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Par condicio, disciplina ed evoluzione

Imparzialità e accuratezza sono i principi a cui deve rifarsi l’informazione. Questi ultimi sono citati in ogni legge incaricata di disciplinare il servizio radiotelevisivo, dalla Legge n. 103/1975, attraverso la Legge n. 223/1990 (Legge “Mammì”) e la n. 112/2004 (Legge “Gasparri”) fino al decreto legislativo n. 177/2005 (“Testo unico della radiotelevisione”).

Accanto a tali concetti, si aggiunge la tutela della “genuinità” del voto, che la Corte costituzionale ritiene condizione irrinunciabile per le competizioni elettorali che si effettuano in una democrazia reale. La manipolazione, la falsificazione della realtà, attraverso messaggi deformanti della coscienza individuale, non è ritenuta certo conforme a “diritto”.

Tale mistificazione è infatti contraria ad alcuni fondamentali enunciati costituzionali: l’articolo 2, laddove riconosce i “diritti inviolabili dell’uomo” e l’articolo 3 (comma 2), che indica, quale scopo della Repubblica, il “pieno sviluppo della persona umana”, che si può concretizzare innanzitutto tramite l’eliminazione di quegli “ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano “di fatto” la libertà e l’ uguaglianza dei cittadini. Del resto non è casuale che la stessa legislazione penale, risalente al periodo fascista, contempli la fattispecie dell’“abuso della credulità popolare”, identificata in “qualsiasi impostura” propagata “pubblicamente”, anche se “gratuitamente” (articolo 661 del Codice Penale).

Il principio della par condicio si ricollega in qualche modo a quella giurisprudenza (sentenza n. 420/1994) che ha inteso in termini estensivi il principio del pluralismo interno, ammettendone in alcuni casi l’ applicazione anche nei confronti dei soggetti privati nonché della concessionaria del servizio pubblico [1]. Nella sentenza n. 48/1964 la Corte costituzionale ebbe modo di enunciare un principio simile, prendendo spunto dalla disciplina riguardante il regolamento degli spazi relativi ai manifesti elettorali. Molto più particolareggiata è la decisione contenuta nella sentenza n. 161/1995 in tema di pubblicità e propaganda durante le campagne referendarie: la Corte non si pronunciò sulla questione di principio; ma pur condensando il suo interesse sulle disposizioni recanti limiti alla pubblicità e alla propaganda elettorale e referendaria, e giustificando le seconde, avallò indirettamente la possibilità di una normativa in materia basata sul principio della parità di trattamento.

La Corte, insomma, si è limitata a “bocciare” le disposizioni restrittive concernenti la pubblicità referendaria, basando il suo ragionamento sul profilo attivo del diritto di informare e non considerando il diritto dei cittadini a usufruire di un’ informazione non squilibrata sulla base dei diversi mezzi economici. Resta il fatto che la normativa esistente deve essere considerata come espressione di un assioma generale: infatti nella sentenza 155/2002 la Corte ha respinto le censure di illegittimità sollevate, accogliendo l’ interpretazione della par condicio quale , per l’ appunto, principio generale [2].

La parità di trattamento tra tutti i soggetti concorrenti in luoghi e spazi, pubblici e privati, designati alla propagazione di messaggi di propaganda e pubblicità elettorale ha trovato empirica e integrale attuazione solo nella Legge n. 515/1993. In seguito i Decreti Legge del 1995 sulla par condicio hanno soltanto mitigato la rigidità di un principio ritenuto da alcuni eccessivo. Eppure la Corte costituzionale, 30 anni prima, ebbe modo di notare che nel periodo di campagna elettorale “si determina una situazione che giustifica l’ intervento del legislatore ordinario, diretto a regolare il concorso con norme che tendono a porre tutti in condizioni di parità per evitare che lo svolgimento della vita democratica non sia ostacolato da situazioni economiche di svantaggio o politicamente di minoranza”[3.]

Storicamente, agli inizi degli anni ’60, si decise di mantenere il sistema televisivo, soggetto a monopolio pubblico, in una condizione di apparente neutralità, vietando cioè la possibilità di utilizzare il nuovo mezzo per attività di informazione e propaganda partitica. Tale divieto non scaturiva da un espresso disposto legislativo, ma dalla volontà politica di mantenere il potente veicolo di trasmissione sotto un rigido controllo governativo. Anche quando, con la Legge n. 212/1956, si attuò un ridisegno della disciplina della propaganda elettorale, non si avvertì l’esigenza di discutere sul tema della propaganda via etere.

Il ciclo della “RAI governativa”, e l’apertura all'accesso e al “pluralismo interno”, si chiuse con la sentenza della Corte costituzionale n. 59/1960 (“Lo Stato monopolista di un servizio destinato alla diffusione del pensiero ha l’obbligo di assicurare, in condizioni di imparzialità e obiettività, la possibilità potenziale di goderne a chi sia interessato ad avvalersene per la diffusione del pensiero”) [4].

La regolazione dell’accessibilità dei partiti al servizio pubblico, impostazione che non sarebbe stata, successivamente, mai modificata nelle sue linee fondamentali, fu formalizzata solo con la Legge n. 103/1975, la quale includeva il concetto di “pluralismo partitico” tra i suoi principi (articolo 1, comma 2) e riservava (articolo 4) alla Commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi il compito di disciplinare direttamente le “Tribune”, che la RAI doveva trasmettere. Con la nascita delle emittenti private e la conseguente disgregazione del monopolio pubblico, si avviò un nuovo processo di discussione sulla questione del “pluralismo esterno”, constatando l’esigenza di concepire una nuova regolamentazione che intervenisse sui nuovi soggetti della sfera televisiva. Esigenza che si configurò subito impellente dato il vuoto normativo, in relazione alla emittenza privata, e la derivante possibilità di utilizzare modalità più aggressive di propaganda politica ed elettorale, in una prospettiva nettamente mercantile.

Tale situazione si protrasse fino al 1990 (con le prospettive di regolamentazione completamente inevase): vani furono anche i tentativi di introdurre “codici di comportamento”, come quello suggerito dal Centro Calamandrei, il quale non ebbe esito alcuno [5]. Fallì, in merito alla pianificazione dell’accesso dei partiti e della propaganda elettorale, in quanto argomenti completamente accantonati, anche la legge 223/1990, relativamente alle emittenti private. L’unico argine a eventuali utilizzi “abusivi” dei media privati, fu costituito dall’estensione del divieto di fare propaganda nel giorno precedente ed in quello in cui si svolgono le elezioni (legge n. 19/1985, articolo 9 bis).

