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Metodologia giuridica, comparazione e diritti indigeni

bianco e blu
Ph. Erika Pucci / bianco e blu

La conoscenza dei sistemi giuridici indigeni è condizione essenziale per la loro sopravvivenza, perché ne consente la trasmissione alle generazioni future attraverso l’insegnamento, e anche in quanto è la base per costruire i rapporti tra il diritto consuetudinario aborigeno e il diritto “ufficiale” dello Stato. Si potrebbe aggiungere che tale conoscenza è necessaria premessa per passare dal controllo coloniale al controllo statale e, quindi, all’autogoverno indigeno. Volendo usare una metafora, occorre conoscere il diritto indigeno per avviare una “conversazione rispettosa”, simmetrica e reciproca tra il diritto indigeno e il diritto nazionale/statale.

Per studiare i diritti indigeni, occorre utilizzare gli strumenti della ricerca sociolegale e antropologico-giuridica. Sul piano metodologico, va individuato in primo luogo un problema concreto da esaminare (c.d. research question[i]). Per esempio, quali siano le modalità di risoluzione dei conflitti all’interno della comunità aborigena, tra le comunità aborigene, ovvero tra queste ultime e i gruppi non aborigeni. Nel caso degli indigeni artici, come gli Inuit o i Saami, un problema sentito è quello concernente l’allevamento tradizionale delle renne, o caribù. Tale attività può generare conflitti, nelle tre dimensioni appena menzionate[ii].

L’analisi della problematica comporta l’esigenza di avvalersi di fonti peculiari per la conoscenza del diritto indigeno. Per gli aborigeni dell’Artico, potrà dunque trattarsi di racconti, o anche di fiabe, quasi sempre da esaminare nella forma della fonte orale. Oppure vi sono le narrazioni, anch’esse orali, da raccogliere presso gli anziani della comunità indigena, o comunque persone qualificate del gruppo aborigeno. Oppure ancora troviamo i yoiks tradizionali, ossia i canti degli indigeni Saami[iii]. Tutte queste fonti ci parlano delle concezioni tradizionali delle popolazioni indigene dell’Artico, o comunque le riflettono, e quindi si riferiscono ai luoghi, agli spazi, agli animali, incluso l’allevamento delle renne.

Individuato il problema (prima fase) e raccolti i materiali rilevanti (fonti orali ecc., la seconda fase), si apre al ricercatore una terza fase, quella relativa alla ricostruzione vera e propria del diritto indigeno. Quali sono, in altri termini, i diritti ma anche i doveri degli indigeni rispetto al problema in esame? Quale la dimensione, individuale e collettiva, che hanno tali diritti e doveri? Quale è la relazione che si instaura tra i menzionati diritti e doveri, propri della tradizione indigena, con il diritto nazionale e con quello internazionale?[iv]

La quarta e ultima fase è quella dello studio riguardante l’applicazione del diritto indigeno. In pratica, la conclusione è che i sistemi giuridici indigeni hanno possibilità di sopravvivenza a condizione che siano riconosciuti dal diritto nazionale. L’impatto del diritto indigeno è subordinato alla conformazione delle fonti del diritto nazionale. In ciascun ordinamento nazionale, quindi, occorre esaminare in quale misura il formante legislativo e quello giurisprudenziale (specialmente la Corte suprema), accolgono i princìpi del diritto tradizionale indigeno. Ciò vale, sul piano comparativo, tanto in ordinamenti di common law, come Canada e Stati Uniti (per l’Alaska), che in sistemi più vicini (sia pure con caratteristiche peculiari) al modello di civil law, come accade per Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca.

L’accoglimento dei princìpi giuridici indigeni nel diritto nazionale dipende dal grado di pluralismo giuridico, ovvero di policentrismo, del diritto nazionale medesimo. Accolto il pluralismo giuridico[v], però, non tutto è risolto. Questo perché l’accettazione e l’applicazione del diritto indigeno da parte del diritto nazionale saranno quasi sempre selettivi e pragmatici, allo scopo di tenere adeguato conto non soltanto degli interessi economici della maggioranza della popolazione, ma anche di interessi settoriali, che fanno cioè capo a settori determinati della comunità nazionale. Così, per stare all’esempio sopra fatto dell’allevamento delle renne, i diritti consuetudinari degli indigeni vengono in via generale riconosciuti, sempreché però non siano di ostacolo alla realizzazione di infrastrutture, o di parchi eolici, ovvero per la costruzione di installazioni militari, oppure anche semplicemente per edificare case per le vacanze, o comunque per le attività di svago della popolazione (non-indigena).

