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Parigi COP 21: un accordo storico o inutile?

Parigi COP 21: un accordo storico o inutile?
Parigi COP 21: un accordo storico o inutile?

Il 12 Dicembre 2015 ben 196 Parti (195 Stati oltre all’Unione Europea) hanno adottato formalmente il testo dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Si tratta di un accordo comune con carattere (almeno in parte) vincolante sulla lotta al cambiamento climatico, che impegna le Parti contraenti a contenere l’incremento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C rispetto all’era preindustriale e a compiere sforzi perché l’incremento possa limitarsi a 1.5°C. Il risultato è stato raggiunto dopo oltre 15 anni di infruttuosi colloqui nell’ambito della Conferenza delle Parti all’interno della Conferenza Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCC) e dopo oltre 15 giorni di negoziazioni nella Capitale francese.

Il Protocollo di Kyoto ed il percorso verso Parigi

Nel Febbraio 1997 la Conferenza delle Parti all’interno della UNFCC aveva adottato il Protocollo di Kyoto (entrato in vigore nel 2005, dopo la ratifica della Russia). Il Protocollo di Kyoto era un testo vincolante che aveva ottenuto ampia approvazione nell’ambito della COP3, ma imponeva obiettivi per i soli Paesi Allegato I (ossia i Paesi sviluppati), sulla base del principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Kyoto stabiliva impegni vincolanti di riduzione delle emissioni rispetto a quelle registrate nel 1985 – considerato come anno base – nel periodo 2008-2012. Nel corso degli anni, il numero degli Stati aderenti al Protocollo era aumentato e il suo orizzonte era stato esteso al 2020.

L’assunto base del Protocollo di Kyoto era che i Paesi industrializzati fossero i principali responsabili dei gas serra accumulati in atmosfera e per questo dovessero compiere sforzi per ridurre le proprie emissioni, mentre i Paesi meno sviluppati dovevano essere privi di vincoli al fine di non limitarne il processo di sviluppo economico.

I limiti del Protocollo emergevano ben presto. Gli USA, il principale emettitore di gas serra con una quota del 36% sul totale, non ratificando l’accordo spingeva all’adozione di misure “morbide” per assicurare la ratifica di altri Paesi a bilanciamento dell’assenza americana. Per tale ragione veniva deciso che fino al 2012 non sarebbe stata applicata alcuna sanzione rispetto al mancato raggiungimento degli obiettivi di riduzione e paesi come Cina o India, qualificati come paesi “in transizione”, non erano assoggettati a specifici impegni sulle emissioni di gas, “continuando il loro percorso di crescita che di lì a poco li avrebbe resi protagonisti nella questione del cambiamento climatico”.[1] Ma proprio la crescita delle emissioni dei Paesi emergenti - già nel 2013 la Cina rappresentava il principale Paese emettitore (29%), superando Stati Uniti (15%) e Unione Europea (11%) – facevano emergere sempre più la necessità di superare Kyoto e di imporre un vincolo al trend delle emissioni di tutti i Paesi (emergenti e sviluppati) ai fini del contenimento della temperatura globale.

L’Accordo di Parigi è stato preceduto e “preparato” da una serie di lunghe negoziazioni all’interno delle Conferenze delle Parti, riunite annualmente sotto un sistema di Presidenze rotanti e da alcuni accordi politici di particolare rilievo. Con la COP17 tenutasi a Durban nel 2011, per la prima volta tutti i Paesi, sia industrializzati che “emergenti”, si sono impegnati a raggiungere un accordo globale vincolante per la lotta al cambiamento climatico non oltre il 2015 (ossia entro la COP21 di Parigi) che fissasse obiettivi a partire dal 2020. Nel novembre 2014 Stati Uniti e Cina, i 2 principali emettitori mondiali, hanno annunciato i loro impegni, fornendo un segnale politico molto importante. Infine, i Paesi del G7 nel giugno 2015 per la prima volta hanno definito in modo unanime un obiettivo quantitativo congiunto di riduzione delle emissioni.[2]

I contenuti dell’Accordo di Parigi

L’Accordo di Parigi si compone di 3 sezioni: una sezione di principi comuni, una sezione vincolante e una non vincolante.[3] Tra i principi comuni le Parti è compreso l’impegno a “raggiungere il picco di emissioni il più presto possibile e a raggiungere un equilibrio tra sorgenti e assorbimento di gas climalteranti entro la metà di questo secolo” e quello a “mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto di 2° C e a sforzarsi di limitarla a 1,5° C”.All’equilibrio tra emissioni ed assorbimento è sotteso il principio della “neutralità climatica”, che, diversamente da quello delle “emissioni zero”, richiesto a gran voce dalle associazioni ambientaliste, non implica una rinuncia immediata all’utilizzo dei combustibili fossili, ma piuttosto il bilanciamento delle fonti emissive con altre di “cattura” dei gas climalteranti (attraverso, ad esempio, la carbon sequestration o la riforestazione).

Inoltre le Parti si danno l’obiettivo di “accrescere la capacità di adattamento agli impatti avversi del cambiamento climatico, promuovere la resilienza e uno sviluppo a basse emissioni di GHG, in maniera che non sia minacciata la produzione alimentare” e quello di “creare flussi finanziari coerenti con un percorso di sviluppo a basse emissioni di gas serra e resiliente ai cambiamenti climatici”.

Nella parte vincolante dell’Accordo ogni Parte firmataria si impegna a inviare i propri Piani nazionali di riduzione delle emissioni e a revisionarli nell’ambito della COP ogni 5 anni, a partire dal 2023 (con un primo dialogo informale nel 2018).

La parte non vincolante contiene la quasi totalità delle misure previste dall’Accordo (in particolare tutte le disposizioni relative a modalità e ambizioni nazionali di riduzione delle emissioni).

