x

x

Proprietà industriale: l’applicabilità del criterio del prezzo del giusto consenso

Prospettive reali
Ph. Elena Franco / Prospettive reali

Il criterio del prezzo del giusto consenso

Con la recentissima sentenza n. 24635 del 13 settembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione affronta nuovamente l’annosa questione della liquidazione del danno fondata sul c.d. criterio del prezzo del giusto consenso” prevista all’articolo 125 comma 2 del Codice Proprietà Industriale (“C.P.I.”).

Suddetto criterio consente al titolare di un marchio o di altro segno distintivo di richiedere al Giudice in via sussidiaria rispetto all’applicazione della disciplina civilistica del risarcimento del danno aquiliano, la liquidazione in proprio favore ed in via equitativa del danno derivante dalla contraffazione del proprio segno distintivo.

La Suprema Corte si trova quindi a dare un’interpretazione della norma in questione all’interno di una vicenda che ha per oggetto la contraffazione di un marchio e, che vede contrapposte due società che si occupano del settore dell’abbigliamento: la Fenicia S.P.A., titolare di un noto marchio, e la Dema s.r.l.

Il prefato Organo giustiziale, dopo aver proceduto alla disamina della questione insorta tra le due società, arriva alla conclusione che la liquidazione del danno di cui all’articolo 125 C.P.I. comma 2 si concretizza attraverso la corresponsione al danneggiato di una somma globale che viene stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni che ne derivano; presunzioni che possono basarsi anche soltanto sugli elementi indiziari offerti dal danneggiato medesimo. Ne consegue che il danno risarcibile secondo il criterio del prezzo del giusto consenso non può mai essere astrattamente calcolato, ma invece, va provato quantomeno mediante l’ausilio di semplici presunzioni.

 

La vicenda giudiziaria: i tre gradi di giudizio

La vicenda oggetto di disamina inizia con la citazione in giudizio davanti al Tribunale di Torino da parte di Fenicia S.p.A., società titolare di un noto marchio di abbigliamento, nei confronti di Dema s.r.l., società operante nel medesimo settore.

Fenicia, ritenendo Dema responsabile della contraffazione del proprio marchio e autrice di atti concorrenza sleale, chiedeva che la società convenuta venisse condannata al risarcimento dei danni provocati dalle condotte e da comportamenti scorretti assunti all’interno del mercato dell’abbigliamento negli anni 2010 e 2011.

Il Tribunale adito, nell’analizzare la questione, riscontrava che Dema s.r.l. aveva posto in essere atti di concorrenza sleale dato che la società convenuta aveva usato il marchio di titolarità di Fenicia sui prodotti da essa commercializzata e sulle insegne dei propri negozi, di guisa che esso Giudice di prime cure accoglieva la domanda attorea e condannava la convenuta al risarcimento del danno.

L’entità del risarcimento del danno, invero, veniva valutata sulla base del rapporto tra fatturato e utili conseguiti da Dema per gli anni relativi alle violazioni commesse da quest’ultima, sul cui risultato a sua volta veniva calcolata un’ipotetica royalty che Dema avrebbe dovuto pagare a Fenicia qualora quest’ultima le avesse licenziato il marchio.

Dema s.r.l., a seguito della ricordata pronuncia di prime cure, proponeva appello limitatamente al capo della sentenza relativo al risarcimento dei danni.

La Corte d’Appello accoglieva il gravame proposto da Dema in quanto, a suo giudizio, Fenicia non aveva dato prova del danno subito, atteso che non aveva allegato alcun fatto specifico a sostegno della propria domanda risarcitoria. Difatti, a giudizio del Giudice di secondo grado l’appellata Fenicia si era limitata a sostenere che il danno emergente comprendesse il costo sopportato dalla stessa per accertare l’illecito e la diluizione del potere distintivo del marchio, e che il lucro cessante si sostanziasse nel mancato guadagno derivante dal calo delle vendite dei prodotti rapportato all’andamento generale della commercializzazione futura dei prodotti all’interno del mercato.

Secondo la Corte d’Appello, Fenicia non aveva provato il lucro cessante, e quindi non potendosi applicare il criterio equitativo di risarcimento per l’assenza dei presupposti indicati nell’art 125 comma 2 C.P.I., la stessa società appellata era stata condannata a restituire a Dema una somma pari a euro 250.471,71.

Avverso la pronuncia della Corte di Appello di Torino Fenicia proponeva ricorso in Cassazione contestando le risultanze della sentenza di secondo grado. La Suprema Corte, una volta esaminata la questione, rigettava il ricorso ritenendolo infondato poiché, a suo parere, Fenicia non aveva provato il danno subito.

