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L'importanza dell'estetica del paesaggio

Paesaggi, luoghi sublimi e giardini
Il viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, 1818, Hamburger Kunsthalle, Amburgo
Il viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, 1818, Hamburger Kunsthalle, Amburgo

Ognuno di noi prova emozioni osservando paesaggi. Che sia un generico fascino davanti ad un suggestivo tramonto, un panorama insolito che ci fa tirare fuori il telefono e scattare una foto, un parco urbano che ci piace visitare quando cerchiamo pace e relax. Ma non solo: magari abbiamo anche apprezzato un dipinto paesaggistico, non importa se si tratta di un capolavoro romantico o di uno dei molti quadretti di campagna che si trovano in alcune vecchie case.

Insomma, l'estetica del paesaggio è oggi sempre più presente, anche grazie alla proliferazione di immagini innescata dal web.

Lo scopo di questo articolo non sarà ovviamente limitarsi a constatare che il paesaggio ha per noi valore estetico, bensì mostrare come dietro a questo scontato fenomeno ci siano cambiamenti storici e come vi siano coinvolte dimensioni antropologico-estetiche profonde.

Vorrei quindi ripercorrere alcuni temi fondamentali per lo sviluppo dell'estetica del paesaggio, analizzare alcune categorie teoriche e approfondire alcuni temi specifici.

Dopo una breve presentazione di alcuni termini spesso confusi nel linguaggio comune (ambiente, territorio e paesaggio), osserveremo l'importanza specifica del paesaggio rispetto ad altri modi di intendere il territorio. In seguito rifletteremo su alcuni filoni di riflessione all'interno dell'estetica del paesaggio, osservando alcuni sviluppi e diversi temi che hanno nel tempo assunto rilevanza nella disciplina.

Verrà presentata una delle teorie del paesaggio che negli anni si è rivelata punto di partenza per molte analisi successive, ovvero quella elaborata da Georg Simmel nella sua Filosofia del paesaggio.

Negli ultimi paragrafi, approfondiremo il duplice tema del paesaggio sublime e del giardino come forme peculiari del paesaggio, opposte, speculari e complementari.
In conclusione, approfondiremo quanto detto inserendolo in una più ampia teoria estetica e le sue ripercussioni sulla riflessione a riguardo della condizione attuale.


Iniziamo dunque a delineare con più chiarezza la terminologia necessaria per affrontare il tema.

Innanzitutto, occorre distinguere tra il più neutrale territorio (usato genericamente o per indicare gli aspetti geologici o geografici) da termini solo in apparenza simili, come ambiente e paesaggio. Se “territorio” fa riferimento soprattutto agli aspetti abiotici, non viventi, dell’oggetto descritto, il termine ambiente indica le relazioni ecologiche che coinvolgono viventi e non viventi in una prospettiva ecologica.

Proprio per questo è importante non confondere l’ambiente con il paesaggio. Si intende infatti con paesaggio una costruzione culturale del territorio, una sua ridefinizione simbolica ed estetica, non data astoricamente ma forgiata da mutamenti storico-culturali.

Il paesaggio, a differenza dell’ambiente, non è mai naturale: anzi, la dicitura paesaggio naturale (che si sente in espressioni come “tutela del paesaggio naturale”) è un controsenso. Un paesaggio dipende, nella sua stessa costituzione, da categorie estetico-simboliche, storicamente formate e culturalmente diffuse.

La dicitura “paesaggio naturale” confonde ambiente e paesaggio, spesso equiparati a causa del prevalente utilizzo di questi termini da parte di autori che si occupano di etica ambientale, i quali sovente non distinguono le due dimensioni.

Che il concetto di paesaggio sia di derivazione estetica è un fatto testimoniato anche dalla sua etimologia: in italiano esso deriva dalla pittura di paese, dove il “paese” era il soggetto naturalistico del dipinto, con progressiva asimmetria nella presenza di esseri umani nei dipinti (bisognerà aspettare il Romanticismo per una prevalenza del paesaggio “puro”, senza elementi antropici).

In italiano il “paese” divenne presto “paesaggio”, mentre inglese, olandese e tedesco condivisero per molto tempo termini di comune derivazione (il tedesco Landschaft, l’olandese Landschap, l’inglese landskip, poi divenuto landscape), anch’essi usati prima per il genere artistico e poi per il soggetto, nel tempo diventato anche extra-artistico e riferito a quei paesaggi che non a caso si definirono “picturesque” (simili a quadri, “da quadro”).