Solo con la Legge n. 515/1993, relativa alla disciplina delle campagne elettorali politiche (anticipata su alcuni punti dalla Legge n. 81/1993 riguardante l’ elezione diretta del sindaco e del presidente provinciale), il vuoto normativo venne parzialmente colmato. Relativamente al servizio pubblico, la Legge 515 affermava, secondo una linea di continuità con la Legge 103/1975, l’attribuzione alla Commissione parlamentare di indirizzo generale e di vigilanza del compito di disciplinare direttamente le rubriche elettorali, i servizi e i programmi elettorali.

Elemento di novità costituiva invece l’apertura del servizio pubblico alla trasmissione di “propaganda” elettorale di liste e di gruppi di candidati, da svolgersi, in situazione di parità, nell’ambito di spazi idonei, secondo le direttive impartite dalla Commissione parlamentare (articolo 1, comma 1) [6]. Per l’emittenza privata, la legge prevedeva una disciplina riguardo la “propaganda elettorale” e i “programmi e servizi di informazione elettorale”.

In relazione alla “propaganda elettorale”, trasmissibile “a qualsiasi titolo” (oneroso o gratuito), la Legge 515 (articolo 1, comma 2) disponeva che gli spazi fossero offerti dalle emittenti ai candidati, alle liste, ai partiti in condizioni di parità, secondo quanto stabilito dal Garante per la radiodiffusione e l’ editoria.

Nonostante ciò, la legge (articolo 2, comma 1) vietava, nel corso delle campagne, la propaganda elettorale per mezzo di “spot pubblicitari e ogni altra forma di trasmissione pubblicitaria radiotelevisiva”, distinguendo così diversi “modi propagandistici”, quelli di propaganda elettorale ammessa e pubblicità elettorale vietata [7]. Quanto ai “programmi e servizi di informazione elettorale” (tavole rotonde, discorsi, confronto tra candidati ecc.), valevano le stesse condizioni previste dall’articolo 1, comma 2. La legge non trattava la problematica inerente al trattamento equo ed imparziale dei partiti, anche in relazione alla informazione trasmessa dalle emittenti pubbliche e private: interveniva, nei programmi di comunicazione politica e propaganda, con una serie di divieti, finalizzati a combattere l’ inquinamento propagandistico in periodi “protetti” elettorali. Si vietava cioè la presenza di esponenti politici in tutti quei programmi diversi da quelli delle testate giornalistiche, nelle quali la loro presenza poteva essere giustificata se utili e decisivi per la completezza dell’ attività informativa (articolo 1, comma 5).

Un tentativo, quello della Legge 515, di superare una situazione di anarchia, persistente sul versante del privato, sperimentando nuove soluzioni (come il coinvolgimento della figura del Garante). Ne venne fuori però un sistema “bicefalo”, facente capo, per quanto riguarda il servizio pubblico, alla Commissione parlamentare, ed in quello della emittenza privata, al Garante, lasciando del tutto priva di regolamentazione la comunicazione politica delle emittenti private in periodi non elettorali [8].

La Legge n. 28/2000, con le aggiunte e correzioni introdotte dalla Legge n. 313/2003, costituisce un consistente tentativo di assestamento della materia [9]. Presupposto fondamentale è contenuto nell’articolo 2, comma 1: “le emittenti radiotelevisive devono assicurare a tutti i soggetti politici con imparzialità ed equità, l’accesso alla informazione ed alla comunicazione politica”. Il trattamento non discriminatorio, che i soggetti politici hanno diritto a ricevere, si traduce in un duplice senso di “accesso”: in quello più classico, cioè di sfruttare quei programmi specifici (“comunicazione politica”) appositamente creati per permettere ai partiti di esternare direttamente le loro posizioni; e in quello, nuovo, di diritto dei soggetti politici a poter usufruire di un equo trattamento all’ interno della informazione erogata dalle emittenti (“informazione politica”), sia private che pubbliche (ci si riferisce al telegiornale, giornale radio, notiziario o programmi a contenuto informativo – giornalistico).

Un diritto che, tra l’altro, non si limita alla durata delle campagne elettorali. La legge, inoltre, effettua una puntualizzazione delle forme di comunicazione, separando: “programmi di comunicazione politica” (“programmi contenenti opinioni e valutazioni politiche”, articolo 2, comma 2), predisposti dalle emittenti affinché venga promosso il confronto, dialogico e in presenza del contraddittorio, tra pensieri e considerazioni dei soggetti politici (tribune, interviste, tavole rotonde ecc.); “messaggi politici autogestiti” (“i messaggi recano una motivata esposizione di un programma o di una espressione politica ed hanno una durata compresa tra uno e tre minuti per le emittenti televisive e da trenta a novanta secondi per le emittenti radiofoniche” articolo 3, comma 3), programmi autogestiti dai partiti, con scopi di propaganda ma non confezionati secondo il modello dello “spot”.

L’offerta di spazi per la messa in onda di tali “messaggi politici”, sempre a titolo gratuito, è obbligatoria per il servizio pubblico, facoltativa per le emittenti private (articolo 3, comma 2; articolo 4, comma 4) [10]. Per le emittenti locali private, la disciplina attuativa delle regole della par condicio è rimessa (articolo 11, comma 2) ad un apposito codice di autoregolamentazione (sotto la “mediazione” ed il controllo dell’ Autorità delle telecomunicazioni); inoltre non sono obbligate a inserire nel palinsesto programmi di comunicazione politica.

Nonostante le numerose specificazioni, introduzioni di nuove linee guida, controlli e sanzioni, non è presente l’ adozione di uno schema coerente di “governance”, ma l’ accumulazione di diversi modelli: a ogni, cioè, segmento del sistema radiotelevisivo corrisponde un diverso tipo di regolamentazione di diritti e obblighi relativi ai soggetti politici e alle emittenti. Le certosine caratteristiche di ogni settore, in realtà, non possono essere ignorate. Tuttavia una “giusta” asimmetria tecnica non può giustificare l’esistenza di schemi di regolazione disparati e incoerenti, in una disciplina che dovrebbe esser sostenuta da chiarezza e semplicità.