Tale danno secondo il corretto giudizio del Giudice di legittimità non può essere liquidato tout court e cioè valutato in astratto, ma deve essere stimato sulla base degli atti di causa e delle presunzioni offerte dal danneggiato, anche attraverso elementi indiziari.

 

Il ragionamento della Corte di Cassazione

La Suprema Corte, come già anticipato sopra, ha ritenuto il ricorso presentato da Fenicia S.p.A. infondato.

L’Organo Giudicante è giunto a tale conclusione dopo aver fatto un raffronto tra il disposto l’articolo125 C.P.I. che disciplina le fattispecie del risarcimento del danno e della restituzione dei profitti dell’autore della violazione in materia proprietà industriale, e quello degli articoli 1223 e ss. Codice Civile che delineano i generali criteri di risarcimento del danno previsti dal nostro codice civile.

La Corte, nel raffrontare le norme sopra citate, evidenzia come il Giudice di prime cure, al contrario della Corte d’Appello, una volta accertata la contraffazione, si sia erroneamente limitato a liquidare un risarcimento del danno in favore di Fenicia S.p.A. secondo il criterio di equità di cui dell’articolo 125, comma 2 C.P.I., senza tuttavia fornire alcuna motivazione su come fosse giunto a tale determinazione. Infatti l’attrice/ricorrente, a parere della Cassazione, non solo non era stata in grado di fornire prova diretta dei danni subiti, ma, addirittura, non era riuscita neanche a dare prova alcuna del danno subito neppure attraverso l’ausilio di elementi indiziari in forza dei quali si potesse, comunque, giustificare l’applicazione del criterio forfettario previsto dall’articolo 125, comma 2 C.P.I.

Il giudicato di primo grado, a giudizio del Supremo Giudice di legittimità, è stato dunque correttamente ribaltato dalla Corte d’Appello, atteso che Fenicia s.p.a. non è riuscita a fornire prova alcuna dei danni lamentati in forza della suddetta contraffazione del marchio, non essendosi peritata di allegare alcun documento volto a dimostrare l’esistenza di effetti pregiudizievoli. Fenicia, a parere del Giudice di secondo grado, si era infatti limitata a effettuare una generica denunzia per i danni subiti. La Corte d’Appello ha dunque esaminato la domanda risarcitoria avanzata da Fenicia sia sotto il profilo del danno emergente, sia sotto quello del lucro cessante e ha osservato che la ricorrente non aveva allegato alcun fatto specifico da cui sarebbero derivati i danni lamentati.

Il giudice di appello – come correttamente ribadito dalla Cassazione – infatti ha statuito che le allegazioni fornite da Fenicia fossero del tutto generiche e non riferibili al caso concreto.

In poche parole Fenicia non è riuscita a dimostrare il lucro cessante, vale a dire l’arricchimento del contraffattore ed il danno ad esso correlato. Tale danno, pur potendosi in astratto liquidare equitativamente, nel caso di specie non poteva aver trovato concretizzazione in quanto risultava del tutto impossibile ipotizzare astrattamente che ogni vendita realizzata da Dema fosse una vendita non realizzata da Fenicia. Il pregiudizio da lucro cessante, anche se secondo l’articolo 125 comma 2 C.P.I. può essere determinato in un importo pari a quello che l’autore della contraffazione avrebbe pagato se avesse ottenuto la licenza dal titolare del diritto sulla base del c.d. criterio del giusto prezzo del consenso, deve, comunque, essere concretamente dimostrato e non frutto di ipotesi astratte.

Ne consegue che alla luce di quanto occorso nel processo di merito, la Suprema Corte, reputando corretto il giudicato della Corte d’Appello, ha ritenuto che il danno richiesto da Fenicia non può essere considerato quale ipotesi di danno configurabile in re ipsa e pertanto il danneggiato non può mai essere esonerato dall’onere della prova, qualora pretenda di ottenere il risarcimento del danno de quo.

Difatti, se si analizza attentamente il dettato dell’articolo 125 del C.P.I. comma 2, risulta evidente che il danneggiato ha, in ogni caso, l’onere di dimostrare il danno subito. La predetta norma dispone, infatti, che il giudice possa liquidare il danno rapportato nella “somma globale stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni che ne derivano”, unicamente sulla scorta quantomeno di elementi indiziari offerti dal danneggiato.

