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Ponzio Pilato vs. Cristo: processo e domande

Ponzio Pilato
Ponzio Pilato

Il colloquio di Pilato

Una delle figure più interessanti del Nuovo Testamento è sicuramente Ponzio Pilato, Praefectus Iudaeae dal 26 al 36 d. C.

Non a caso la lettura di questo personaggio, evangelicamente focalizzata sul ruolo avuto nel dramma della Passione, oscilla fra la condanna verso un debole, pragmaticamente legato alle esigenze della politica, e il riconoscimento di un giusto frustrato dalla malvagità di coloro che lo circondavano. Qualunque sia la lettura di volta in volta favorita, si concorda tuttavia sul fatto che Pilato possiede un’importanza che supera il ruolo concretamente avuto durante il processo a Gesù.

Di questo avviso sembra essere anche san Giovanni che, nel suo Vangelo, dà a questo personaggio un cospicuo spazio all’interno del racconto della Passione; cuore di questa sezione è, a mio parere, il colloquio privato che il governatore intrattiene con Cristo[1].

Il brano presenta un interrogatorio nel quale tuttavia alle domande di Pilato non seguono le miti risposte di un prigioniero, bensì le questioni e le sentenze di un maestro. Significativo, in quest’ottica, è il fatto che se Pilato in apertura è presentato nella veste di giudice[2], l’ultima domanda che pone sembra invece quella di un discepolo verso il proprio maestro[3].

Un simile mutamento di prospettiva, specie all’interno di un dialogo privato, fa pensare ad un’abile azione educativa messa in atto dal Signore: Egli non sembra essersi limitato a fornire delle risposte al politico romano, giocando al massimo sulla chiarezza delle stesse, ma è riuscito a mutare il tenore stesso delle domande.

 

Il Regno

San Tommaso d’Aquino, nel suo Commento al Vangelo secondo Giovanni[4], ben comprende come il cuore di questo processo di crescita stia nella comprensione del concetto di “regno”. La prima domanda che Pilato pone a Gesù infatti verte proprio sulla sua regalità, tanto che l’Aquinate evidenzia come, a fronte delle diverse accuse mosse dai giudei, questa «[…], colpì maggiormente Pilato, che quindi l’interrogò solo su di esso»[5].

Non è difficile entrare nella mentalità di un governatore romano del I secolo d. C., un individuo che, per virtuoso che fosse, era agente attivo di un potere politico imperialista ed estremamente sensibile ai disordini. Il concetto di regno più naturale per un simile individuo era prettamente terreno e si riferiva ad un sistema che «[…], ha bisogno di adepti e di ministri a sostegno del suo potere»[6], legittimo o meno che sia. Per questo Pilato, nel dialogo, cerca di fondare la liceità della sua preoccupazione proprio mostrando come l’accusa rivolta a Gesù di essersi fatto re provenga da quel popolo che, in un legittimo sovrano, sarebbe fondamento stesso del potere[7].

Nel rispondere, il Signore afferma che il Suo Regno non è di questo mondo. Egli non solo prova ciò evidenziando come la sua autorità non sia stata difesa da alcuno di quei servitori sui quali un re terreno avrebbe contato, ma espone a Pilato la realtà del Suo potere. Egli infatti è il re supremo che, «[…], essendo forte per se stesso, conferisce egli stesso la potenza ai suoi servi; […]»[8].

A questo punto Gesù cerca di ribaltare la prospettiva di Pilato; se infatti i servi, i fedeli del re non servono a sostenere il suo potere, allora è lecito chiedersi su cosa si fondi il loro legame con il sovrano.

Cristo, re per nascita, la cui autorità non ha altro fondamento che se stesso in quanto Figlio del Padre, mostra come i suoi sudditi siano i beneficiari dei suoi doni, tanto che «Come un pastore pasce le pecore, così il re deve sostentare i sudditi»[9]. Ma se il rapporto del re con il suo popolo è da Gesù ribaltato e rifondato, simili sono tuttavia le condizioni. I benefici gratuiti del vero sovrano appartengono a chi ascolta la sua voce di verità fino in fondo[10], «[…] non solo esteriormente, ma interiormente, credendo, amando e mettendola in pratica con i fatti»[11].