Il concetto di par condicio, in teoria, non ha elementi in comune con il diritto di cronaca, in quanto estraneo al concetto di informazione. La par condicio riguarda, principalmente, il rapporto tra le forze politiche e gli elettori (ossia quella sfera che racchiude quegli elementi appartenenti alla definizione di “comunicazione politica”) e non quel legame, mitigato dalla figura del giornalista, tra “fatto” e collettività, vincolo alla base dell’informazione.

Lo scopo della comunicazione politica è divulgare una valutazione, di parte, al fine di orientare la scelta dell’ elettore: tale tentativo di pseudo condizionamento del voto, logicamente, può essere regolato da un principio di parità nell’ accesso ai media. La Legge n. 28/2000 obbliga, nei programmi di comunicazione, a prescindere dall’arco temporale di trasmissione (elettorale e non), alla par condicio, infatti l’ articolo 1 impone “parità di condizioni nell’esposizione di opinioni e posizioni politiche, nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nella presentazione in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione nella quale assuma carattere rilevante l’ esposizione di opinioni e valutazioni politiche”.

Tale norma non viene applicata “alla diffusione di notizie nei programmi di informazione”. Per questi ultimi, invece, (articolo 5) sono previste regole solo per il periodo corrispondente alla campagna elettorale: durante tale lasso di tempo, “è vietato fornire, anche in forma indiretta, indicazioni di voto o manifestare le proprie preferenze di voto”; registi e conduttori devono tenere “un comportamento corretto ed imparziale nella gestione del programma, così da non esercitare, anche in forma surrettizia, influenza sulle libere scelte degli elettori”[11].

Tuttavia una certa distorsione del criterio di informazione, ha portato ad una lenta assimilazione del concetto alla comunicazione politica. La Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, con il provvedimento 18 dicembre 2002, recante alcune regole per la comunicazione politica, ha stabilito all'articolo 11 (sotto la dicitura “Informazione”) che “ogni direttore responsabile di testata è tenuto ad assicurare che i programmi di informazione a contenuto politico parlamentare attuino un’equa rappresentazione di tutte le opinioni politiche, assicurando la parità di condizioni nell'esposizione di opinioni politiche presenti nel Parlamento nazionale e nel Parlamento europeo”: in breve, il conduttore di una trasmissione di approfondimento informativo, qualora si discuta di fatti politicamente rilevanti, è costretto ad invitare politici di diversi schieramenti, delegando, in maniera trasversale, l’informazione a persone decisamente non imparziali.

La stessa Commissione, con il provvedimento 11 marzo 2003 (articolo 1), detta che “tutte le trasmissioni di informazione, dai telegiornali ai programmi di approfondimento, devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell’ informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio”, sulla base di un “pluralismo […] che deve essere rispettato dalla azienda concessionaria nel suo insieme e in ogni suo atto, nonché dalle sue articolazioni interne (divisioni, reti, testate), e deve avere evidente riscontro nei singoli programmi”[12].

Tendenza questa seguita anche dalla legge ordinaria: l’articolo 7 del decreto legislativo n. 177/2005 (“Testo unico della radiotelevisione”) recita “La disciplina dell’informazione radiotelevisiva, comunque, garantisce […] l’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità”.

La Commissione di vigilanza (insieme all’ Autorità) ha di fatto operato una forzatura del dato normativo, in nome di un pluralismo forse frainteso, laddove la legge n. 28/2000 (articolo 1, comma 2) vietava espressamente l’applicazione della regolamentazione sui programmi di comunicazione politica “alla diffusione di notizie nei programmi di informazione”.

L’articolo 5, comma 4, della suddetta legge afferma che, dalla convocazione dei comizi elettorali alla chiusura delle operazioni di voto, “nelle trasmissioni informative riconducibili alla responsabilità di una specifica testata giornalistica […] la presenza di candidati, esponenti di partiti e movimenti politici, membri del Governo, delle giunte e dei consigli regionali e degli enti locali deve essere limitata esclusivamente all’esigenza di assicurare la completezza e l’imparzialità dell’informazione”, presenze assolutamente vietate “in tutte le altre trasmissioni”. In campagna elettorale dunque, gli interventi televisivi dei soggetti politici sono da considerarsi sotto un’ottica di comunicazione politica e questa è privilegiata solo in quella determinata occasione (le elezioni), mentre l’ informazione (che sia basata sui fatti e sui risultati della politica compiutamente) prevale in periodo non elettorale.

Le funzioni di controllo e il programma sanzionatorio sono affidate all’ Autorità garante delle comunicazioni. La Commissione prodotti e servizi (articolo 1, comma 6, legge n. 249/1997) “garantisce l’ applicazione delle disposizioni vigenti sulla propaganda, sulla pubblicità e sulla informazione politica, nonché l’ osservanza delle norme in materia di parità e di accesso nelle trasmissioni di informazione e propaganda elettorale ed emana le norme di attuazione”. Vigilanza che da un lato effettua un monitoraggio delle trasmissioni di informazione politica delle emittenti nazionali, dall'altro si occupa della raccolta di dati e informazioni che le emittenti devono consegnare all'Autorità.

Il regime delle sanzioni risulta molto frammentato a seconda del settore, producendo un sistema lacunoso e a volte incoerente. Per la violazione delle norme previste dalla legge n. 28/2000, dei provvedimenti della Commissione parlamentare di vigilanza e dell’Autorità, in merito all'emittenza nazionale, le sanzioni amministrative sono disciplinate dall'articolo 10, riguardo a iniziativa, procedimento e misure adottabili [13]. Le denunce, che devono recare la individuazione dell’emittente, dell’orario della violazione ed una “motivata argomentazione” tuttavia possono essere presentate solo dai soggetti politici (in quanto direttamente coinvolti nel rigoroso rispetto delle norme sulla par condicio) [14].

I provvedimenti sanzionatori (solo se dell’Autorità garante) possono essere impugnati al TAR del Lazio entro trenta giorni dalla loro comunicazione. È  possibile ricorrere anche dinanzi al giudice amministrativo, su richiesta dei soggetti interessati, qualora l’ Autorità non si sia pronunciata entro quarantotto ore dall’accertamento della violazione - denuncia. L’ archiviazione, conseguente all’ assunzione dell’ emittente incriminata dell’ impegno di utilizzare nell’immediato misure correttive adeguate, costituisce spesso la regola, data anche la logica conciliativa che viene applicata di norma dall’Autorità.