L’intesa è stata costruita attraverso un approccio bottom-up.[4] Diversamente dal Protocollo di Kyoto dove l’obiettivo complessivo di riduzione delle emissioni e la sua ripartizione tra le Parti erano stati fissati nell’ambito dei negoziati UNFCCC ed accompagnati da rigide regole di compliance, per Parigi le Parti si sono presentate con impegni vincolanti di riduzione delle emissioni (gli INDC)[5] che non sono stati oggetto di negoziazione. L’Accordo di Parigi, infatti, si limita a definire un percorso di aggiornamento degli impegni in ottica sempre più ambiziosa ogni 5 anni a partire dal 2020, senza prevedere alcun meccanismo di compliance[6]

Gli INDC avanzati dalle Parti presentano livelli di impegno e indicatori scelti per la definizione dell’obiettivo molto diversi. Gli INDC differiscono poi per l’orizzonte temporale dell’impegno e per la scelta dell’anno base. Alcuni Paesi hanno subordinato la validità dell’impegno a condizioni (ad esempio il raggiungimento di un accordo globale) o si sono riservati la possibilità di rivedere l’impegno a valle della COP di Parigi. L’Accordo di Parigi stabilisce che i Paesi industrializzati fissino gli obiettivi in termini di riduzione assoluta delle emissioni, mentre gli altri Paesi sono incoraggiati a assumere in futuro un obiettivo di questo tipo, purché nel frattempo aumentino progressivamente i loro sforzi. Tra i principali Paesi emergenti, la Cina ha scelto di assumere un obiettivo di riduzione delle emissioni per unità di PIL, mentre altri hanno scelto di fissare l’obiettivo con riferimento a uno scenario BAU.

Obiettivi post 2020 di riduzione delle emissioni di gas serra fissati dalle principali Parti negli INDC

Parte

 

Orizzonte

Anno   base

Indicatore

UE-28

40%

2030

1990

Riduzione assoluta

Stati Uniti

26-28%

2025

2005

Riduzione assoluta

Russia

25-30%

2030

1990

Riduzione assoluta

Cina

60-65%

2030

2005

Riduzione emissioni / PIL

India

33-35%

2030

2005

Riduzione emissioni / PIL

Corea del Sud

37%

2030

-

Riduzione su scenario BAU

Messico

22%*

2030

-

Riduzione su scenario BAU

* L'obiettivo può salire al 36% in caso di accordo globale sfidante Fonte: INDC

Gli INDC presentati per Parigi però non consentono – secondo le stime degli esperti - di centrare l’obiettivo di lungo termine definito dall’Accordo:[7] si tratta di una base di partenza, che dovrà essere progressivamente (e necessariamente) migliorata dalle Parti, aumentando il loro impegno in occasione degli aggiornamenti periodici. È questo un aspetto che ha generato perplessità,[8] anche perché non sono chiari i poteri dell’UNFCCC rispetto all’aggiornamento degli INDC.

Diversamente dal Protocollo di Kyoto, che fissava un obiettivo di abbattimento delle emissioni per un periodo prestabilito (2008-2012), non è previsto un termine al processo di aggiornamento periodico, per cui l’accordo raggiunto ha portata temporale potenzialmente illimitata.

Il nuovo Accordo sul clima pone l’accento sulla necessità di aumentare il supporto per le azioni volte a limitare l’incremento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-industriali. In questa prospettiva l’Accordo si cura di definire e quantificare gli strumenti finanziari necessari per conseguire gli obiettivi di abbattimento delle emissioni.

In generale si è previsto il trasferimento di risorse dai Paesi industrializzati ai Paesi emergenti al fine di supportare questi ultimi nelle attività di mitigazione delle emissioni e di adattamento alle conseguenze sull’attività umana e sugli ecosistemi derivanti dal cambiamento del clima in atto. Si tratta di risorse non inferiori 100 miliardi di dollari all’anno[9] da destinare ai Paesi emergenti a partire dal 2020, con fondi di provenienza pubblica o privata.

La netta distinzione operata da Kyoto tra Paesi donatori (Europa, Nord America, Australia, Giappone) e riceventi (il resto del mondo) è però più sfumata. Viene infatti incoraggiato, per la prima volta, il contributo finanziario volontario di tutti i paesi membri della Convenzione e sono riconosciuti gli sforzi già realizzati da alcuni. In particolare, in virtù del principio di responsabilità comuni ma differenziate e delle diverse capacità, e in considerazione dello sviluppo economico raggiunto da alcuni paesi (quali Cina, India e Sud Africa), l’Accordo pone le basi formali per una cooperazione “Sud-Sud”, complementare alla tradizionale “Nord-Sud”.[10]

Inoltre, l’Accordo richiede di rafforzare in maniera significativa gli aiuti alle azioni di adattamento, che finora hanno ricevuto una quota più ridotta degli investimenti effettuati. Benché alcuni paesi lo caldeggiassero, il testo finale dell’accordo non indica nessun obiettivo numerico in merito alla finanza per l’adattamento, ma si limita a chiedere una più bilanciata allocazione delle risorse tra azioni di mitigazione e adattamento. [11]

I prossimi round negoziali, a partire da quello di Marrakesh del 2016, dovranno meglio definire i dettagli ed i termini finanziari dell’Accordo e, in particolare, le modalità di erogazione dei contributi. Resta tuttavia chiaro che per il momento non esiste alcun obbligo legale in capo agli Stati sviluppati di garantire risorse finanziarie. Il riferimento ai 100 miliardi annui rimane quindi puramente indicativo.

Sul tema dei risarcimenti climatici per le perdite e i danni irreparabili (loss and damage) subìti dai Paesi vulnerabili a un cambiamento climatico innescato dalle economie avanzate, si è assistito ad un acceso confronto diplomatico. In particolare Unione Europea e Stati Uniti si sono opposti a qualsiasi sistema coercitivo che potesse esporli a richieste di indennizzo da parte dei Paesi potenzialmente danneggiati dai cataclismi.

Da Parigi arriva in generale un forte segnale politico alla comunità finanziaria e agli investitori. Si chiede un impegno maggiore ad investire in maniera coerente con la rivoluzione “low-carbon” dell’economia globale accompagnando la transizione verso un nuovo modello di sviluppo a bassa intensità di carbonio. Un impegno che i privati hanno già avviato grazie alla riduzione dei costi delle tecnologie per le energie rinnovabili e ai meccanismi di sostegno implementati dagli Stati. E che dopo Parigi continuerà, ragionevolmente, con maggiore vigore.

Per garantire efficienza nel raggiungimento degli obiettivi, questo accordo, come quello di Kyoto in precedenza, predilige lo sviluppo volontario di strumenti flessibili di mercato. La definizione di dettaglio dei meccanismi avverrà alla COP22 programmata per la fine 2016 a Marrakesh. Per evitare il ripetersi di esperienze negative del passato (si pensi ai progetti di abbattimento dei gas industriali HFC-23 e N2O per la maggior parte realizzati in Cina) sarà necessario vigilare sull’efficacia di tali strumenti.

I prossimi step formali prevedono la sottoscrizione dell’Accordo (tra il 22 aprile 2016 e il 21 aprile 2017) e successivamente la ratifica (o accettazione o approvazione) da parte degli Stati. L’entrata in vigore della Dichiarazione avverrà 30 giorni dopo il deposito dello strumento di ratifica della 55° Parte aderente (a condizione che gli aderenti siano responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali).

