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Licenziabile chi lavora durante il congedo per gravi motivi familiari

Cassazione Civile – Sezione Lavoro, ordinanza n. 19321del 15 giugno 2022
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Licenziabile chi lavora durante il congedo per gravi motivi familiari

Con l’ordinanza n. 19321del 15 giugno 2022, la Cassazione Civile – Sezione Lavoro ha statuito che è legittimo il licenziamento intimato da una società a un proprio dipendente, che, durante il congedo concesso per gravi motivi familiari ai sensi dell’art. 4 legge 53/2000, era stato scoperto a lavorare, in alcuni giorni, per la ditta di pulizie di famiglia.
 

Il lavoro durante il congedo per gravi motivi familiari – il fatto

Un lavoratore chiedeva un periodo di aspettativa di quattro mesi, allegando alla richiesta un certificato medico che attestava lo stato di gravidanza della moglie e la presenza di minacce di aborto, con prescrizione di 30 giorni di cure e riposo domiciliare.

Il datore di lavoro accoglieva la richiesta del dipendente, qualificando l’aspettativa come congedo per gravi motivi familiari ai sensi dell’art. 157 CCNL di settore e dell’art. 4 della legge 53/2000.

Durante il periodo di congedo, la società effettuava delle indagini investigative, all’esito delle quali emergeva che il lavoratore, in cinque diversi giorni, aveva prestato la propria attività in favore dell’azienda di famiglia. La società procedeva quindi con il licenziamento per giusta causa.

Il lavoratore impugnava il licenziamento. Il ricorso era rigettato in primo grado. La Corte d’Appello di Roma, pur accogliendo parzialmente il reclamo presentato, confermava la legittimità del licenziamento intimato, qualificando il licenziamento come licenziamento per giustificato motivo soggettivo e non per giusta causa.

In particolare, secondo i giudici d’appello era provato e grave l’inadempimento contrattuale imputabile al dipendente, il quale aveva violato l’espresso divieto, di cui all’art. 4 comma 2 legge 53/2000 e all’art. 157 ccnl, di svolgere attività lavorativa durante il periodo di congedo per gravi motivi familiari.

Avverso detta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione. In particolare, con il primo motivo di impugnazione, il lavoratore contestava che la qualificazione dell’aspettativa richiesta come congedo per gravi motivi familiari. Secondo la difesa del lavoratore infatti tale aspettativa era stata richiesta per motivi personali e quindi aveva errato la Corte d’Appello nel ritenere applicabili le disposizioni in materia di congedo per gravi motivi familiari.

Con il secondo motivo di impugnazione, la difesa del lavoratore contestava la nullità della sentenza per aver omesso la Corte d’Appello la motivazione in merito alla gravità dell’inadempimento a fondamento del recesso. In particolare, la Corte d’Appello non avrebbe considerato la circostanza per cui l’aspettativa concessa non aveva comportato benefici economici per il dipendente, né costi per la collettività e neanche conseguenze negative per il datore di lavoro, che non aveva dovuto sostituirlo visto che il lavoratore era in solidarietà difensiva.

Con il terzo motivo si lamentava l’omesso esame degli elementi di cui al secondo motivo di impugnazione.

La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso, confermando pertanto la sentenza impugnata e conseguentemente la legittimità del licenziamento intimato.


Il lavoro durante il congedo per gravi motivi familiari – inquadramento normativo

Il congedo per gravi motivi familiari è disciplinato dall’art. 4 comma 2 della legge 53 del 2000. Tale norma stabilisce che: “i dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati possono richiedere, per gravi e documentati motivi familiari, fra i quali le patologie individuate ai sensi del comma 4, un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni. Durante tale periodo il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa. Il congedo non è computato nell'anzianità di servizio né ai fini previdenziali; il lavoratore può procedere al riscatto, ovvero al versamento dei relativi contributi, calcolati secondo i criteri della prosecuzione volontaria”.

Tale disciplina è stata poi ripresa dall’art. 157 CCNL di settore che ha ribadito in particolare il divieto assoluto per il lavoratore, in congedo per gravi motivi familiari, di svolgere una qualsiasi attività lavorativa.
 

Il lavoro durante il congedo per gravi motivi familiari. La decisione

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso proposto dal lavoratore. Con particolare riguardo al secondo motivo d’impugnazione, la Suprema Corte ha ritenuto che la censura mossa fosse infondata. Infatti, da un lato la Corte d’Appello ha motivato sulla gravità dell’inadempimento del lavoratore, inadempimento che si è concretizzato nella violazione del divieto di rendere una prestazione lavorativa in costanza di congedo per gravi motivi familiari, ai sensi dell’art. 4 comma 2 della legge 53/2000. In merito alla proporzionalità del licenziamento rispetto all’inadempimento contestato al lavoratore, la Cassazione ha rilevato che la sentenza della Corte d’Appello fosse correttamente motivata con l’applicazione delle clausole generali secondo i criteri indicati dalla giurisprudenza della Corte stessa, in conformità ai principi desumibili dall’ordinamento generale.

In particolare, la Suprema Corte ha richiamato la giurisprudenza che statuisce che “è stato altresì precisato come il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.) (Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 14504 del 2019; conformi Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 18715 del 2016, n. 21965 del 2007 e n. 25743 del 2007).

In conclusione, pertanto la Suprema Corte, confermando la sentenza della Corte d’Appello di Roma, ha ritenuto che il comportamento del lavoratore, che abbia prestato attività lavorativa durante l’assenza per congedo per gravi motivi familiari, costituisse un inadempimento di notevole gravità, che rendeva pertanto legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.


Il lavoro durante il congedo per gravi motivi familiari. Un breve commento

La sentenza in esame, a detta di scrive è condivisibile: è infatti evidente che il comportamento del lavoratore, che si assenta adducendo gravi motivi familiari, e poi svolge una diversa attività lavorativa, è contrario ai doveri di correttezza e buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 codice civile, che governano il rapporto di lavoro.

La sentenza in esame si inserisce, infatti, nel solco più ampio della giurisprudenza che statuisce che “l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall’art. 2105 cod. civ., integrandosi detta norma con gli artt. 1175 e 1375 cod. civ., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sicché il lavoratore è tenuto ad astenersi da qualsiasi condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto” (Cass. 9.1.2015, n.144).

E tale principio è stato ripreso dalla giurisprudenza in materia di svolgimento di un’attività da parte del lavoratore in malattia. La giurisprudenza ha, infatti, stabilito che il compimento di altre attività da parte del dipendente, assente per malattia, possa essere disciplinarmente rilevante (arrivando persino a giustificare un licenziamento) in relazione ai doveri generali di correttezza e buona fede e i doveri specifici di diligenza e fedeltà. In particolare, la diversa attività prestata assume rilievo disciplinare, sia nell’ipotesi in cui sia sufficiente a dimostrare l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, sia nell’ipotesi in cui l’attività stessa sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro al lavoro del dipendente (da ultima in tal senso Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 13980/2020).

E peraltro è evidente che il richiamo alla giurisprudenza in materia di obblighi di correttezza e buona fede, è anche la motivazione sottesa all’irrilevanza, per la Corte d’Appello e poi per la Cassazione, della circostanza che il comportamento del lavoratore non abbia causato alcun danno economico alla collettività e al datore di lavoro.

Il bene giuridico che si intende, infatti, tutelare è l’affidamento e della fiducia del datore di lavoro nei confronti del proprio dipendente. E nel caso di specie, il comportamento del lavoratore ha leso in maniera irrimediabile tale vincolo fiduciario.