Questa breve carrellata storico-terminologica ha avuto lo scopo di mostrare come il paesaggio non esista come datità naturale in sé, ma sia una forma di concettualizzazione estetica del territorio.

Occorre però evitare subito di cadere in una contraddizione in cui alcuni sono caduti: non si sta dicendo che sia stata l’arte a trasformare la natura e a dotarla di proprietà estetiche. Se così fosse, non si capirebbe perché i primi pittori di paesaggio avessero scelto di fare di essa l’oggetto delle loro tele.

Se è infatti vero che il paesaggio “pittoresco” è costruito da un occhio educato all’arte (e che si delizia dal ritrovare nel mondo tratti di essa), è anche vero che questa è una estetizzazione di secondo livello. Insomma, il paesaggio come concetto nasce da una sua costruzione artistica, non è ugualmente vero che prima di tale concettualizzazione non ci fosse in nuce un’attrazione estetica per certi aspetti del territorio.

Molti studiosi, soprattutto biologi ed etologi, hanno anzi cercato di rintracciare nell’apprezzamento del paesaggio vestigie di comportamenti evolutivamente proficui (in larga misura legati al controllo del territorio), dando quindi al fenomeno un fondamento naturale. La tesi, che probabilmente coglie qualcosa di vero ma che spesso non tiene conto dei processi socioculturali, ugualmente importanti nel definire il fenomeno, ha fatto a lungo discutere filosofi, geografi, biologi e storici.

D’altronde, il paesaggio come forma esteticamente rilevante di territorio nasce da ben precise condizioni culturali e storiche e gli studiosi hanno a lungo discusso se, e a che titolo, si possa parlare di paesaggio per l’età antica o per quella medioevale. Nonostante la questione dipenda soprattutto da come si definisca l’oggetto di indagine, si è concordi nell’affermare che il paesaggio nella forma a noi familiare abbia assunto un rilievo particolare nell’epoca moderna e che esso sia un tipico prodotto della modernità.

Studiosi come Joachim Ritter ne hanno indagato l’emergere in relazione con il disincanto del mondo emerso con la scienza moderna, rappresentando il paesaggio una forma di unione contemplativa con la Natura che, espulsa dalle scomposizioni meccanicistiche moderne, si dà come totalità ormai solo nell’esperienza estetica.

Altri, come il poeta Rilke, pur riconoscendo il paesaggio quale elemento sintomatico della modernità, hanno sottolineato una certa estraneità a sé che l’uomo moderno vi ritrova, vedendovi dunque non una compensazione del disincanto ma una sua più acuta consapevolezza.

Indipendentemente da questi interessanti discorsi (a mio avviso compatibili, se applicati a diversi momenti e tendenze della modernità e non fatti valere in toto), si può ben dire che la passione moderna per il paesaggio nasce dalla consapevolezza (maturata pienamente con gli Impressionisti) dell’irriducibilità della nostra esperienza della natura alle sue riproduzioni “oggettive”, fotografiche. Quando ci lamentiamo che la foto “non rende” il paesaggio come lo vediamo, stiamo testimoniando non la soggettività della nostra percezione quanto la povertà della riproduzione meccanica della nostra esperienza vissuta. L’origine del paesaggio, il suo legame con la modernità, la sua estensione ad altre culture, i suoi fondamenti biologici e la sua relazione con il mondo dell’arte sono solo alcuni dei molti temi che hanno caratterizzato gli studi sul paesaggio.

Un ruolo fondamentale nel revival recente di interesse per i temi paesaggistici si è senz’altro dovuto alla filosofia ambientale e all’ecologismo, che hanno inizialmente avvicinato il paesaggio all’ambiente, fino a fargli perdere quasi le sue connotazioni peculiari.

Proprio da un recupero dello specifico del paesaggio come costruzione estetica e culturale muovono le più recenti riflessioni critiche sul paesaggio. Sulla loro importanza torneremo nelle conclusioni.

Abbiamo rapidamente riassunto alcuni dei termini principali della recente riflessione sul paesaggio, riflessione che ha coinvolto studiosi e discipline diversi per approcci e interessi. Riteniamo ora sia qui rilevante esaminare più nel dettaglio uno di questi contributi, forse uno dei primi ad aver assunto grande rilevanza in questo dibattito, ovvero la Filosofia del paesaggio di Georg Simmel.

Tale autore è importante non solo in quanto il suo contributo ancora informa la discussione sul tema ma soprattutto perché in esso si trova una buona descrizione, a mio avviso, della natura costruttiva della percezione di un paesaggio, senza però spingere tale elemento all’eccesso.