Per le violazioni delle disposizioni riguardanti i programmi di comunicazione politica, la sanzione (articolo 10, comma 3) consiste nell’obbligo di trasmettere programmi con maggiore partecipazione dei soggetti politici danneggiati; per l’infrazione della disciplina dei messaggi autogestiti, si mette a disposizione (articolo 10, comma 4) nuovi e appositi spazi per i danneggiati; per l’ inosservanza degli obblighi relativi ai programmi di informazione durante le campagne elettorali, si rimanda (articolo 10, comma 5) alla trasmissione di non precisati “servizi di informazione elettorale” con la “prevalente partecipazione” dei soggetti danneggiati. Per quanto riguarda la violazione della regolazione per la trasmissione dei sondaggi, l’emittente ha il dovere (articolo 10, comma 7) di dichiarare l’errore-infrazione con lo stesso rilievo con il quale il messaggio era stato trasmesso. Sintetico e povero è il regime sanzionatorio relativo alla emittenza locale privata: l’ Autorità può adottare “ogni provvedimento, anche in via di urgenza, idoneo ad eliminare gli effetti” delle violazioni (articolo 11, Legge n. 28/2000). [15]

1 In occasione della sentenza del 1994, la materia delle campagne elettorali poteva rappresentare un’ esemplificazione molto efficace: ma la Corte non ha detto nulla di esplicito in proposito.

2 La Corte dapprima ha chiarito tutti i dubbi di incostituzionalità e illegittimità legati alla legge 28/2000 (regolamentazione bastata sul principio delle pari opportunità). Inoltre ha ribadito il diritto costituzionale dei cittadini a ricevere una informazione plurale in modo da poter effettuare “le proprie valutazioni avendo presente punti di vista e orientamenti culturali e politici differenti”. La Corte ha poi affermato l’ applicabilità del principio pluralistico non solo al servizio pubblico ma anche ai privati, anche al di fuori della campagna elettorale (anche se l’ articolo 11 della legge 313/2003 ha escluso l’ applicabilità alle emittenti locali di alcune disposizioni sulla par condicio) (R. ZACCARIA, Diritto dell’ informazione, p. 171, 2010, CEDAM, VII ed. , Padova)

3 Così nella sentenza n. 48/1964, nella quale la Corte ritenne non costituzionalmente illegittime alcune norme della legge n. 212/1956, contenenti limitazioni all’ affissione di giornali murali e di manifesti di propaganda elettorale.

4 F. LANCHESTER, Propaganda elettoralein Italia tra continuità sregolata e difficile rinnovamento, in Quaderni costituzionali, n.3, p.383-384, 1996

5 F. LANCHESTER, Propaganda elettorale,in Quaderni costituzionali, n. 3, p. 386, 1996

6 E. BETTINELLI, Par Condicio, p. 40-41, 1995, Einaudi, I ed. , Roma

7 Nella sentenza n. 161/1995 la Corte costituzionale giustifica tale distinzione, mettendo al bando l’ utilizzo di tecniche comunicative intrinsecamente manipolative, in particolar modo se utilizzate all’ interno di un contesto pervasivo come quello della televisione. Si consente dunque la propaganda, connotata da una esposizione maggiormente argomentata e completa delle opinioni, e si vieta la pubblicità, che utilizza la “suggestione di messaggi brevi e non motivati”; non vale tale limite per le campagne referendarie, nelle quali “i messaggi tendono, per la stessa struttura binaria del quesito, a risultare semplificati” ( G. CUPERLO, Par condicio? Storia e futuro della politica in televisione, p. 75, 2004, Donzelli, Roma)

8 F. MODUGNO, Par condicio e costituzione (in particolare i saggi di M. RUOTOLO e T. FROSINI), p. 698-699, 1997, Giuffrè Editore, Milano

9Successivi riferimenti normativi in tal senso sono:

Il Decreto 8 aprile 2004 recante “Codice di autoregolamentazione in materia di attuazione del principio del pluralismo sottoscritto dalle organizzazioni rappresentative delle emittenti radiofoniche e televisive locali, ai sensi dell’ articolo 11, comma 2, della legge 28/2000, come introdotto dalla legge n. 313/2003”

La delibera n. 200/00/CSP recante “disposizioni di attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di accesso ai mezzi di informazione nei periodi non elettorali”

Le delibere attuative della legge 28/2000 dell’ Autorità e della Commissione parlamentare di vigilanza relativamente a ciascuna campagna elettorale e referendaria

L'articolo 1, comma 6, della legge n. 249/1997, il quale conferisce alla Commissione per i servizi e prodotti dell’ AGCOM l’ incarico di constatare la mancata osservanza, da parte della società concessionaria del servizio pubblico, degli indirizzi generati dalla Commissione parlamentare per l’ indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, e di richiedere alla stessa concessionaria l’ avviamento di procedure disciplinari nei confronti dei dirigenti responsabili.

(R. ZACCARIA, V. VALASTRO, M. GOBBO, Il diritto delle telecomunicazioni, p. 201, 2007)

10 La concessionaria pubblica è tenuta, in più, a mettere a disposizione, a chi lo richieda, i propri mezzi tecnici occorrenti per la loro produzione.

11 G. SIRIANNI, Par condicio: i complessi rapporti tra potere politico e potere televisivo, in Politica del diritto, n. 4, p. 31, 2005

12 G. SIRIANNI, Par condicio, in Politica del diritto, n. 4, p. 35-36, 2005

13 A. VALASTRO, Commento analitico alla legge 22 febbraio 2000, n. 28, p. 141, in Il Dir. delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 2001, CEDAM, III ed. , Milano

14La giurisprudenza dell’ Autorità considera tassativa l’ individuazione,fatta dalla legge, dei soggetti legittimati, ritenendo irricevibili le denunce presentate dai cittadini e dagli elettori.

15 L’ Autorità (articolo 23 Del. 253/01) delega ai Comitati regionali per le comunicazioni l’ incarico di procedere ad una istruttoria sommaria, da terminarsi entro 24 ore dalla contestazione. Qualora il ripristino della par condicio risulti difficoltoso, interviene l’ Autorità nelle quarantotto ore successive. I provvedimenti possono comunque essere impugnati davanti al TAR del Lazio.