L’Accordo di Parigi e l’Unione Europea

L’Unione Europea ha sempre svolto il ruolo di traino a livello internazionale nella fissazione di impegni unilaterali ambiziosi e ha potuto svolgere un ruolo di regia ospitando la COP21. Per quanto riguarda il conseguimento dei propri obiettivi unilaterali contenuti nell’INDC, che coincidono con quelli del Pacchetto Clima Energia 2030, la Commissione Europea sta procedendo affinché si completi al più presto il quadro legislativo comunitario a supporto degli obiettivi.

A luglio ha già presentato la proposta di modifica della direttiva ETS,[12] mentre nel corso del 2016 dovrebbe avvenire la presentazione, tra le altre, delle proposte di modica delle direttive per la promozione delle fonti rinnovabili e per l’efficienza energetica e del Burden Sharing Agreement. Tra il 2016 e il 2018 dovrebbero inoltre essere redatti i piani nazionali per l’energia e il clima, che dovrebbero tra l’altro consentire di conseguire congiuntamente l’obiettivo comunitario per le fonti rinnovabili, sulla base delle linee guida pubblicate dalla Commissione a novembre 2015.

Le più recenti stime contenute nello State of the Energy Union 2015 indicano che sulla base delle misure attuali l’Unione Europea nel suo complesso nel 2030 ridurrà le sue emissioni del 27% rispetto al 1990, per cui occorreranno misure aggiuntive per centrare l’obiettivo di abbattimento del 40% assunto unilateralmente a livello internazionale.

Da una prospettiva europea l’Accordo di Parigi, seppur rilevante da un punto di vista politico, appare neutro, nel senso che nel breve non sembrerebbe capace di influenzare l’andamento dei target al 2030.

Esiste tuttavia un elemento di interesse: l’accordo di Parigi fa menzione di un target di riduzione dell’aumento delle temperature medie di 1,5 gradi. Tutte le proiezioni climatiche e conseguentemente la definizione dei target 2030, sono basati su una riduzione di 2 gradi. Sarà interessante vedere se e come la coalizione degli Stati membri “green” (guidati da Germania e Nordici) vorranno cercare un rilancio delle ambizioni climatiche europee e come la coalizione dei carboniferi (Polonia in testa) si opporrà.

L’Accordo raggiunto a Parigi è stato da alcuni definito storico,[13] mentre altri ne hanno sottolineato le lacune.[14]

Indubbiamente è stato centrato un risultato politico, quello di mettere d’accordo tutte le nazioni coinvolte su un obiettivo di decarbonizzazione mondiale di lungo termine e di definire il processo e gli strumenti, anche economici, per realizzarlo. In particolare l’Accordo assegna agli Stati, e non alle istituzioni dell’UNFCCC, il ruolo di protagonisti del processo.

Più precisamente l’Accordo di Parigi ha sancito alcuni principi fondamentali che avevano bloccato ogni possibile progresso nei round negoziali precedenti:

- riguarda ogni Parte firmataria, ponendo obiettivi complessivi in capo a tutte le Parti dell’accordo (differentemente dal Protocollo di Kyoto);

- istituzionalizza un processo di revisione dei dati e degli obiettivi nazionali ogni 5 anni;

- fornisce una metodologia comune (anche se non esclusiva) per la misurazione delle emissioni;

- prevede un sistema di governance per le future discussioni e l’evoluzione degli obiettivi.

L’Accordo finalizzato nell’ambito della COP21 presenta però alcuni elementi di debolezza tra cui spiccano:

- l’assenza di meccanismi sanzionatori rispetto al mancato raggiungimento degli obiettivi nazionali;

- le attività di verifica sulle emissioni rimesse agli Stati stessi (e non all’UNFCCC), sebbene nell’ambito di un regime di trasparenza obbligatorio;

- la mancata indicazione della data entro la quale si intende raggiungere il picco globale delle emissioni;[15]

- l’estromissione dall’accordo delle emissioni legate al trasporto internazionale (navi e aerei),[16] sebbene esse siano rilevanti e ne sia prevista una crescita importante nei prossimi anni;

- l’assenza di ogni riferimento ai carbon market: in assenza di un sistema di cap and trade con l’assegnazione centralizzata di quote, non sussistono le condizioni per il mantenimento dei meccanismi flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto.

La mancanza di impegni sfidanti da parte delle gradi economie emergenti (India e Cina in primis), inoltre, è probabile che ridurrà la “praticabilità” politica, in Occidente, di generose sovvenzioni alle grandi economie emettitrici in via di sviluppo. Difficile infatti spiegare all’elettore medio americano o giapponese che paesi che non hanno preso impegni di natura vincolante, e che propongono misure inferiori a quelle che essi stessi intendono perseguire in politica interna, siano candidati meritevoli di ricevere i 100 miliardi di dollari annui.

A ben guardare, sarebbe stato difficile immaginare che Parigi potesse “partorire” un risultato migliore, considerata la natura dello strumento utilizzato, cioè quella di un accordo multilaterale, con oltre 190 contraenti, caratterizzati da interessi e posizioni molto diverse, quando non confliggenti. E infatti vi è chi tra gli osservatori[17] si è chiesto se l’accordo “esteso a tutti” fosse lo strumento più appropriato, o se non sarebbe stato preferibile che i “grandi emettitori”[18] definissero in ambito ristretto un percorso di transizione più preciso, stringente e dettagliato.

Di certo il raggiungimento dell’obiettivo globale dipenderà molto dalla responsabilità e dall’impegno delle Parti, in particolare quelle che hanno oggi il peso maggiore in termini di emissioni o che lo potrebbero aumentare considerevolmente in futuro (ad esempio Russia, Argentina, Brasile, Messico, Turchia).

E la responsabilità e l’impegno degli Stati a loro volta saranno tanto maggiori, quanto più forte sarà la pressione e la spinta che le rispettive opinioni pubbliche sapranno esprimere sul tema del cambiamento climatico.

V’è da augurarsi che tale pressione e spinta, per diventare davvero determinanti, non necessitino del sopraggiungere di catastrofi e disastri naturali “planetari”. Che questi ultimi si verifichino, in assenza dell’implementazione di policy adeguate e tempestive, è praticamente una certezza. Il rischio concreto è che accadano quando oramai è troppo tardi per porvi rimedio.

