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Molestie - Cassazione Penale: per lo stalking bastano dichiarazioni credibili e affidabili

Molestie - Cassazione Penale: per lo stalking bastano dichiarazioni credibili e affidabili
Molestie - Cassazione Penale: per lo stalking bastano dichiarazioni credibili e affidabili

L’imputato, nel caso di specie, ha posto in essere diverse condotte, protratte nel tempo e consistite nell’invio di sms dal contenuto ingiurioso e minaccioso, nella creazione di un profilo Facebook altamente offensivo nei riguardi della persona offesa e in ripetuti appostamenti e pedinamenti.

La Corte d’Appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Biella che aveva condannato l’imputato alla pena di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in quanto colpevole del delitto di atti persecutori.

In sede di ricorso in Cassazione, la difesa dell’imputato si articolava esclusivamente su due motivi di censura.

  • Dal punto di vista motivazionale, la Corte di Appello di Torino avrebbe fondato il proprio convincimento sulla base delle sole affermazioni della parte offesa, senza considerare le addotte motivazioni dell’imputato che, a suo dire, avrebbero in qualche modo giustificato la sua condotta. Le condotte denunziate dalla parte offesa, tra l’altro, quali pedinamenti ed appostamenti, sarebbero state frutto, a dire del ricorrente, di una mera percezione soggettiva della donna.
  • Veniva dedotta, poi, violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’evento, non essendo stato provato né lo stato d’ansia né il mutamento delle abitudini di vita, sostenendosi, altresì, l’impossibilità di configurare il reato in esame quando l’attività asseritamente persecutoria sia realizzata attraverso Facebook.

La decisione della Cassazione

Secondo la Sezione V Penale della Corte di Cassazione, tuttavia, le dichiarazioni della persona offesa dal reato di atti persecutori possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato.

La Corte, ribadendo un principio espresso dalla medesima Sezione con sentenza numero 1666/2015, ritiene necessaria una verifica preliminare, accompagnata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.

A tal fine, secondo la Corte, è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata.

Correttamente, quindi, avrebbe operato la Corte di Appello nella formulazione della sentenza impugnata. La stessa, infatti, si porrebbe in linea con la giurisprudenza richiamata e premetterebbe una valutazione di attendibilità della persona offesa, anche in considerazione della presenza di riscontri alle sue accuse, quali le parziali ammissioni dell’imputato, la lettura dei messaggi telefonici e la visione del profilo Facebook.

La ritenuta credibilità della parte offesa ha indotto a ritenere provato anche il mutamento delle abitudini di vita da lei riferito, consistito nel cambiamento di lavoro, nella decisione di non frequentare più certi luoghi, di non uscire sola.

Circa l’effettivo verificarsi dell’evento lesivo, infatti, la vittima del reato ha dato prova della prescrizione di ansiolitici e del ricorso alla psicoterapia anche con la deposizione del medico curante. Secondo la Corte, va rilevato che tali prescrizioni non avvengono sulla base di una sintomatologia meramente dichiarata ma a seguito di una valutazione anamnestica e diagnostica.

La prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, è stata, poi, secondo la Cassazione, correttamente ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando la sua astratta idoneità a causare l’evento, in ossequio alla costante giurisprudenza di legittimità, fra cui, da ultimo Sezione V, numero 17795/2017.

Con riferimento alla sostenuta impossibilità, da parte della difesa dell’imputato, di configurare il reato in esame quando l’attività asseritamente persecutoria sia realizzata attraverso Facebook, la Corte osserva che la giurisprudenza ammette che messaggi o filmati postati sui social network integrino l’elemento oggettivo del delitto di atti persecutori (già da Sezione VI, numero 32404 del 16/07/2010) e l’attitudine dannosa di tali condotte sarebbe quella di diffondere fra gli utenti della rete dati, veri o falsi, fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa.

Per visualizzare il testo della sentenza clicca qui.

(Corte di cassazione - Sezione Quinta Penale, Sentenza 28 dicembre 2017, n. 57764)