Cos’è quindi per Simmel il paesaggio? Per il filosofo berlinese esso non è né un oggetto dato né una proiezione soggettiva di sentimenti umani su di un oggetto naturale, proiezione che renderebbe estetico un oggetto che naturalmente non lo sarebbe.

Al “proiezionismo” romantico Simmel non oppone una teoria realista del paesaggio bensì una teoria costruzionista, che considera il paesaggio il processo di una costruzione operata sì da un soggetto, ma non in maniera arbitraria o sregolata.

Centrale è per Simmel il concetto di Stimmung, termine tedesco difficilmente traducibile che indica ciò che ad esempio indichiamo in musica come la tonalità di un brano. Proprio come gli accordi di un brano devono essere risolti (nell’armonia tonale classica) nella tonica, il punto dove la tensione sonora si acquieta e la progressione trova un senso di compimento, così il paesaggio genera in noi una sensazione generale che ci porta a generare una “cornice” attraverso cui sistemare ognuno dei componenti. Tale sensazione è la Stimmug di un paesaggio.

Attraverso tale cornice, ogni elemento di ciò che osserviamo assume una sua collocazione estetica, risolvendosi in una impressione collettiva. Nel paesaggio non sono infatti i singoli elementi (quell’albero, quella montagna, quell’edificio ecc.) a creare il paesaggio, ma l’impressione d’insieme che li unifica attraverso l’operazione mentale del soggetto. Il paesaggio è una costruzione mentale, una organizzazione di elementi che non è però del tutto libera, ma è anzi guidata da una Stimmung in essi presente. Ognuno di noi compie questa operazione spontaneamente nel suo apprezzamento del paesaggio, ma è solo nella pratica artistica che tale operazione raggiunge il massimo grado. Il pittore paesaggista compie ciò in maniera consapevole, evidenziando nella composizione i tratti più patetici e d’impatto di tale Stimmung e giungendo a sintetizzarne le qualità al punto da comporre paesaggi anche immaginari, frutto di una pura costruzione estetica e non di una pittura dal vero (come rifletterà acutamente Simmel a proposito dei paesaggi di Böcklin).

Simmel applica in fondo al paesaggio una teoria decisamente kantiana, che tiene insieme il processo di costruzione da parte del soggetto e la realtà dell’oggetto. Non vi è paesaggio senza soggetto costituente, ma tale costruzione è guidata da ben specifici tratti dell’oggetto.

Nonostante alcuni studiosi vicini all’estetica delle atmosfere (termine che si è evitato di usare in relazione a Simmel) abbiano ritenuto la teoria di Simmel ancora troppo “proiezionistica”, preferendo ritenere del tutto oggettiva e data la componente affettiva ed estetica del paesaggio, ritengo che la teoria di Simmel sia un eccellente punto di partenza perché non isola e separa soggetto e oggetto, ma mostra la relazione continua tra i due, il primo in quanto agente attivo e in relazione di valutazione con l’ambiente, il secondo dotato di significati non soggettivi ma che si impongono al soggetto come rilevanti. La teoria del filosofo tedesco mette in evidenza la presenza di qualcosa di naturalmente dato ai nostri sensi (la Stimmung) ma riconosce anche una certa attività da parte del soggetto, che non è mai recipiente passivo di dati di senso ma è anzitutto attivo e impegnato in elaborazioni cognitive dell’ambiente.

Ovviamente tale teoria, sviluppata oltre un secolo fa, può essere rivista alla luce dei numerosi sviluppi che il dibattito ha avuto, vedendo la partecipazione di discipline diverse che hanno arricchito la discussione. Si è voluto ricordarla qui non solo in quanto esempio illustre della rilevanza filosofica del tema del paesaggio ma anche come esempio di pensatore capace di superare la dicotomia soggetto/oggetto e di sviluppare una feconda alternativa ad essa.

Nei paragrafi precedenti abbiamo chiarito alcuni aspetti terminologici e identificato le differenze tra il paesaggio e altri modi apparentemente simili di indicare il territorio.
Abbiamo poi abbozzato un breve riassunto di alcune discussioni che hanno avuto come oggetto aspetti problematici del paesaggio. Infine, abbiamo ricordato un momento di particolare importanza nel definire la filosofia del paesaggio, ossia l'omonimo testo di Georg Simmel.

Ora, tratteremo invece due particolari tipi di esperienza estetica del paesaggio: il paesaggio sublime e il giardino.

Questi due tipi di paesaggio si inseriscono perfettamente nella coppia bello/sublime che ha caratterizzato molta della riflessione estetica del Settecento, non a caso periodo di fioritura dell'estetica del paesaggio.