 

[1] Ilaria Urbani, “COP21: un passo avanti o un altro punto di partenza?”, pubblicato il 29/12/2015 sul sito http://www.geopolitica-rivista.org/.

[2] Si veda: REF Energia, Osservatorio Energia n. 193-194, Novembre/Dicembre 2015, pagg.41 e ss.

[3] Tale distinzione si è resa necessaria dall’opposizione indiana e cinese ad un accordo integralmente vincolante.

[4] “Con l’abbandono di un accordo “top-down”, calato dall’alto, come il protocollo di Kyoto, a favore di un approccio “bottom-up”, si è data anzitutto la possibilità a ciascun Paese di enunciare un proprio piano volontario di riduzione delle emissioni realizzando così la differenziazione perfetta” così Marzio Galeotti e Alessandro Lanza, “L’accordo sul clima? Diplomatico” pubblicato il 15/12/15 su www.lavoce.info.

[5] INDC (impegni nazionali di riduzione delle emissioni): l'acronimo sta per Intended Nationally Determined Contribution. Per facilitare i lavori e stimolare le nazioni partecipanti, l'UNFCCC ha previsto che i partecipanti presentassero, prima della Cop21, dei piani in cui è scritto nero su bianco quel che ogni parte intende fare per ridurre le emissioni; gli INDC sono appunti questi piani. Sul tavolo della Conferenza sono arrivati 147 INDC, che riguardano 181 Stati (l'Unione Europea ad esempio ne ha uno) e coprono il 94% delle emissioni mondiali. Alcune parti hanno specificato obiettivi di riduzione in termini assoluti, circa la metà hanno definito target con uno scenario business as usual, altre invece sulla base del loro rapporto con il Pil, cioè la carbon intensity, mentre altre ancora (il caso più importante è la Cina) hanno stabilito un determinato anno entro il quale le emissioni dovranno raggiungere il loro picco. Solo una minoranza di Paesi ha incluso nei rispettivi INDC le azioni specifiche che intraprenderanno per ridurre la CO2.

[6] Si tratta di un approccio almeno in parte simile a quello adottato dall’Unione Europea per il conseguimento dell’obiettivo 2030 in termini di penetrazione del consumo da fonte rinnovabile: l’obiettivo (27% del consumo finale lordo) è vincolante solo a livello comunitario e dovrebbe essere raggiunto attraverso un sistema di governance coordinato dalla Commissione Europea che dovrebbe guidare i singoli Stati a predisporre piani d’azione per l’energia e il clima coerenti con l’obiettivo complessivo. La debolezza del meccanismo risiede nel fatto che non è chiaro il potere della Commissione nell’imporre modifiche ai piani dei singoli Stati (salvo l’obbligo per gli Stati di conseguire gli obiettivi nazionali di abbattimento delle emissioni nei settori non ETS), così come non è chiaro il potere che avrà l’UNFCCC in occasione dell’aggiornamento degli INDC.

[7] Le emissioni sulla base degli impegni presi in base all’Accordo di Parigi raggiungeranno secondo l’UNFCCC 55 GtCO2eq nel 2030, a fronte della soglia di 40 GtCO2eq ritenuta necessaria a contenere l’aumento delle temperature entro i 2° C. Più specificamente i 158 piani inoltrati, rappresentando 186 paesi e circa il 96 per cento delle emissioni globali nel 2010 (e il 97 per cento della popolazione mondiale), traguarderebbero un aumento della temperatura a +2,7° C.

[8] “Siamo ben lontani da quegli ”adeguati meccanismi di controllo, di verifica periodica e di sanzione delle inadempienze” auspicati da Papa Francesco nella Laudato sì. Inoltre gli impegni volontari portano con sé il rischio che i governi futuri possano con facilità tirarsene fuori”; così Andrea Masullo, su La Stampa del 29/12/2015.

[9] Il livello dello sforzo sarà rivisto in ambito COP entro il 2025, ma non potrà comunque essere inferiore alla soglia dei 100 miliardi di dollari. Non è chiaro tuttavia come lo sforzo sarà ripartito tra i Paesi industrializzati.

[10] Si veda: “Se il modello di sviluppo si tinge di verde” di Chiara Trabacchi e Barbara Buchner, pubblicato il 18/12/15 su www.lavoce.info. Nel contributo le due autrici evidenziano che: “Secondo le stime preliminari realizzate dall’Ocse in cooperazione con il Climate Policy Initiative (Cpi), le risorse finanziarie mobilizzate dai paesi sviluppati hanno raggiunto i 57 miliardi di dollari in media nel periodo 2013-2014. Il Fondo verde per il clima, il meccanismo della Convezione quadro per i cambiamenti climatici (Unfcc) creato per rafforzare il sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo, è diventato operativo nel corso del 2015, approvando i primi otto progetti poche settimane prima del summit di Parigi. Tuttavia, benché significativi, progressi e sforzi non sono ancora sufficienti. L’Agenzia internazionale per l’energia stima, ad esempio, che per promuovere la transizione energetica saranno necessari 16,5 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari per investimenti in efficienza energetica e tecnologie a basse emissioni nei prossimi quindici anni. Ulteriori risorse saranno necessarie per gestire i rischi associati ai cambiamenti climatici (o cogliere eventuali opportunità)”.

[11] “Richiesta politica più che scientifica, perché la necessità di un equilibrio tra i due non è chiara” così Chiara Trabacchi e Barbara Buchner, “Se il modello di sviluppo si tinge di verde”, (ut supra).

[12] Si veda la Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15/7/2015 che modifica la direttiva 2003/87/CE per sostenere una riduzione delle emissioni più efficace sotto il profilo dei costi e promuovere investimenti a favore di basse emissioni di carbonio; https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2015/IT/1-2015-337-IT-F1-1.PDF

[13] Si veda l’articolo, “Cop21, arriva la firma” http://www.repubblica.it/ambiente/2015/12/12/news/cop21_e_il_giorno_dell_accordo_sul_clima-129303103/

[14] Si veda: Sergio Ferraris, “Cop21, accordo in bianco”, pubblicato il 14/12/2016, su http://lanuovaecologia.it/cop21-accordo-bianco/.

[15] L’INDC della Cina contiene l’impegno a raggiungere il picco delle emissioni nazionali entro il 2030.

[16] Impegni che erano parte del testo di Copenaghen e che ricoprono circa il 10% delle emissioni totali.

[17] G.B. Zorzoli, “COP21, uno strumento inappropriato”, pubblicato il 18/12/2015, su www.staffettaquotidiana.it.

