Niente ipotesi di responsabilità per lite temeraria per la sola infondatezza dell’azione
Niente ipotesi di responsabilità per lite temeraria per la sola infondatezza dell’azione
La Cassazione ribadisce che chiedere di fare valere una pretesa che si rivela infondata non è automaticamente punibile. Si può agire solo in caso di un vero e proprio abuso del diritto di agire, con mala fede, consapevolezza del proprio torto o colpa grave.
La Corte di Cassazione, con sentenza del 20 luglio 2023, ha recentemente ribadito il principio per il quale, in tema di responsabilità processuale aggravata, la sola infondatezza dell’azione non costituisce circostanza di per sé sufficiente ai fini della pronuncia ex art. 96 c.p.c., la quale riguarda le sole ipotesi di abuso del diritto ad agire. La citata giurisprudenza evidenzia, infatti, che agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è una condotta in sé, automaticamente, rimproverabile.
In particolare, il riconoscimento della responsabilità aggravata esige, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della pretesa ovvero il resistere in giudizio, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate.
A titolo esemplificativo, il Tribunale di Firenze (sentenza 3 novembre 2023, n. 3194) ha ritenuto non sussistente la responsabilità per lite temeraria in un caso ove l’attore aveva agito per ottenere il pagamento dei proventi derivanti dalla locazione di un compendio immobiliare di cui era comproprietario, e rispetto alla quale la comproprietaria convenuta aveva operato una compensazione rispetto alla quota di pertinenza, decurtandone l’importo a titolo di spese di gestione.
Ebbene, il Tribunale, pur accogliendo la domanda principale, ha invece respinto quella fondata sull’art. 96 c.p.c.: nella circostanza, infatti, il comportamento della convenuta medesima era risultato contenuto nei limiti di ciò che consente di resistere in giudizio, non ravvisandosi elementi riconducibili a mala fede o colpa grave, tenuto conto del fatto che la parte convenuta aveva effettivamente sostenuto delle spese, pur se tanto non le consentiva, come dimostrato dalla compiuta istruttoria, il diritto di compensare le partite di credito/debito.
Si configura, dunque, un contegno processuale della parte soccombente connotato da “mala fede” ogni qualvolta si agisca o si resista in giudizio pur essendo consapevole del proprio torto e, quindi, dell’infondatezza della domanda e/o dell’eccezione, ovvero laddove si adoperi intenzionalmente un uso distorto degli strumenti processuali per fini divergenti da quelli istituzionali. Relativamente, invece, alla nozione di “colpa grave”, si sostiene in giurisprudenza e dottrina che questa si risconta nell’agire o nel resistere in giudizio in difetto della normale diligenza, avendo avuto la parte la possibilità di acquisire la consapevolezza dell’infondatezza della pretesa.
Pertanto, in caso di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., è necessario che la sentenza sia motivata con completezza sufficiente, ciò per porre i necessari distinguo tra infondatezza e temerarietà. Ed infatti, secondo la pronuncia della Suprema Corte in commento, se tali nozioni venissero sovrapposte, si andrebbe a comprimere (con una sorta di “spada di Damocle”), il diritto di difesa assicurato dall’art. 24 Cost., giungendo addirittura a sanzionare chi ha partecipato al contraddittorio sol perché l’esito del giudizio non gli è stato favorevole.
La difesa, invece, è la sostanza del processo, onde il suo abuso non può che essere una evidente e peculiare eccezione, la cui sussistenza deve essere confermata a mezzo di una motivazione completa, non essendo per certo sufficiente un rapido asserto privo di quella argomentazione necessaria a chiarire la ricorrenza della responsabilità in parola.