Ricapitoliamo in breve la differenza tra le due categorie di apprezzamento estetico: il bello è ciò che ci comunica un senso di composto godimento, piacere e armonia.

Il sublime è invece un piacere che sopraggiunge sempre accompagnato da un senso di sbigottimento, stupore, a volte anche pauraEsso è dato dalla consapevolezza di essere davanti a qualcosa di straordinario e di pericoloso, qualcosa di grande o distruttivo, ma di saperlo fronteggiare.

Se il bello dona un senso di pace e di godimento sereno, il sublime è intrinsecamente perturbante, miscelando stupore e piacere, paura e rinvigorimento.

Questa coppia concettuale attraversa tutta la riflessione estetica settecentesca e tocca ovviamente anche il paesaggio. In particolare, è nella prima modernità che l’uomo scopre i paesaggi sublimi: per la prima volta egli è affascinato da monti impervi, fitte foreste, deserti e oceani sconfinati, persino dai vulcani in eruzione.

Essi erano prima di quel momento noti ma perlopiù evitati, guardati con paura, orrore e sgomento.

Come ben ricorda Remo Bodei, l’apparire nella storia del pensiero del paesaggio sublime è testimonianza di un mutamento antropologico, ovvero della Rivoluzione eliocentrica e del conseguente disfacimento del mondo antropocentrico e finalistico che ad esso era collegato.

Grazie a questo mutamento di prospettiva, l’uomo intraprende una lotta contro la Natura, che ora appare minacciosa e incombente e che egli affronta consapevole della sua fragilità ma anche della sua forza (le note pagine di Pascal esprime al massimo grado questo spirito). Ciò che era prima rimosso viene ora ricercato e la natura selvaggia diventa oggetto di rappresentazione e di estetizzazione, dando veste artistica a questa sproporzione a questa lotta.

E il bello? Esso è invece una presenza costante nella storia dell’uomo, che ha da sempre ricercato, e creato, luoghi dove godere di una natura mite e pacifica, amorevole e adatta alle sue esigenze e ai suoi desideri. Tale idea di luogo bello è stata spesso stilizzata nella figura del giardino, ovvero del luogo incantevole e a misura d’uomo, punto di incontro tra natura e umanità. Tale figura è stata codificata dal pensiero antico nel locus amoenus, posto idilliaco che ricalca il luogo bello per eccellenza della tradizione biblica, ovvero il Giardino dell’Eden.

Non sorprende che le rappresentazioni utopiche di ogni epoca spesso prendano a modello il giardino: esso incarna pienamente l’idea di bellezza che George Santayana delineerà nel suo capolavoro Il senso della bellezza, ovvero una felice congiuntura tra le possibilità della natura e la felicità umana. Il giardino rappresenta l’opposto complementare del paesaggio sublime, una natura addomesticata e mite di cui non si può però ignorare gli aspetti più minacciosi e inquietanti. Anche questi ultimi troveranno il loro posto nella rappresentazione della natura sublime, che è tutt’oggi fecondamente parte del nostro immaginario e che ancora suscita idee di avventura e di “esperienze forti”, sfruttate dall’industria turistica.

Bello e sublime, giardini e deserti, vialetti curati e vette nebbiose: attraverso lo studio dell’estetica del paesaggio si studia molto più che un fenomeno di apprezzamento o di interesse storico. Esso rappresenta infatti un accesso privilegiato allo studio del nostro rapporto con la Natura, sia nei suoi aspetti più piacevoli e desiderabili sia nel dinamismo della sfida, della lotta e dell’affermazione del nostro valore nonostante la fragilità della nostra specie rispetto alla sua immensità.

Grazie ai nostri immaginari estetici noi diamo forma a questo rapporto e lo perpetuiamo, arricchendolo di nuove declinazioni e sfumature. L’utilità di ricorrere a queste analisi non può dunque che risultare utile per un’epoca che, come la nostra, sente fortemente il bisogno di riflettere sulla propria relazione con il mondo naturale e l’ambiente in cui l’uomo è immerso, cercando nuove modalità di relazione. Se si vuole capire la genesi e l’evoluzione della nostra idea di natura, è anche al paesaggio e ai suoi immaginari che bisogna guardare.

Paolo D’angelo (a cura di), Estetica e paesaggio, Il Mulino, 2009

Michael Jakob, Il paesaggio, Il Mulino, 2009

Georg Simmel, Scritti sul paesaggio, Armando Editore, 2006

Tonino Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Mimesis, 2017

Remo Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Bompiani, 2008

George Santayana, Il senso della bellezza, Aesthetica Edizioni, 2020