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Quattro leoni di san Marco all’Archivio di Stato di Venezia

Leone andante pugnace
Leone andante pugnace

Dalla lettura dei documenti del c.d. archivietto (l’archivio proprio dell’Istituto), apprendiamo di più incontri, sul finire dell’autunno 1887, tra i coetanei Michelangelo Guggenheim e Bartolomeo Cecchetti. Li possiamo immaginare immersi a discutere delle glorie della Serenissima e di come sarebbe stato possibile – per il primo, a suo dire – colmare una grave lacuna.

Guggenheim (1837-1914) fu una figura di spicco degli ambienti veneziani dell’epoca. Proprietario di palazzo Balbi, trasformato in laboratorio di sculture (e, suo malgrado, di falsificazioni), politico, antiquario, fu anche imprenditore, collezionista e mecenate.

Cecchetti (1838-1889), storico e archivista, è ricordato come uno dei grandi direttori dell’Archivio di Stato di Venezia, che pagò con il carcere nel 1866 il rifiuto di consegnare a Francesco Giuseppe I d’Austria i “documenti più importanti” conservati nel complesso monumentale dei Frari, dove ha tuttora sede l’Archivio.

Torniamo, dunque, al nostro racconto.

Guggenhein, che condivide con la celebre Peggy solo il cognome e l’origine ebraica, si rammaricava con Cecchetti del fatto che ai Frari non trovassero dimora anche opere d’arte raffiguranti il leone di san Marco.

Ecco cosa scriveva il 19 dicembre 1887:

«Ogni qualvolta ebbi occasione di recarmi all’Archivio provai un senso di sorpresa e di dispiacere nel non vedere, in un ambiente sì ricco di patrie e gloriose memorie, il leone, questo famoso emblema sul quale s’incarna tutta la storia della nostra città.

E pertanto da un’idea all’altra pensava che sarebbe bello ed opportuno di vedere raccolti in uno dei maggiori porticati parecchi di questi leoni.

Con questo pensiero in questi ultimi tempi ne acquistai tre di pietra, uno dei primi anni del XIV secolo, uno del XV, ed un altro del XVIII.

Sarei lietissimo di farne dono all’Archivio, a quest’insigne monumento ch’Ella, egregio commendatore, tutela con esemplare diligenza e con vera passione, degna d’ogni miglior elogio».

Senza perdere tempo, lo stesso giorno Cecchetti trasmise al Ministero dell’Interno (da cui all’epoca dipendevano gli Archivi) una nota, nella quale così si esprimeva:

«Il signor cavalier Michelangelo Guggenheim ha offerto in dono a questo Archivio tre bei leoni della Republica Veneta in marmo, uno dei primi anni del sec. XIV, andante, altro del secolo XIV in fine o del XV, sorgente, e il terzo del sec. XVIII, rampante, affinché se ne adornino le pareti di uno dei chiostri di questo Archivio centrale».

Con l’avvicinarsi del Natale, dopo un paio di giorni, Cecchetti volle far pubblicare una speciale inserzione nella Gazzetta di Venezia, con un ringraziamento al donatore, non disgiunta da un velato rimbrotto, probabilmente anche in qualità di Direttore dell’annessa Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica, per aver Guggenheim confuso l’archivio con un museo:

«Il chiarissimo cavalier Michelangelo Guggenheim, visitando più volte il patrio Archivio, esprimeva la propria sorpresa e il dispiacere che in un Istituto sì ricco di gloriose memorie non s’avesse qualche bella scultura di quell’emblema della Republica Veneta che è ancora diffuso nei suoi documenti, quanto il simbolo di ogn’altro grande e potente dei governi antichi. A questa mancanza, cui la Direzione dell’Archivio non avrebbe forse mai potuto supplire, piacque ora rispondere allo stesso cavalier Guggenheim, col dono di tre bei leoni in marmo, uno, andante, dei primi anni del sec. XIV, interessante nei riguardi archeologici, altro del XIV-XV, sorgente, il terzo del sec. XVIII, rampante, e accompagnandoli con una nobilissima lettera prometteva di destinarne in dono allo stesso Archivio altri che gli venisse fatto di raccogliere.

La Direzione, mentre non dimentica che altro è il compito proprio, altro quello di un museo, accolse gratissima il caro e simpatico dono, poiché quell’emblema, ripetuto in tanti codici e in migliaia e migliaia di stampe, personifica l’immagine della grande Republica, e negli stili, nella forma, nelle attitudini, perfino negli stessi colori, dà di per sé solo una storia, con pochi segni ridestando un cumulo di memorie che nessuna civiltà potrà mai oscurare.

Riservandosi poi di collocare i tre leoni nei siti più opportuni del vastissimo edificio, la Direzione segnala l’atto generoso e gentile del cavalier Guggenheim, il quale ha mostrato una volta di più quanto ami e studii quel passato e quelle arti che con sì fino gusto e sì intelligente direttiva fa rivivere in opere meravigliose ad onore della patria e con profitto di tanti e sì valenti operai».