[18] Stati Uniti, Cina, India, Unione Europea producono attualmente il 75% delle emissioni.

Il 12 Dicembre 2015 ben 196 Parti (195 Stati oltre all’Unione Europea) hanno adottato formalmente il testo dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Si tratta di un accordo comune con carattere (almeno in parte) vincolante sulla lotta al cambiamento climatico, che impegna le Parti contraenti a contenere l’incremento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C rispetto all’era preindustriale e a compiere sforzi perché l’incremento possa limitarsi a 1.5°C. Il risultato è stato raggiunto dopo oltre 15 anni di infruttuosi colloqui nell’ambito della Conferenza delle Parti all’interno della Conferenza Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCC) e dopo oltre 15 giorni di negoziazioni nella Capitale francese.

Il Protocollo di Kyoto ed il percorso verso Parigi

Nel Febbraio 1997 la Conferenza delle Parti all’interno della UNFCC aveva adottato il Protocollo di Kyoto (entrato in vigore nel 2005, dopo la ratifica della Russia). Il Protocollo di Kyoto era un testo vincolante che aveva ottenuto ampia approvazione nell’ambito della COP3, ma imponeva obiettivi per i soli Paesi Allegato I (ossia i Paesi sviluppati), sulla base del principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Kyoto stabiliva impegni vincolanti di riduzione delle emissioni rispetto a quelle registrate nel 1985 – considerato come anno base – nel periodo 2008-2012. Nel corso degli anni, il numero degli Stati aderenti al Protocollo era aumentato e il suo orizzonte era stato esteso al 2020.

L’assunto base del Protocollo di Kyoto era che i Paesi industrializzati fossero i principali responsabili dei gas serra accumulati in atmosfera e per questo dovessero compiere sforzi per ridurre le proprie emissioni, mentre i Paesi meno sviluppati dovevano essere privi di vincoli al fine di non limitarne il processo di sviluppo economico.

I limiti del Protocollo emergevano ben presto. Gli USA, il principale emettitore di gas serra con una quota del 36% sul totale, non ratificando l’accordo spingeva all’adozione di misure “morbide” per assicurare la ratifica di altri Paesi a bilanciamento dell’assenza americana. Per tale ragione veniva deciso che fino al 2012 non sarebbe stata applicata alcuna sanzione rispetto al mancato raggiungimento degli obiettivi di riduzione e paesi come Cina o India, qualificati come paesi “in transizione”, non erano assoggettati a specifici impegni sulle emissioni di gas, “continuando il loro percorso di crescita che di lì a poco li avrebbe resi protagonisti nella questione del cambiamento climatico”.[1] Ma proprio la crescita delle emissioni dei Paesi emergenti - già nel 2013 la Cina rappresentava il principale Paese emettitore (29%), superando Stati Uniti (15%) e Unione Europea (11%) – facevano emergere sempre più la necessità di superare Kyoto e di imporre un vincolo al trend delle emissioni di tutti i Paesi (emergenti e sviluppati) ai fini del contenimento della temperatura globale.

L’Accordo di Parigi è stato preceduto e “preparato” da una serie di lunghe negoziazioni all’interno delle Conferenze delle Parti, riunite annualmente sotto un sistema di Presidenze rotanti e da alcuni accordi politici di particolare rilievo. Con la COP17 tenutasi a Durban nel 2011, per la prima volta tutti i Paesi, sia industrializzati che “emergenti”, si sono impegnati a raggiungere un accordo globale vincolante per la lotta al cambiamento climatico non oltre il 2015 (ossia entro la COP21 di Parigi) che fissasse obiettivi a partire dal 2020. Nel novembre 2014 Stati Uniti e Cina, i 2 principali emettitori mondiali, hanno annunciato i loro impegni, fornendo un segnale politico molto importante. Infine, i Paesi del G7 nel giugno 2015 per la prima volta hanno definito in modo unanime un obiettivo quantitativo congiunto di riduzione delle emissioni.[2]

I contenuti dell’Accordo di Parigi

L’Accordo di Parigi si compone di 3 sezioni: una sezione di principi comuni, una sezione vincolante e una non vincolante.[3] Tra i principi comuni le Parti è compreso l’impegno a “raggiungere il picco di emissioni il più presto possibile e a raggiungere un equilibrio tra sorgenti e assorbimento di gas climalteranti entro la metà di questo secolo” e quello a “mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto di 2° C e a sforzarsi di limitarla a 1,5° C”.All’equilibrio tra emissioni ed assorbimento è sotteso il principio della “neutralità climatica”, che, diversamente da quello delle “emissioni zero”, richiesto a gran voce dalle associazioni ambientaliste, non implica una rinuncia immediata all’utilizzo dei combustibili fossili, ma piuttosto il bilanciamento delle fonti emissive con altre di “cattura” dei gas climalteranti (attraverso, ad esempio, la carbon sequestration o la riforestazione).

Inoltre le Parti si danno l’obiettivo di “accrescere la capacità di adattamento agli impatti avversi del cambiamento climatico, promuovere la resilienza e uno sviluppo a basse emissioni di GHG, in maniera che non sia minacciata la produzione alimentare” e quello di “creare flussi finanziari coerenti con un percorso di sviluppo a basse emissioni di gas serra e resiliente ai cambiamenti climatici”.

Nella parte vincolante dell’Accordo ogni Parte firmataria si impegna a inviare i propri Piani nazionali di riduzione delle emissioni e a revisionarli nell’ambito della COP ogni 5 anni, a partire dal 2023 (con un primo dialogo informale nel 2018).

La parte non vincolante contiene la quasi totalità delle misure previste dall’Accordo (in particolare tutte le disposizioni relative a modalità e ambizioni nazionali di riduzione delle emissioni).