Imparzialità e accuratezza sono i principi a cui deve rifarsi l’informazione. Questi ultimi sono citati in ogni legge incaricata di disciplinare il servizio radiotelevisivo, dalla Legge n. 103/1975, attraverso la Legge n. 223/1990 (Legge “Mammì”) e la n. 112/2004 (Legge “Gasparri”) fino al decreto legislativo n. 177/2005 (“Testo unico della radiotelevisione”).

Accanto a tali concetti, si aggiunge la tutela della “genuinità” del voto, che la Corte costituzionale ritiene condizione irrinunciabile per le competizioni elettorali che si effettuano in una democrazia reale. La manipolazione, la falsificazione della realtà, attraverso messaggi deformanti della coscienza individuale, non è ritenuta certo conforme a “diritto”.

Tale mistificazione è infatti contraria ad alcuni fondamentali enunciati costituzionali: l’articolo 2, laddove riconosce i “diritti inviolabili dell’uomo” e l’articolo 3 (comma 2), che indica, quale scopo della Repubblica, il “pieno sviluppo della persona umana”, che si può concretizzare innanzitutto tramite l’eliminazione di quegli “ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano “di fatto” la libertà e l’ uguaglianza dei cittadini. Del resto non è casuale che la stessa legislazione penale, risalente al periodo fascista, contempli la fattispecie dell’“abuso della credulità popolare”, identificata in “qualsiasi impostura” propagata “pubblicamente”, anche se “gratuitamente” (articolo 661 del Codice Penale).

Il principio della par condicio si ricollega in qualche modo a quella giurisprudenza (sentenza n. 420/1994) che ha inteso in termini estensivi il principio del pluralismo interno, ammettendone in alcuni casi l’ applicazione anche nei confronti dei soggetti privati nonché della concessionaria del servizio pubblico [1]. Nella sentenza n. 48/1964 la Corte costituzionale ebbe modo di enunciare un principio simile, prendendo spunto dalla disciplina riguardante il regolamento degli spazi relativi ai manifesti elettorali. Molto più particolareggiata è la decisione contenuta nella sentenza n. 161/1995 in tema di pubblicità e propaganda durante le campagne referendarie: la Corte non si pronunciò sulla questione di principio; ma pur condensando il suo interesse sulle disposizioni recanti limiti alla pubblicità e alla propaganda elettorale e referendaria, e giustificando le seconde, avallò indirettamente la possibilità di una normativa in materia basata sul principio della parità di trattamento.

La Corte, insomma, si è limitata a “bocciare” le disposizioni restrittive concernenti la pubblicità referendaria, basando il suo ragionamento sul profilo attivo del diritto di informare e non considerando il diritto dei cittadini a usufruire di un’ informazione non squilibrata sulla base dei diversi mezzi economici. Resta il fatto che la normativa esistente deve essere considerata come espressione di un assioma generale: infatti nella sentenza 155/2002 la Corte ha respinto le censure di illegittimità sollevate, accogliendo l’ interpretazione della par condicio quale , per l’ appunto, principio generale [2].

La parità di trattamento tra tutti i soggetti concorrenti in luoghi e spazi, pubblici e privati, designati alla propagazione di messaggi di propaganda e pubblicità elettorale ha trovato empirica e integrale attuazione solo nella Legge n. 515/1993. In seguito i Decreti Legge del 1995 sulla par condicio hanno soltanto mitigato la rigidità di un principio ritenuto da alcuni eccessivo. Eppure la Corte costituzionale, 30 anni prima, ebbe modo di notare che nel periodo di campagna elettorale “si determina una situazione che giustifica l’ intervento del legislatore ordinario, diretto a regolare il concorso con norme che tendono a porre tutti in condizioni di parità per evitare che lo svolgimento della vita democratica non sia ostacolato da situazioni economiche di svantaggio o politicamente di minoranza”[3.]

Storicamente, agli inizi degli anni ’60, si decise di mantenere il sistema televisivo, soggetto a monopolio pubblico, in una condizione di apparente neutralità, vietando cioè la possibilità di utilizzare il nuovo mezzo per attività di informazione e propaganda partitica. Tale divieto non scaturiva da un espresso disposto legislativo, ma dalla volontà politica di mantenere il potente veicolo di trasmissione sotto un rigido controllo governativo. Anche quando, con la Legge n. 212/1956, si attuò un ridisegno della disciplina della propaganda elettorale, non si avvertì l’esigenza di discutere sul tema della propaganda via etere.

Il ciclo della “RAI governativa”, e l’apertura all'accesso e al “pluralismo interno”, si chiuse con la sentenza della Corte costituzionale n. 59/1960 (“Lo Stato monopolista di un servizio destinato alla diffusione del pensiero ha l’obbligo di assicurare, in condizioni di imparzialità e obiettività, la possibilità potenziale di goderne a chi sia interessato ad avvalersene per la diffusione del pensiero”) [4].

La regolazione dell’accessibilità dei partiti al servizio pubblico, impostazione che non sarebbe stata, successivamente, mai modificata nelle sue linee fondamentali, fu formalizzata solo con la Legge n. 103/1975, la quale includeva il concetto di “pluralismo partitico” tra i suoi principi (articolo 1, comma 2) e riservava (articolo 4) alla Commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi il compito di disciplinare direttamente le “Tribune”, che la RAI doveva trasmettere. Con la nascita delle emittenti private e la conseguente disgregazione del monopolio pubblico, si avviò un nuovo processo di discussione sulla questione del “pluralismo esterno”, constatando l’esigenza di concepire una nuova regolamentazione che intervenisse sui nuovi soggetti della sfera televisiva. Esigenza che si configurò subito impellente dato il vuoto normativo, in relazione alla emittenza privata, e la derivante possibilità di utilizzare modalità più aggressive di propaganda politica ed elettorale, in una prospettiva nettamente mercantile.

Tale situazione si protrasse fino al 1990 (con le prospettive di regolamentazione completamente inevase): vani furono anche i tentativi di introdurre “codici di comportamento”, come quello suggerito dal Centro Calamandrei, il quale non ebbe esito alcuno [5]. Fallì, in merito alla pianificazione dell’accesso dei partiti e della propaganda elettorale, in quanto argomenti completamente accantonati, anche la legge 223/1990, relativamente alle emittenti private. L’unico argine a eventuali utilizzi “abusivi” dei media privati, fu costituito dall’estensione del divieto di fare propaganda nel giorno precedente ed in quello in cui si svolgono le elezioni (legge n. 19/1985, articolo 9 bis).