Al di là del rapporto con il diritto nazionale, sul piano metodologico il punto centrale è che il diritto indigeno deve comunque essere considerato come un vero e proprio diritto. Del resto, esso esisteva ben prima dell’arrivo dei colonizzatori, e ha resistito alla colonizzazione, talvolta venendo anzi applicato dagli indigeni in contrasto con le disposizioni statali. Quindi, una prima conclusione è che il diritto indigeno esiste a prescindere dal suo riconoscimento da parte delle autorità statali. La seconda conclusione è che, se viene riconosciuto, il diritto indigeno deve conservare le sue caratteristiche nell’impianto normativo statale. Ciò avviene, per esempio, nelle leggi dei Paesi nordeuropei che riguardano l’allevamento tradizionale delle renne da parte dei Saami. Da questo punto di vista, precise sono altresì le indicazioni che provengono dal diritto internazionale e transnazionale[vi]. Si pensi, in particolare, alla Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 169 del 1989 sui diritti dei popoli indigeni e tribali, oppure al progetto di Convenzione Saami nordica elaborato dai Governi di Norvegia, Svezia e Finlandia con la collaborazione dei rispettivi Parlamenti Saami. La terza conclusione, che discende dalle prime due, è che lo stesso diritto all’autodeterminazione – da intendersi come autogoverno, id est autodeterminazione interna – dei popoli indigeni presuppone che i loro sistemi giuridici tradizionali siano considerati come vero diritto. La tradizione indigena, in altre parole, è fondativa del diritto materiale delle comunità aborigene a esercitare l’autonomia e l’autogoverno all’interno dei confini statali. Questo è, del resto, il profilo dell’autodeterminazione (interna) evidenziato nell’art. 3 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni del 2007[vii].

Le quattro fasi metodologiche della ricerca sui diritti indigeni – come sopra delineate – portano a riconsiderare anche la nostra concezione del diritto, in quanto appunto riconoscono i sistemi indigeni come diritto.

A quando, verrebbe infine da chiedersi, l’istituzione di corsi universitari dedicati ai diritti indigeni, sulla scia di quanto avviene da tempo specialmente in Canada, ma anche più recentemente in Scandinavia?[viii]

 

[i] Cfr. R. Scarciglia, Metodi e comparazione giuridica, Milano, Wolters Kluwer, 2021, 3ª ed. Sulle condizioni di validità della ricerca giuscomparatistica, v. anche A. Guarneri, Lineamenti di diritto comparato, Milano, Wolters Kluwer, 2020, 9ª ed., spec. p. 533 ss. (sub VI, Il diritto comparato alla prova).

[ii] Rinvio a S.F. Skogvang, Samerett [Diritto saami], Oslo, Universitetsforlaget, 2017, 3ª ed. (testo in norvegese).

[iii] Su caratteri originari e (plurime) contaminazioni della musica popolare Saami, v. R. Jones-Bamman, From ‘I'm a Lapp’ to ‘I am Saami’: Popular music and changing images of indigenous ethnicity in Scandinavia, in Journal of Intercultural Studies, 2001, p. 189 ss. La North Scandinavian Sami yoik-tradition costituisce una traditional way of singing.

[iv] Per il caso del popolo Saami, v. Ø. Ravna, Samerett og rettsvern for samisk kultur [Diritto saami e protezione legale per la cultura saami], Bergen, Fagbokforlaget, 2018 (testo in norvegese).

[v] In relazione al quale, v. lo studio classico di J. Griffiths, What is Legal Pluralism?, in Journal of Legal Pluralism and Unofficial Law, 1986, p. 1 ss. Come osservava ivi l’autore, lo scritto venne elaborato quando il concetto di pluralismo giuridico si trovava ancora nella fase di “infanzia combattiva”. Secondo Griffiths, si ha pluralismo giuridico allorché in un dato sistema sociale vi è la presenza di più di un ordinamento giuridico. Vi sono (almeno) due modi di utilizzare l’espressione pluralismo giuridico. Per un verso, il legal pluralism c.d. giuridico, che si ha attraverso il riconoscimento giuridico da parte del diritto statale delle regole consuetudinarie di alcuni gruppi particolari (nel nostro caso, delle comunità autoctone/indigene). Per altro verso, abbiamo il legal pluralism c.d. empirico, che si realizza quando il comportamento di una persona si trova assoggettato a più di un insieme di norme.

[vi] Forse, meglio, diritti transnazionali, come argomenta (in maniera convincente) R. Tarchi, Diritto transnazionale o diritti transnazionali? Il carattere enigmatico di una categoria giuridica debole ancora alla ricerca di un proprio statuto, in Osservatorio sulle fonti, n. 1/2021, il quale distingue tra fonti e ordinamenti transnazionali (a tacere dei procedimenti giuridici transnazionali, che possono risolversi nei due precedenti).

[vii] Sul tema, v. L. Perra, I popoli indigeni: riconoscimento dei diritti e principio di autodeterminazione, in Filodiritto, 23 maggio 2016 (www.filodiritto.com); R. Cammarata, I diritti dei popoli indigeni. Lotte per il riconoscimento e principio di autodeterminazione, in Sociologia del diritto, in Sociologia del diritto, 2006, n. 1, p. 45 ss.

[viii] Per la metodologia della ricerca sui Saami, con riferimento ad alcuni aspetti problematici, v. L. Junka-Aikio, Institutionalization, neo-politicization and the politics of defining Sámi research, in Acta Borealia. A Nordic Journal of Circumpolar Societies, 2019, p. 1 ss.