L’intesa è stata costruita attraverso un approccio bottom-up.[4] Diversamente dal Protocollo di Kyoto dove l’obiettivo complessivo di riduzione delle emissioni e la sua ripartizione tra le Parti erano stati fissati nell’ambito dei negoziati UNFCCC ed accompagnati da rigide regole di compliance, per Parigi le Parti si sono presentate con impegni vincolanti di riduzione delle emissioni (gli INDC)[5] che non sono stati oggetto di negoziazione. L’Accordo di Parigi, infatti, si limita a definire un percorso di aggiornamento degli impegni in ottica sempre più ambiziosa ogni 5 anni a partire dal 2020, senza prevedere alcun meccanismo di compliance[6]

Gli INDC avanzati dalle Parti presentano livelli di impegno e indicatori scelti per la definizione dell’obiettivo molto diversi. Gli INDC differiscono poi per l’orizzonte temporale dell’impegno e per la scelta dell’anno base. Alcuni Paesi hanno subordinato la validità dell’impegno a condizioni (ad esempio il raggiungimento di un accordo globale) o si sono riservati la possibilità di rivedere l’impegno a valle della COP di Parigi. L’Accordo di Parigi stabilisce che i Paesi industrializzati fissino gli obiettivi in termini di riduzione assoluta delle emissioni, mentre gli altri Paesi sono incoraggiati a assumere in futuro un obiettivo di questo tipo, purché nel frattempo aumentino progressivamente i loro sforzi. Tra i principali Paesi emergenti, la Cina ha scelto di assumere un obiettivo di riduzione delle emissioni per unità di PIL, mentre altri hanno scelto di fissare l’obiettivo con riferimento a uno scenario BAU.

Obiettivi post 2020 di riduzione delle emissioni di gas serra fissati dalle principali Parti negli INDC

Parte

 

Orizzonte

Anno   base

Indicatore

UE-28

40%

2030

1990

Riduzione assoluta

Stati Uniti

26-28%

2025

2005

Riduzione assoluta

Russia

25-30%

2030

1990

Riduzione assoluta

Cina

60-65%

2030

2005

Riduzione emissioni / PIL

India

33-35%

2030

2005

Riduzione emissioni / PIL

Corea del Sud

37%

2030

-

Riduzione su scenario BAU

Messico

22%*

2030

-

Riduzione su scenario BAU

* L'obiettivo può salire al 36% in caso di accordo globale sfidante Fonte: INDC

Gli INDC presentati per Parigi però non consentono – secondo le stime degli esperti - di centrare l’obiettivo di lungo termine definito dall’Accordo:[7] si tratta di una base di partenza, che dovrà essere progressivamente (e necessariamente) migliorata dalle Parti, aumentando il loro impegno in occasione degli aggiornamenti periodici. È questo un aspetto che ha generato perplessità,[8] anche perché non sono chiari i poteri dell’UNFCCC rispetto all’aggiornamento degli INDC.

Diversamente dal Protocollo di Kyoto, che fissava un obiettivo di abbattimento delle emissioni per un periodo prestabilito (2008-2012), non è previsto un termine al processo di aggiornamento periodico, per cui l’accordo raggiunto ha portata temporale potenzialmente illimitata.

Il nuovo Accordo sul clima pone l’accento sulla necessità di aumentare il supporto per le azioni volte a limitare l’incremento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-industriali. In questa prospettiva l’Accordo si cura di definire e quantificare gli strumenti finanziari necessari per conseguire gli obiettivi di abbattimento delle emissioni.

In generale si è previsto il trasferimento di risorse dai Paesi industrializzati ai Paesi emergenti al fine di supportare questi ultimi nelle attività di mitigazione delle emissioni e di adattamento alle conseguenze sull’attività umana e sugli ecosistemi derivanti dal cambiamento del clima in atto. Si tratta di risorse non inferiori 100 miliardi di dollari all’anno[9] da destinare ai Paesi emergenti a partire dal 2020, con fondi di provenienza pubblica o privata.

La netta distinzione operata da Kyoto tra Paesi donatori (Europa, Nord America, Australia, Giappone) e riceventi (il resto del mondo) è però più sfumata. Viene infatti incoraggiato, per la prima volta, il contributo finanziario volontario di tutti i paesi membri della Convenzione e sono riconosciuti gli sforzi già realizzati da alcuni. In particolare, in virtù del principio di responsabilità comuni ma differenziate e delle diverse capacità, e in considerazione dello sviluppo economico raggiunto da alcuni paesi (quali Cina, India e Sud Africa), l’Accordo pone le basi formali per una cooperazione “Sud-Sud”, complementare alla tradizionale “Nord-Sud”.[10]

Inoltre, l’Accordo richiede di rafforzare in maniera significativa gli aiuti alle azioni di adattamento, che finora hanno ricevuto una quota più ridotta degli investimenti effettuati. Benché alcuni paesi lo caldeggiassero, il testo finale dell’accordo non indica nessun obiettivo numerico in merito alla finanza per l’adattamento, ma si limita a chiedere una più bilanciata allocazione delle risorse tra azioni di mitigazione e adattamento. [11]

I prossimi round negoziali, a partire da quello di Marrakesh del 2016, dovranno meglio definire i dettagli ed i termini finanziari dell’Accordo e, in particolare, le modalità di erogazione dei contributi. Resta tuttavia chiaro che per il momento non esiste alcun obbligo legale in capo agli Stati sviluppati di garantire risorse finanziarie. Il riferimento ai 100 miliardi annui rimane quindi puramente indicativo.

Sul tema dei risarcimenti climatici per le perdite e i danni irreparabili (loss and damage) subìti dai Paesi vulnerabili a un cambiamento climatico innescato dalle economie avanzate, si è assistito ad un acceso confronto diplomatico. In particolare Unione Europea e Stati Uniti si sono opposti a qualsiasi sistema coercitivo che potesse esporli a richieste di indennizzo da parte dei Paesi potenzialmente danneggiati dai cataclismi.

Da Parigi arriva in generale un forte segnale politico alla comunità finanziaria e agli investitori. Si chiede un impegno maggiore ad investire in maniera coerente con la rivoluzione “low-carbon” dell’economia globale accompagnando la transizione verso un nuovo modello di sviluppo a bassa intensità di carbonio. Un impegno che i privati hanno già avviato grazie alla riduzione dei costi delle tecnologie per le energie rinnovabili e ai meccanismi di sostegno implementati dagli Stati. E che dopo Parigi continuerà, ragionevolmente, con maggiore vigore.

Per garantire efficienza nel raggiungimento degli obiettivi, questo accordo, come quello di Kyoto in precedenza, predilige lo sviluppo volontario di strumenti flessibili di mercato. La definizione di dettaglio dei meccanismi avverrà alla COP22 programmata per la fine 2016 a Marrakesh. Per evitare il ripetersi di esperienze negative del passato (si pensi ai progetti di abbattimento dei gas industriali HFC-23 e N2O per la maggior parte realizzati in Cina) sarà necessario vigilare sull’efficacia di tali strumenti.

I prossimi step formali prevedono la sottoscrizione dell’Accordo (tra il 22 aprile 2016 e il 21 aprile 2017) e successivamente la ratifica (o accettazione o approvazione) da parte degli Stati. L’entrata in vigore della Dichiarazione avverrà 30 giorni dopo il deposito dello strumento di ratifica della 55° Parte aderente (a condizione che gli aderenti siano responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali).