Solo con la Legge n. 515/1993, relativa alla disciplina delle campagne elettorali politiche (anticipata su alcuni punti dalla Legge n. 81/1993 riguardante l’ elezione diretta del sindaco e del presidente provinciale), il vuoto normativo venne parzialmente colmato. Relativamente al servizio pubblico, la Legge 515 affermava, secondo una linea di continuità con la Legge 103/1975, l’attribuzione alla Commissione parlamentare di indirizzo generale e di vigilanza del compito di disciplinare direttamente le rubriche elettorali, i servizi e i programmi elettorali.

Elemento di novità costituiva invece l’apertura del servizio pubblico alla trasmissione di “propaganda” elettorale di liste e di gruppi di candidati, da svolgersi, in situazione di parità, nell’ambito di spazi idonei, secondo le direttive impartite dalla Commissione parlamentare (articolo 1, comma 1) [6]. Per l’emittenza privata, la legge prevedeva una disciplina riguardo la “propaganda elettorale” e i “programmi e servizi di informazione elettorale”.

In relazione alla “propaganda elettorale”, trasmissibile “a qualsiasi titolo” (oneroso o gratuito), la Legge 515 (articolo 1, comma 2) disponeva che gli spazi fossero offerti dalle emittenti ai candidati, alle liste, ai partiti in condizioni di parità, secondo quanto stabilito dal Garante per la radiodiffusione e l’ editoria.

Nonostante ciò, la legge (articolo 2, comma 1) vietava, nel corso delle campagne, la propaganda elettorale per mezzo di “spot pubblicitari e ogni altra forma di trasmissione pubblicitaria radiotelevisiva”, distinguendo così diversi “modi propagandistici”, quelli di propaganda elettorale ammessa e pubblicità elettorale vietata [7]. Quanto ai “programmi e servizi di informazione elettorale” (tavole rotonde, discorsi, confronto tra candidati ecc.), valevano le stesse condizioni previste dall’articolo 1, comma 2. La legge non trattava la problematica inerente al trattamento equo ed imparziale dei partiti, anche in relazione alla informazione trasmessa dalle emittenti pubbliche e private: interveniva, nei programmi di comunicazione politica e propaganda, con una serie di divieti, finalizzati a combattere l’ inquinamento propagandistico in periodi “protetti” elettorali. Si vietava cioè la presenza di esponenti politici in tutti quei programmi diversi da quelli delle testate giornalistiche, nelle quali la loro presenza poteva essere giustificata se utili e decisivi per la completezza dell’ attività informativa (articolo 1, comma 5).

Un tentativo, quello della Legge 515, di superare una situazione di anarchia, persistente sul versante del privato, sperimentando nuove soluzioni (come il coinvolgimento della figura del Garante). Ne venne fuori però un sistema “bicefalo”, facente capo, per quanto riguarda il servizio pubblico, alla Commissione parlamentare, ed in quello della emittenza privata, al Garante, lasciando del tutto priva di regolamentazione la comunicazione politica delle emittenti private in periodi non elettorali [8].

La Legge n. 28/2000, con le aggiunte e correzioni introdotte dalla Legge n. 313/2003, costituisce un consistente tentativo di assestamento della materia [9]. Presupposto fondamentale è contenuto nell’articolo 2, comma 1: “le emittenti radiotelevisive devono assicurare a tutti i soggetti politici con imparzialità ed equità, l’accesso alla informazione ed alla comunicazione politica”. Il trattamento non discriminatorio, che i soggetti politici hanno diritto a ricevere, si traduce in un duplice senso di “accesso”: in quello più classico, cioè di sfruttare quei programmi specifici (“comunicazione politica”) appositamente creati per permettere ai partiti di esternare direttamente le loro posizioni; e in quello, nuovo, di diritto dei soggetti politici a poter usufruire di un equo trattamento all’ interno della informazione erogata dalle emittenti (“informazione politica”), sia private che pubbliche (ci si riferisce al telegiornale, giornale radio, notiziario o programmi a contenuto informativo – giornalistico).

Un diritto che, tra l’altro, non si limita alla durata delle campagne elettorali. La legge, inoltre, effettua una puntualizzazione delle forme di comunicazione, separando: “programmi di comunicazione politica” (“programmi contenenti opinioni e valutazioni politiche”, articolo 2, comma 2), predisposti dalle emittenti affinché venga promosso il confronto, dialogico e in presenza del contraddittorio, tra pensieri e considerazioni dei soggetti politici (tribune, interviste, tavole rotonde ecc.); “messaggi politici autogestiti” (“i messaggi recano una motivata esposizione di un programma o di una espressione politica ed hanno una durata compresa tra uno e tre minuti per le emittenti televisive e da trenta a novanta secondi per le emittenti radiofoniche” articolo 3, comma 3), programmi autogestiti dai partiti, con scopi di propaganda ma non confezionati secondo il modello dello “spot”.

L’offerta di spazi per la messa in onda di tali “messaggi politici”, sempre a titolo gratuito, è obbligatoria per il servizio pubblico, facoltativa per le emittenti private (articolo 3, comma 2; articolo 4, comma 4) [10]. Per le emittenti locali private, la disciplina attuativa delle regole della par condicio è rimessa (articolo 11, comma 2) ad un apposito codice di autoregolamentazione (sotto la “mediazione” ed il controllo dell’ Autorità delle telecomunicazioni); inoltre non sono obbligate a inserire nel palinsesto programmi di comunicazione politica.

Nonostante le numerose specificazioni, introduzioni di nuove linee guida, controlli e sanzioni, non è presente l’ adozione di uno schema coerente di “governance”, ma l’ accumulazione di diversi modelli: a ogni, cioè, segmento del sistema radiotelevisivo corrisponde un diverso tipo di regolamentazione di diritti e obblighi relativi ai soggetti politici e alle emittenti. Le certosine caratteristiche di ogni settore, in realtà, non possono essere ignorate. Tuttavia una “giusta” asimmetria tecnica non può giustificare l’esistenza di schemi di regolazione disparati e incoerenti, in una disciplina che dovrebbe esser sostenuta da chiarezza e semplicità.