Tale danno secondo dottrina e giurisprudenza si avvicina, al c.d. “danno concorrenziale” in quanto deriva anch’esso da un’alterazione dei fattori di mercato conseguente all’illecito commesso dal contraffattore, la cui condotta giustifica di per sé l’irrogazione dell’inibitoria anche in assenza di un danno economico attuale per il titolare del diritto violato. Tuttavia, il danno risarcibile ai sensi dell’125 comma 2 C.P.I., nonostante le affinità col danno concorrenziale, si distingue da quest’ultimo dal punto di vista risarcitorio in quanto per il concretizzarsi dello stesso è richiesta un’alterazione attuale e concreta dei fattori di mercato.

Ne consegue che, se da un lato è vero che l’articolo 125, comma 2, C.P.I., delinea una fattispecie di danno liquidabile equitativamente, attraverso il c.d. criterio del “prezzo del giusto consenso”, ossia un parametro agevolatore dell’onere probatorio gravante sull’attore, dall’altro è anche vero che suddetta liquidazione non può mai basarsi su presunzioni astratte.

La Suprema Corte quindi non ha potuto che giustamente confermare quanto già statuito dalla Corte d’Appello, ovvero che tale forma di liquidazione non può prescindere dall’applicazione degli articoli 1123 ss., Codice Civile.

Tali articoli disciplinano la fattispecie del risarcimento del danno sia con riferimento al profilo del danno emergente, sia per quanto attiene al lucro cessante e richiedono la sussistenza di un adeguato rapporto di causalità tra l’atto illecito e i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori specialmente ove il danno debba essere valutato secondo equità.

Suddetto principio non può che valere anche in materia di diritto industriale in quanto deve essere accertata la sussistenza del danno, anche attraverso prove indiziarie, prima di disporre un’eventuale condanna al risarcimento in capo al contraffattore. Pertanto è specifico onere del danneggiato fornire la prova del danno subito che, nell’ipotesi prevista dall’articolo 125 comma 2 C.P.I., deve tener conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, il mancato guadagno del danneggiato, i benefici realizzati dal contraffattore ed in alcuni casi anche del danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione.

Sulla scia di quanto sopra, la Corte ha, dunque, egregiamente e correttamente statuito che il disposto del            comma 2 dell’articolo 125 C.P.I., se da un lato agevola il danneggiato, poiché bastano anche elementi indiziari di prova per assolvere l’onere probatorio, dall’altro non può certo tradursi in un’assoluta esenzione dal rispetto dell’onere stesso.

Difatti a parere della Suprema Corte, che ha ritenuto valide ed esaustive le motivazioni esposte nel giudicato di secondo grado, Fenicia S.p.A. non ha dimostrato in alcun modo i danni lamentati in quanto non ha fornito né indizi o presunzioni, di qualsivoglia consistenza, nell’ottica di una semplificazione probatoria, né ha allegato fatti specifici forieri di danni, anche se i danni lamentati sono stati prospettati alla stregua di automatica conseguenza dell’accertata contraffazione.

In conclusione, secondo la Cassazione, la Corte di merito ha chiaramente rilevato, in modo significativo, l’insussistenza del lucro cessante lamentato da Fenicia, in quanto la società ha prodotto dei documenti da cui, non è stato possibile accertare in alcun modo che a seguito della contraffazione i suoi prodotti abbiano avuto un calo di vendite tale da configurare un trend futuro negativo.

Pertanto la Corte, sulla scia di tali valutazioni, ha correttamente rigettato il ricorso proposto da Fenicia e confermato le statuizioni del giudice di secondo grado.

 

Conclusioni

La Suprema Corte attraverso la disamina della vicenda intercorsa tra Fenicia e Dema ha fornito, con oculata ermeneusi, le, si spera definitive, linee guida atte per una corretta interpretazione dell’art 125 comma 2 C.P.I.

L’Organo Giudicante ha infatti statuito che il concetto di equità rapportato alla liquidazione di un danno non può prescindere “dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l’atto illecito e i danni sofferti e allegati, secondo i criteri ordinari probatori..

Ne consegue che, se da un lato l’art 125 C.P.I. al secondo comma agevola il danneggiato dal punto di vista dell’onere probatorio, atteso che la liquidazione del danno avviene sulla base del criterio del prezzo del giusto consenso, dall’altro la liquidazione medesima non può prescindere dalle disposizioni civilistiche in materia di risarcimento del danno previste dagli articoli 1223, 1226 e 1227 Codice Civile e quindi non può mai essere determinata in astratto.

Difatti se così non fosse si snaturerebbe del tutto il caposaldo rappresentato dal principio dell’onere della prova che è posto a fondamento del nostro sistema processuale.

La Corte di Cassazione ha dunque fugato ogni dubbio fornendo ai Giudici un corretto criterio di interpretazione nella liquidazione del lucro cessante secondo equità.