L’Accordo di Parigi e l’Unione Europea

L’Unione Europea ha sempre svolto il ruolo di traino a livello internazionale nella fissazione di impegni unilaterali ambiziosi e ha potuto svolgere un ruolo di regia ospitando la COP21. Per quanto riguarda il conseguimento dei propri obiettivi unilaterali contenuti nell’INDC, che coincidono con quelli del Pacchetto Clima Energia 2030, la Commissione Europea sta procedendo affinché si completi al più presto il quadro legislativo comunitario a supporto degli obiettivi.

A luglio ha già presentato la proposta di modifica della direttiva ETS,[12] mentre nel corso del 2016 dovrebbe avvenire la presentazione, tra le altre, delle proposte di modica delle direttive per la promozione delle fonti rinnovabili e per l’efficienza energetica e del Burden Sharing Agreement. Tra il 2016 e il 2018 dovrebbero inoltre essere redatti i piani nazionali per l’energia e il clima, che dovrebbero tra l’altro consentire di conseguire congiuntamente l’obiettivo comunitario per le fonti rinnovabili, sulla base delle linee guida pubblicate dalla Commissione a novembre 2015.

Le più recenti stime contenute nello State of the Energy Union 2015 indicano che sulla base delle misure attuali l’Unione Europea nel suo complesso nel 2030 ridurrà le sue emissioni del 27% rispetto al 1990, per cui occorreranno misure aggiuntive per centrare l’obiettivo di abbattimento del 40% assunto unilateralmente a livello internazionale.

Da una prospettiva europea l’Accordo di Parigi, seppur rilevante da un punto di vista politico, appare neutro, nel senso che nel breve non sembrerebbe capace di influenzare l’andamento dei target al 2030.

Esiste tuttavia un elemento di interesse: l’accordo di Parigi fa menzione di un target di riduzione dell’aumento delle temperature medie di 1,5 gradi. Tutte le proiezioni climatiche e conseguentemente la definizione dei target 2030, sono basati su una riduzione di 2 gradi. Sarà interessante vedere se e come la coalizione degli Stati membri “green” (guidati da Germania e Nordici) vorranno cercare un rilancio delle ambizioni climatiche europee e come la coalizione dei carboniferi (Polonia in testa) si opporrà.

L’Accordo raggiunto a Parigi è stato da alcuni definito storico,[13] mentre altri ne hanno sottolineato le lacune.[14]

Indubbiamente è stato centrato un risultato politico, quello di mettere d’accordo tutte le nazioni coinvolte su un obiettivo di decarbonizzazione mondiale di lungo termine e di definire il processo e gli strumenti, anche economici, per realizzarlo. In particolare l’Accordo assegna agli Stati, e non alle istituzioni dell’UNFCCC, il ruolo di protagonisti del processo.

Più precisamente l’Accordo di Parigi ha sancito alcuni principi fondamentali che avevano bloccato ogni possibile progresso nei round negoziali precedenti:

- riguarda ogni Parte firmataria, ponendo obiettivi complessivi in capo a tutte le Parti dell’accordo (differentemente dal Protocollo di Kyoto);

- istituzionalizza un processo di revisione dei dati e degli obiettivi nazionali ogni 5 anni;

- fornisce una metodologia comune (anche se non esclusiva) per la misurazione delle emissioni;

- prevede un sistema di governance per le future discussioni e l’evoluzione degli obiettivi.

L’Accordo finalizzato nell’ambito della COP21 presenta però alcuni elementi di debolezza tra cui spiccano:

- l’assenza di meccanismi sanzionatori rispetto al mancato raggiungimento degli obiettivi nazionali;

- le attività di verifica sulle emissioni rimesse agli Stati stessi (e non all’UNFCCC), sebbene nell’ambito di un regime di trasparenza obbligatorio;

- la mancata indicazione della data entro la quale si intende raggiungere il picco globale delle emissioni;[15]

- l’estromissione dall’accordo delle emissioni legate al trasporto internazionale (navi e aerei),[16] sebbene esse siano rilevanti e ne sia prevista una crescita importante nei prossimi anni;

- l’assenza di ogni riferimento ai carbon market: in assenza di un sistema di cap and trade con l’assegnazione centralizzata di quote, non sussistono le condizioni per il mantenimento dei meccanismi flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto.

La mancanza di impegni sfidanti da parte delle gradi economie emergenti (India e Cina in primis), inoltre, è probabile che ridurrà la “praticabilità” politica, in Occidente, di generose sovvenzioni alle grandi economie emettitrici in via di sviluppo. Difficile infatti spiegare all’elettore medio americano o giapponese che paesi che non hanno preso impegni di natura vincolante, e che propongono misure inferiori a quelle che essi stessi intendono perseguire in politica interna, siano candidati meritevoli di ricevere i 100 miliardi di dollari annui.

A ben guardare, sarebbe stato difficile immaginare che Parigi potesse “partorire” un risultato migliore, considerata la natura dello strumento utilizzato, cioè quella di un accordo multilaterale, con oltre 190 contraenti, caratterizzati da interessi e posizioni molto diverse, quando non confliggenti. E infatti vi è chi tra gli osservatori[17] si è chiesto se l’accordo “esteso a tutti” fosse lo strumento più appropriato, o se non sarebbe stato preferibile che i “grandi emettitori”[18] definissero in ambito ristretto un percorso di transizione più preciso, stringente e dettagliato.

Di certo il raggiungimento dell’obiettivo globale dipenderà molto dalla responsabilità e dall’impegno delle Parti, in particolare quelle che hanno oggi il peso maggiore in termini di emissioni o che lo potrebbero aumentare considerevolmente in futuro (ad esempio Russia, Argentina, Brasile, Messico, Turchia).

E la responsabilità e l’impegno degli Stati a loro volta saranno tanto maggiori, quanto più forte sarà la pressione e la spinta che le rispettive opinioni pubbliche sapranno esprimere sul tema del cambiamento climatico.

V’è da augurarsi che tale pressione e spinta, per diventare davvero determinanti, non necessitino del sopraggiungere di catastrofi e disastri naturali “planetari”. Che questi ultimi si verifichino, in assenza dell’implementazione di policy adeguate e tempestive, è praticamente una certezza. Il rischio concreto è che accadano quando oramai è troppo tardi per porvi rimedio.

 

[1] Ilaria Urbani, “COP21: un passo avanti o un altro punto di partenza?”, pubblicato il 29/12/2015 sul sito http://www.geopolitica-rivista.org/.