Il concetto di par condicio, in teoria, non ha elementi in comune con il diritto di cronaca, in quanto estraneo al concetto di informazione. La par condicio riguarda, principalmente, il rapporto tra le forze politiche e gli elettori (ossia quella sfera che racchiude quegli elementi appartenenti alla definizione di “comunicazione politica”) e non quel legame, mitigato dalla figura del giornalista, tra “fatto” e collettività, vincolo alla base dell’informazione.

Lo scopo della comunicazione politica è divulgare una valutazione, di parte, al fine di orientare la scelta dell’ elettore: tale tentativo di pseudo condizionamento del voto, logicamente, può essere regolato da un principio di parità nell’ accesso ai media. La Legge n. 28/2000 obbliga, nei programmi di comunicazione, a prescindere dall’arco temporale di trasmissione (elettorale e non), alla par condicio, infatti l’ articolo 1 impone “parità di condizioni nell’esposizione di opinioni e posizioni politiche, nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nella presentazione in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione nella quale assuma carattere rilevante l’ esposizione di opinioni e valutazioni politiche”.

Tale norma non viene applicata “alla diffusione di notizie nei programmi di informazione”. Per questi ultimi, invece, (articolo 5) sono previste regole solo per il periodo corrispondente alla campagna elettorale: durante tale lasso di tempo, “è vietato fornire, anche in forma indiretta, indicazioni di voto o manifestare le proprie preferenze di voto”; registi e conduttori devono tenere “un comportamento corretto ed imparziale nella gestione del programma, così da non esercitare, anche in forma surrettizia, influenza sulle libere scelte degli elettori”[11].

Tuttavia una certa distorsione del criterio di informazione, ha portato ad una lenta assimilazione del concetto alla comunicazione politica. La Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, con il provvedimento 18 dicembre 2002, recante alcune regole per la comunicazione politica, ha stabilito all'articolo 11 (sotto la dicitura “Informazione”) che “ogni direttore responsabile di testata è tenuto ad assicurare che i programmi di informazione a contenuto politico parlamentare attuino un’equa rappresentazione di tutte le opinioni politiche, assicurando la parità di condizioni nell'esposizione di opinioni politiche presenti nel Parlamento nazionale e nel Parlamento europeo”: in breve, il conduttore di una trasmissione di approfondimento informativo, qualora si discuta di fatti politicamente rilevanti, è costretto ad invitare politici di diversi schieramenti, delegando, in maniera trasversale, l’informazione a persone decisamente non imparziali.

La stessa Commissione, con il provvedimento 11 marzo 2003 (articolo 1), detta che “tutte le trasmissioni di informazione, dai telegiornali ai programmi di approfondimento, devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell’ informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio”, sulla base di un “pluralismo […] che deve essere rispettato dalla azienda concessionaria nel suo insieme e in ogni suo atto, nonché dalle sue articolazioni interne (divisioni, reti, testate), e deve avere evidente riscontro nei singoli programmi”[12].

Tendenza questa seguita anche dalla legge ordinaria: l’articolo 7 del decreto legislativo n. 177/2005 (“Testo unico della radiotelevisione”) recita “La disciplina dell’informazione radiotelevisiva, comunque, garantisce […] l’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità”.

La Commissione di vigilanza (insieme all’ Autorità) ha di fatto operato una forzatura del dato normativo, in nome di un pluralismo forse frainteso, laddove la legge n. 28/2000 (articolo 1, comma 2) vietava espressamente l’applicazione della regolamentazione sui programmi di comunicazione politica “alla diffusione di notizie nei programmi di informazione”.

L’articolo 5, comma 4, della suddetta legge afferma che, dalla convocazione dei comizi elettorali alla chiusura delle operazioni di voto, “nelle trasmissioni informative riconducibili alla responsabilità di una specifica testata giornalistica […] la presenza di candidati, esponenti di partiti e movimenti politici, membri del Governo, delle giunte e dei consigli regionali e degli enti locali deve essere limitata esclusivamente all’esigenza di assicurare la completezza e l’imparzialità dell’informazione”, presenze assolutamente vietate “in tutte le altre trasmissioni”. In campagna elettorale dunque, gli interventi televisivi dei soggetti politici sono da considerarsi sotto un’ottica di comunicazione politica e questa è privilegiata solo in quella determinata occasione (le elezioni), mentre l’ informazione (che sia basata sui fatti e sui risultati della politica compiutamente) prevale in periodo non elettorale.

Le funzioni di controllo e il programma sanzionatorio sono affidate all’ Autorità garante delle comunicazioni. La Commissione prodotti e servizi (articolo 1, comma 6, legge n. 249/1997) “garantisce l’ applicazione delle disposizioni vigenti sulla propaganda, sulla pubblicità e sulla informazione politica, nonché l’ osservanza delle norme in materia di parità e di accesso nelle trasmissioni di informazione e propaganda elettorale ed emana le norme di attuazione”. Vigilanza che da un lato effettua un monitoraggio delle trasmissioni di informazione politica delle emittenti nazionali, dall'altro si occupa della raccolta di dati e informazioni che le emittenti devono consegnare all'Autorità.

Il regime delle sanzioni risulta molto frammentato a seconda del settore, producendo un sistema lacunoso e a volte incoerente. Per la violazione delle norme previste dalla legge n. 28/2000, dei provvedimenti della Commissione parlamentare di vigilanza e dell’Autorità, in merito all'emittenza nazionale, le sanzioni amministrative sono disciplinate dall'articolo 10, riguardo a iniziativa, procedimento e misure adottabili [13]. Le denunce, che devono recare la individuazione dell’emittente, dell’orario della violazione ed una “motivata argomentazione” tuttavia possono essere presentate solo dai soggetti politici (in quanto direttamente coinvolti nel rigoroso rispetto delle norme sulla par condicio) [14].

I provvedimenti sanzionatori (solo se dell’Autorità garante) possono essere impugnati al TAR del Lazio entro trenta giorni dalla loro comunicazione. È  possibile ricorrere anche dinanzi al giudice amministrativo, su richiesta dei soggetti interessati, qualora l’ Autorità non si sia pronunciata entro quarantotto ore dall’accertamento della violazione - denuncia. L’ archiviazione, conseguente all’ assunzione dell’ emittente incriminata dell’ impegno di utilizzare nell’immediato misure correttive adeguate, costituisce spesso la regola, data anche la logica conciliativa che viene applicata di norma dall’Autorità.