 

I sudditi in Quaresima

Attraverso la comprensione di questo percorso dialogico san Tommaso giunge a dare la sua interpretazione della domanda finale di Pilato.

Per l’Aquinate il quesito «Che cos’è la verità?»[12] non è il malinconico grido di un uomo disilluso di fronte ad una prospettiva talmente alta da apparirgli inconsistente, bensì l’onesta domanda di un intelletto tanto distante da Dio quanto aperto alla Sua luce. Il quesito serve quindi non per «[…] chiederne la definizione, ma per sapere quale fosse la verità in virtù della quale si viene a far parte del suo regno: lasciando con ciò capire che la verità era sconosciuta al mondo e quasi da tutti dimenticata per l’incredulità»[13].

Nel commentare i versetti seguenti, Tommaso rimane fermo su questa sua lettura, affermando che i successivi tentativi di Pilato di liberare Gesù avevano anche lo scopo di consentirgli di ricevere una risposta al suo quesito[14]. L’interpretazione dell’Aquinate non è sicuramente la sola possibile e forse neppure la più evidente; ritengo tuttavia che abbia il merito di mettere in luce una questione non secondaria, specie in questo tempo di Quaresima.

Anche noi infatti, proprio come Pilato, proveniamo da una società incredula, che ha dimenticato la verità, seppellendola sotto una cinerea coltre di cinismo ed individualismo. Tuttavia, proprio come il governatore, anche noi subiamo il fascino di questo Re dei re, la cui superiorità si fonda non tanto su di una belluina forza, quanto sulla differente qualità della Sua potenza. Un tale balzo qualitativo, che ci lascia meravigliati e pieni di domande, trova il suo segno più pieno nella croce, quel misterioso trono non concepito per rendere grande il sovrano, ma per donare ai piccoli la sua maestà.

Nell’accostarci a tale mistero, in vista della Pasqua, anche noi cristiani siamo chiamati a mutare, guidati dalla Parola del Signore, la nostra prospettiva sul mondo, superando l’insulsa malinconia del dominio del male in favore di una più alta concezione delle cose. Nel farlo tuttavia dobbiamo prestare attenzione ai rischi che l’esempio di Pilato pone in evidenza. Egli, pur guidato dal santo proposito di salvare la vita di Gesù, mise da parte la questione della verità e si mosse verso il bene guidato solo da una vaga comprensione dello stesso.

Come risultato, non solo fallì nel suo intento, ma perse anche l’occasione di ascoltare la risposta a quel fondamentale quesito. Noi invece, nel comprendere la centralità che quella domanda conserva per la nostra vita, non dobbiamo correre rischi: prima di agire, prima di gettarci spavaldamente verso quel pur necessario atto, rimaniamo in ascolto, attendiamo docilmente la grazia di quella comprensione che sola fonda il retto agire.

In questa prospettiva la Quaresima assume i caratteri di quel tempo favorevole al dialogo interiore che, nell’essere interrogati e nell’interrogare il Signore, ci permette di fondare la comprensione di quella regalità che celebreremo nella Pasqua. Purificati quindi da questa dura attesa, la nostra azione non sarà tragicamente inefficace, bensì orientata da una retta comprensione dei benefici che, in quanto sudditi, abbiamo ricevuto.

 

[1] Cf Gv 18, 33-38.

[2] «Sei tu il re dei Giudei?»; Gv 18, 33.

[3] «Che cos’è la verità?»; Gv 18, 38.

[4] Cf Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Giovanni (trad. Tito Sante Centi OP e Roberto Coggi OP), Edizioni San Clemente e Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2019.

[5] Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Giovanni, c. 18, L. 6, n. 2345.

[6] Ivi, n. 2353.

[7] Cf ivi, n. 2348.

[8] Ivi, n. 2353.

[9] Ivi, n. 2361.

[10] Cf Gv 18, 37.

[11] Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Giovanni, c. 18, L. 6, n. 2361.

[12] Gv 18, 38.

[13] Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Giovanni, c. 18, L. 6, n. 2364.

[14] Cf ivi, nn. 2366-2369.

Testo consigliato

  • Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Giovanni (trad. Tito Sante Centi OP e Roberto Coggi OP), Edizioni San Clemente e Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2019.