[2] Si veda: REF Energia, Osservatorio Energia n. 193-194, Novembre/Dicembre 2015, pagg.41 e ss.

[3] Tale distinzione si è resa necessaria dall’opposizione indiana e cinese ad un accordo integralmente vincolante.

[4] “Con l’abbandono di un accordo “top-down”, calato dall’alto, come il protocollo di Kyoto, a favore di un approccio “bottom-up”, si è data anzitutto la possibilità a ciascun Paese di enunciare un proprio piano volontario di riduzione delle emissioni realizzando così la differenziazione perfetta” così Marzio Galeotti e Alessandro Lanza, “L’accordo sul clima? Diplomatico” pubblicato il 15/12/15 su www.lavoce.info.

[5] INDC (impegni nazionali di riduzione delle emissioni): l'acronimo sta per Intended Nationally Determined Contribution. Per facilitare i lavori e stimolare le nazioni partecipanti, l'UNFCCC ha previsto che i partecipanti presentassero, prima della Cop21, dei piani in cui è scritto nero su bianco quel che ogni parte intende fare per ridurre le emissioni; gli INDC sono appunti questi piani. Sul tavolo della Conferenza sono arrivati 147 INDC, che riguardano 181 Stati (l'Unione Europea ad esempio ne ha uno) e coprono il 94% delle emissioni mondiali. Alcune parti hanno specificato obiettivi di riduzione in termini assoluti, circa la metà hanno definito target con uno scenario business as usual, altre invece sulla base del loro rapporto con il Pil, cioè la carbon intensity, mentre altre ancora (il caso più importante è la Cina) hanno stabilito un determinato anno entro il quale le emissioni dovranno raggiungere il loro picco. Solo una minoranza di Paesi ha incluso nei rispettivi INDC le azioni specifiche che intraprenderanno per ridurre la CO2.

[6] Si tratta di un approccio almeno in parte simile a quello adottato dall’Unione Europea per il conseguimento dell’obiettivo 2030 in termini di penetrazione del consumo da fonte rinnovabile: l’obiettivo (27% del consumo finale lordo) è vincolante solo a livello comunitario e dovrebbe essere raggiunto attraverso un sistema di governance coordinato dalla Commissione Europea che dovrebbe guidare i singoli Stati a predisporre piani d’azione per l’energia e il clima coerenti con l’obiettivo complessivo. La debolezza del meccanismo risiede nel fatto che non è chiaro il potere della Commissione nell’imporre modifiche ai piani dei singoli Stati (salvo l’obbligo per gli Stati di conseguire gli obiettivi nazionali di abbattimento delle emissioni nei settori non ETS), così come non è chiaro il potere che avrà l’UNFCCC in occasione dell’aggiornamento degli INDC.

[7] Le emissioni sulla base degli impegni presi in base all’Accordo di Parigi raggiungeranno secondo l’UNFCCC 55 GtCO2eq nel 2030, a fronte della soglia di 40 GtCO2eq ritenuta necessaria a contenere l’aumento delle temperature entro i 2° C. Più specificamente i 158 piani inoltrati, rappresentando 186 paesi e circa il 96 per cento delle emissioni globali nel 2010 (e il 97 per cento della popolazione mondiale), traguarderebbero un aumento della temperatura a +2,7° C.

[8] “Siamo ben lontani da quegli ”adeguati meccanismi di controllo, di verifica periodica e di sanzione delle inadempienze” auspicati da Papa Francesco nella Laudato sì. Inoltre gli impegni volontari portano con sé il rischio che i governi futuri possano con facilità tirarsene fuori”; così Andrea Masullo, su La Stampa del 29/12/2015.

[9] Il livello dello sforzo sarà rivisto in ambito COP entro il 2025, ma non potrà comunque essere inferiore alla soglia dei 100 miliardi di dollari. Non è chiaro tuttavia come lo sforzo sarà ripartito tra i Paesi industrializzati.

[10] Si veda: “Se il modello di sviluppo si tinge di verde” di Chiara Trabacchi e Barbara Buchner, pubblicato il 18/12/15 su www.lavoce.info. Nel contributo le due autrici evidenziano che: “Secondo le stime preliminari realizzate dall’Ocse in cooperazione con il Climate Policy Initiative (Cpi), le risorse finanziarie mobilizzate dai paesi sviluppati hanno raggiunto i 57 miliardi di dollari in media nel periodo 2013-2014. Il Fondo verde per il clima, il meccanismo della Convezione quadro per i cambiamenti climatici (Unfcc) creato per rafforzare il sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo, è diventato operativo nel corso del 2015, approvando i primi otto progetti poche settimane prima del summit di Parigi. Tuttavia, benché significativi, progressi e sforzi non sono ancora sufficienti. L’Agenzia internazionale per l’energia stima, ad esempio, che per promuovere la transizione energetica saranno necessari 16,5 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari per investimenti in efficienza energetica e tecnologie a basse emissioni nei prossimi quindici anni. Ulteriori risorse saranno necessarie per gestire i rischi associati ai cambiamenti climatici (o cogliere eventuali opportunità)”.

[11] “Richiesta politica più che scientifica, perché la necessità di un equilibrio tra i due non è chiara” così Chiara Trabacchi e Barbara Buchner, “Se il modello di sviluppo si tinge di verde”, (ut supra).

[12] Si veda la Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15/7/2015 che modifica la direttiva 2003/87/CE per sostenere una riduzione delle emissioni più efficace sotto il profilo dei costi e promuovere investimenti a favore di basse emissioni di carbonio; https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2015/IT/1-2015-337-IT-F1-1.PDF

[13] Si veda l’articolo, “Cop21, arriva la firma” http://www.repubblica.it/ambiente/2015/12/12/news/cop21_e_il_giorno_dell_accordo_sul_clima-129303103/

[14] Si veda: Sergio Ferraris, “Cop21, accordo in bianco”, pubblicato il 14/12/2016, su http://lanuovaecologia.it/cop21-accordo-bianco/.

[15] L’INDC della Cina contiene l’impegno a raggiungere il picco delle emissioni nazionali entro il 2030.

[16] Impegni che erano parte del testo di Copenaghen e che ricoprono circa il 10% delle emissioni totali.

[17] G.B. Zorzoli, “COP21, uno strumento inappropriato”, pubblicato il 18/12/2015, su www.staffettaquotidiana.it.

[18] Stati Uniti, Cina, India, Unione Europea producono attualmente il 75% delle emissioni.