Per le violazioni delle disposizioni riguardanti i programmi di comunicazione politica, la sanzione (articolo 10, comma 3) consiste nell’obbligo di trasmettere programmi con maggiore partecipazione dei soggetti politici danneggiati; per l’infrazione della disciplina dei messaggi autogestiti, si mette a disposizione (articolo 10, comma 4) nuovi e appositi spazi per i danneggiati; per l’ inosservanza degli obblighi relativi ai programmi di informazione durante le campagne elettorali, si rimanda (articolo 10, comma 5) alla trasmissione di non precisati “servizi di informazione elettorale” con la “prevalente partecipazione” dei soggetti danneggiati. Per quanto riguarda la violazione della regolazione per la trasmissione dei sondaggi, l’emittente ha il dovere (articolo 10, comma 7) di dichiarare l’errore-infrazione con lo stesso rilievo con il quale il messaggio era stato trasmesso. Sintetico e povero è il regime sanzionatorio relativo alla emittenza locale privata: l’ Autorità può adottare “ogni provvedimento, anche in via di urgenza, idoneo ad eliminare gli effetti” delle violazioni (articolo 11, Legge n. 28/2000). [15]

1 In occasione della sentenza del 1994, la materia delle campagne elettorali poteva rappresentare un’ esemplificazione molto efficace: ma la Corte non ha detto nulla di esplicito in proposito.

2 La Corte dapprima ha chiarito tutti i dubbi di incostituzionalità e illegittimità legati alla legge 28/2000 (regolamentazione bastata sul principio delle pari opportunità). Inoltre ha ribadito il diritto costituzionale dei cittadini a ricevere una informazione plurale in modo da poter effettuare “le proprie valutazioni avendo presente punti di vista e orientamenti culturali e politici differenti”. La Corte ha poi affermato l’ applicabilità del principio pluralistico non solo al servizio pubblico ma anche ai privati, anche al di fuori della campagna elettorale (anche se l’ articolo 11 della legge 313/2003 ha escluso l’ applicabilità alle emittenti locali di alcune disposizioni sulla par condicio) (R. ZACCARIA, Diritto dell’ informazione, p. 171, 2010, CEDAM, VII ed. , Padova)

3 Così nella sentenza n. 48/1964, nella quale la Corte ritenne non costituzionalmente illegittime alcune norme della legge n. 212/1956, contenenti limitazioni all’ affissione di giornali murali e di manifesti di propaganda elettorale.

4 F. LANCHESTER, Propaganda elettoralein Italia tra continuità sregolata e difficile rinnovamento, in Quaderni costituzionali, n.3, p.383-384, 1996

5 F. LANCHESTER, Propaganda elettorale,in Quaderni costituzionali, n. 3, p. 386, 1996

6 E. BETTINELLI, Par Condicio, p. 40-41, 1995, Einaudi, I ed. , Roma

7 Nella sentenza n. 161/1995 la Corte costituzionale giustifica tale distinzione, mettendo al bando l’ utilizzo di tecniche comunicative intrinsecamente manipolative, in particolar modo se utilizzate all’ interno di un contesto pervasivo come quello della televisione. Si consente dunque la propaganda, connotata da una esposizione maggiormente argomentata e completa delle opinioni, e si vieta la pubblicità, che utilizza la “suggestione di messaggi brevi e non motivati”; non vale tale limite per le campagne referendarie, nelle quali “i messaggi tendono, per la stessa struttura binaria del quesito, a risultare semplificati” ( G. CUPERLO, Par condicio? Storia e futuro della politica in televisione, p. 75, 2004, Donzelli, Roma)

8 F. MODUGNO, Par condicio e costituzione (in particolare i saggi di M. RUOTOLO e T. FROSINI), p. 698-699, 1997, Giuffrè Editore, Milano

9Successivi riferimenti normativi in tal senso sono:

Il Decreto 8 aprile 2004 recante “Codice di autoregolamentazione in materia di attuazione del principio del pluralismo sottoscritto dalle organizzazioni rappresentative delle emittenti radiofoniche e televisive locali, ai sensi dell’ articolo 11, comma 2, della legge 28/2000, come introdotto dalla legge n. 313/2003”

La delibera n. 200/00/CSP recante “disposizioni di attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di accesso ai mezzi di informazione nei periodi non elettorali”

Le delibere attuative della legge 28/2000 dell’ Autorità e della Commissione parlamentare di vigilanza relativamente a ciascuna campagna elettorale e referendaria

L'articolo 1, comma 6, della legge n. 249/1997, il quale conferisce alla Commissione per i servizi e prodotti dell’ AGCOM l’ incarico di constatare la mancata osservanza, da parte della società concessionaria del servizio pubblico, degli indirizzi generati dalla Commissione parlamentare per l’ indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, e di richiedere alla stessa concessionaria l’ avviamento di procedure disciplinari nei confronti dei dirigenti responsabili.

(R. ZACCARIA, V. VALASTRO, M. GOBBO, Il diritto delle telecomunicazioni, p. 201, 2007)

10 La concessionaria pubblica è tenuta, in più, a mettere a disposizione, a chi lo richieda, i propri mezzi tecnici occorrenti per la loro produzione.

11 G. SIRIANNI, Par condicio: i complessi rapporti tra potere politico e potere televisivo, in Politica del diritto, n. 4, p. 31, 2005

12 G. SIRIANNI, Par condicio, in Politica del diritto, n. 4, p. 35-36, 2005

13 A. VALASTRO, Commento analitico alla legge 22 febbraio 2000, n. 28, p. 141, in Il Dir. delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 2001, CEDAM, III ed. , Milano

14La giurisprudenza dell’ Autorità considera tassativa l’ individuazione,fatta dalla legge, dei soggetti legittimati, ritenendo irricevibili le denunce presentate dai cittadini e dagli elettori.

15 L’ Autorità (articolo 23 Del. 253/01) delega ai Comitati regionali per le comunicazioni l’ incarico di procedere ad una istruttoria sommaria, da terminarsi entro 24 ore dalla contestazione. Qualora il ripristino della par condicio risulti difficoltoso, interviene l’ Autorità nelle quarantotto ore successive. I provvedimenti possono comunque essere impugnati davanti al TAR del Lazio.