Pubblici Ministeri: i leoni sotto il trono e l’obbligatorietà dell’azione penale
Let judges also remember that Solomon’s throne was supported by lions on both sides:
let them be lions, but yet lions under the throne.
Ricordino anche i giudici che il trono di Salomone era sostenuto da leoni su entrambi i lati:siano leoni ma leoni sotto il trono.
Francis Bacon, Essays, LVI, Of Judicature
La cosa era chiara secondo Bacon: ai giudici era permesso di essere leoni, ci si aspettava che lo fossero, ma senza dimenticare che il loro posto era sotto il trono.
Nessuna meraviglia: erano i tempi di Giacomo I Stuart, quello del diritto divino del sovrano e dell’eloquente formula “A Deo rex, a rege lex”.
Sono passati quattro secoli ed è un tempo più che sufficiente per confermare la tenuta del precetto baconiano.
Raramente i giudici hanno abbandonato la loro postazione e le poche volte che ci hanno provato è stato non per sedersi sul trono al posto del sovrano ma per differenziarsene e comunque è stato un fatto di singoli individui, non dell’intera classe giudiziaria.
Altrettanto raramente i giudici hanno smesso di essere leoni per conto terzi: le cronache storiche che li riguardano ci propongono zelo e ferocia molto più che distacco e compassione. Una ferocia accompagnata dal dimenticarsi di essere uomini e donne di giustizia e non d’ordine quasi fossero l’occhio vigilante di una gerarchia.
Gli ultimi decenni di storia italiana ci hanno tuttavia posto di fronte a novità ed esperimenti che non solo confliggono con l’idea dei giudici under the Solomon’s throne ma addirittura sopravanzano la tesi montesquiviana dei tre poteri ognuno dei quali è contrappeso agli altri (ma con due non trascurabili precisazioni: il potere giudiziario deve essere “invisibile e nullo” nel senso che “i giudici della nazione sono solo […] la bocca che pronuncia le parole della legge: esseri inanimati che non possono moderarne né la forza né il rigore”; i cittadini devono temere la magistratura, non i magistrati).
In altre parole, è sembrato che alcune componenti di rilievo della magistratura italiana si convincessero sempre di più della centralità del potere giudiziario e della collocazione angolare del legislativo e dell’esecutivo e non pensassero affatto di essere nulli e tantomeno invisibili. Anzi, il protagonismo di alcuni con pretese di pedagoghi illuminati o angeli salvifici con la verità in tasca li hanno resi giudici dei.
Magistrati e pubblici ministeri non devono educare nessuno o insegnare qualcosa, “né sono chiamati a migliorare la società, cambiare il mondo o nobilitare gli uomini che lo popolano. Il loro compito già terribile, si esaurisce nel giudizio sulle condotte di singoli individui accusati di specifici reati” scrive Francesco Caringella.
I giudici e i pubblici ministeri non devono migliorare l’umanità o guarire “malattie” etiche e culturali. Né dimenticare l’insegnamento di Salvatore Satta secondo il quale i processi sono le uniche azioni umane senza scopo, perché non perseguono alcun fine esterno ai processi stessi.
Molto è stato scritto su questo e molto di più si scriverà dopo gli eventi conseguenti al cosiddetto caso Palamara.
Qui però si preferisce guardare le cose secondo una diversa prospettiva.
Nasce dal fatto che sotto il trono non c’è un solo leone ma tanti e in effetti l’iconografia classica raffigura una moltitudine di grandi felini.
Ed ecco le domande di partenza: che clima c’è in questa folla leonina? Uno vale uno o si applica la legge orwelliana secondo la quale tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri?
Tra le tante verifiche possibili si è scelta quella che nasce dal precetto costituzionale che obbliga il pubblico ministero ad esercitare l’azione penale.
Nella prassi è veramente così? Quanti sono i procedimenti che languono in cassetti, vengono iscritti al modello 45 o girovagano tra una scrivania all’altra prima che l’inesorabile tempo emetta la parola fine?
Tanti e soprattutto alla mercè dell’insindacabile umore del leone di turno. Il leone che può mordere, ruggire o sbadigliare o perfino limitarsi a borborigmi, se così gli piaccia, a seconda dei casi.
Le ultime vicende in cronaca sono emblematiche.
Un caso per tutti.
Si diceva una volta che a Milano vige il rito ambrosiano. Si alludeva così a un certo modo di interpretare le norme e di trarne prassi applicative che valeva solo per la “piazza” giudiziaria milanese. Forse c’era un che di critico in quell’espressione ma l’idea di fondo era che nel distretto giudiziario si amministrasse giustizia in modo efficiente e produttivo e che il relativo modello fosse da ammirare piuttosto che censurare perché, appunto, il capoluogo lombardo era il luogo simbolo della giustizia giusta, quella che non guarda in faccia a nessuno.
Un corollario primario di questa diffusa convinzione era che la Procura milanese fosse un ufficio saldo e coeso e incarnasse ai livelli più alti la tensione etica solo in presenza della quale a ognuno viene attribuito il suo.
Che dire? La lettura dei quotidiani di questo periodo fa vacillare ognuna di queste premesse.
Senza sapere se si tratti di fatti veri oppure no, e senza quindi poter trarre alcuna conclusione anche solo vicina alla definitività, si sentono comunque tante cose: che ogni volta si debba nominare il capo di quella Procura siano necessari vasti accordi tra correnti magistratuali; che la stessa Procura non è più, se mai lo è stata, né salda né coesa ed anzi è attraversata da insanabili conflitti interni; che un sostituto procuratore in disaccordo col suo capo avrebbe consegnato bozze di verbali coperti da segreto non a chi di competenza ma al suo antico protettore nonché componente del CSM; che tale lord protettore avrebbe parlato urbi et orbi di quei verbali, finanche comunicandone l’esistenza al presidente della commissione bicamerale antimafia nella tromba delle scale del palazzo del CSM; che nel frattempo, in uno dei più grandi processi celebrati a Milano, in cui si discutevano capi di accusa che avrebbero potuto determinare la caduta del management apicale passato e presente di una delle più importanti compagnie a controllo statale, alcuni magistrati del pubblico ministero avrebbero sottratto al contraddittorio dibattimentale elementi conoscitivi di primaria importanza a favore degli accusati e, non ancora paghi, avrebbero provato a creare le condizioni per mettere in imbarazzo o addirittura ricusare il presidente del collegio giudicante.
Chi scrive legge come tutti e non sa se ciò che legge è verità o menzogna.
Una cosa è certa, comunque: sotto il trono i leoni manifestano una crescente aggressività e nessuno può escludere che cedano a istinti sempre più violenti.
Il rito ambrosiano sembra richiamare al presente la legge della savana piuttosto che il codice di rito.
E, se è ancora rimasto qualche brandello di credibilità, potrebbe presto scomparire.
Il tempo sembra trascorso, inutilmente, dalla citazione giolittiana: “Per i cittadini le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, per alcuni si eludono” e aggiungiamo noi “per altri svaniscono”.