmente deprimente, assumeva un significato del tutto nuovo e stimolante nei fine settimana al 2001 Odyssey.

Come ogni pandemia, puntualmente anche la “febbre disco” si avviò però alla conclusione naturale. Anzitutto negli Stati Uniti, dove la Disco Demolition Night del 12 aprile 1979 ne fu il simbolico precursore. Poco dopo anche nel “secondo mondo”, dove entro il 1983 fu emanata una stretta su tutta la musica d’importazione (disco inclusa) – demonizzando come “armi sovversive finalizzate ad indebolire la dedizione dei giovani russi all’ideologia comunista” (nelle parole del segretario Konstantin Černenko) quelle melodie euro-statunitensi che pochi mesi prima erano state uno dei principali ponti culturali tra Occidente e Oriente. Ciò non impedì peraltro che negli anni successivi molti artisti sovietici (su tutti il gruppo dance-pop Laskovyj maj, ma con influenze anche sulla celebre Alla Pugačëva) facessero proprie quelle atmosfere disco[5] – come d’altronde accadeva contemporaneamente in Europa grazie al successo dell’Euro disco e della variante Italo disco, entrambe autoctone.

Fatale coincidenza è che proprio gli ultimi anni della disco (quantomeno del suo filone statunitense) avrebbero visto lo scoppio di un’altra pandemia, dapprincipio nelle comunità metropolitane di omosessuali per poi affermarsi in tutto il mondo. Questa volta, però, sarebbe stata pandemia nel vero senso del termine[6].

 

[1] “Carter and Human Rights, 1977–1981,” Office of the Historian – United States Department of State, https://history.state.gov/milestones/1977-1980/human-rights.

[2] John Lewis Gaddis, La Guerra Fredda: Cinquant'anni di Paura e Speranza, trad. Nicoletta Lamberti (Milano: Mondadori, 2008), 203.

[3] Vladímir Erkovich, “The Enduring Popularity of Boney M in Russia’s Regions,” Russia Beyond the Headlines, 10 ottobre 2012, https://www.rbth.com/articles/2012/10/10/the_enduring_popularity_of_boney_m_in_russias_regions_18269.

[4] Timothy W. Ryback, “The Soviet Rock Scene, 1970-1979,” in Rock around the Bloc : a History of Rock Music in Eastern Europe and the Soviet Union (New York: Oxford University Press, 1990), 150-160.

[5] Vasily Shumov, “1980s: the Golden Age of Soviet Discotheques,” Russia Beyond the Headlines, 13 settembre 2013, https://www.rbth.com/arts/2013/09/13/1980s_the_golden_age_of_soviet_discotheques_29821.html.

[6] Per approfondire la tematica si consiglia la lettura di: Eric Nolan Gonzaba, “Stayin’ Alive in the Cold War: Disco and Generational, Racial, and Ideological Currents in the 1970s-1980s,” Primary Source 1, n. 1 (2015): 17-22.