Esaminiamo insieme questi tre leoni marciani, ai quali ci permettiamo ci aggiungerne un quarto, molto importante, ora anche dal punto di vista istituzionale.

 

1. Leone sorgente, frammento (XIV-XV sec.)

Leone sorgente

Entrando nel chiostro dei Fiorentini, il primo leone che si incontra è parzialmente raffigurato in un frammento proveniente da una testata di sarcofago (di precedente ignota allocazione), mutilo delle zampe e del libro dell’Evangelista, probabilmente – come ipotizza Alberto Rizziper espungere gli elementi politici e istituzionali della Repubblica, al punto da trasformarlo in manufatto adatto a un sito religioso.

Maestoso e di grinta non indifferente, risulta finemente scalpellato in pietra d’Istria, rimasta ben compatta e in ottimo stato di conservazione. Presenta il muso integro, la criniera e l’ala ricche di tratteggi decorativi e, soprattutto, la minuziosa elaborazione dei denti, a indicarne il potenziale bellico.

 

2. Leone trimorfo: uno “in moéca” e due andanti (XVI sec.)

Leone in trittico

Questo altorilievo, proveniente dal palazzo dei Dieci Savi a Rialto, è databile nella prima metà del Cinquecento ed è infrequente nel suo genere. Andrea Pelizza ne segnala uno simile (ma con i leoni laterali non a figura intera), ad esempio, a Palazzo Ducale.

Leone in trittico palazzo ducale

Nell’impostazione concettuale e realizzativa si tratta di un leo-trittico o, più precisamente, di un leone trimorfo: due ai lati andanti (o “egredienti”), con al mezzo il classico “leon in moéca”. In buona sostanza, si tratta del simbolo marciano dispiegato in trittico.

In una delle possibili interpretazioni, sembra che «la triplicata immagine di san Marco» raffigurasse al centro il Dogado e ai lati lo Stato da Terra e lo Stato da Mar, i quali concorrevano a costituire l’unitarietà della Serenissima. L’ipotesi non è confermata dai documenti ufficiali, al pari di quella che potremmo suggerire ora: una visione tridimensionale del leone nelle classiche iconografie dell’epoca, ma sempre il medesimo e glorioso leone di san Marco. È realizzato in uno dei materiali tanto più delicati nella lavorazione, quanto tra i più pregiati e significanti, il porfido (i.e., porfiro, da cui l’epiteto di porfirogenito, attributo dei figli dell’imperatore bizantino, nati nella Porfiria, la camera rossa porpora del Grande palazzo di Costantinopoli).

Tuttavia, l’analisi che qui si presenta conduce a un dubbio sostanziale che l’attento lettore avrà già colto.

Guggenheim e Cecchetti descrivono il triplice dono come un leone sorgente, un leone andante e un leone rampante. Questo ora in commento non risponde ad alcuna di tali descrizioni e sembra esclusa con ragionevole certezza la possibilità di definirlo “rampante”.

 

3. Leone andante (XIV sec.)

Leone andante pugnace

Databile nei primi decenni del Trecento, è ragguardevole sotto il profilo iconografico e stilistico, senza dubbio il più antico e il più artisticamente apprezzabile dei tre. Secondo la tradizione – peraltro non accertabile nemmeno con approssimazione – sembra che provenisse dalla chiesa di San Paternian.

Reca tra gli artigli il libro dell’Evangelista, chiuso con fermagli, mantiene le ali divergenti, con la coda a svolazzo di uncino (a disegnare la consueta S, che qui lambisce i didimi), mentre la criniera si muove a delineare una stella o una raggiera di sole. Si notano gli occhi sgranati e la protrusione della lunga lingua a significare il guerriero intrepido, pronto a raccogliere la sfida dopo aver intimidito il nemico.

Questo bassorilievo si trova anch’esso in ottimo stato di conservazione, probabilmente in virtù dell’assenza di significativi contrasti climatici nel sito in cui è collocato.

Negli ultimi anni era stato anche il simbolo dell’Istituto, poi smaltato e rappresentato come di rosso al leone d’oro.

Vecchio logo

 

4. “Leon in moéca”, simbolo dell’Archivio di Stato di Venezia (XVII sec.)

Leone simbolo

L’ultimo leone in commento non appartiene alla collezione Guggenheim, ma è uno delle migliaia dei leoni marciani conservate ai Frari.

È, in particolare, un dettaglio della carta di apertura della rubrica VI della serie «Senato, Corti» (1679-1685) ed è stato scelto proprio perché appartenente al patrimonio documentario dell’Archivio di Stato di Venezia. Infatti, sarebbe risultato inconferente con le funzioni archivistiche che l’Istituto venisse rappresentato da un’opera lapidea, ancorché di rara bellezza artistica.

Il dettaglio marciano di questa splendida pagina miniata, dopo un consulto con il Tavolo tecnico degli archivisti, è stato scelto come emblema dell’Archivio alla fine del 2019. Si era anche discusso se fosse opportuno scegliere come possibile simbolo il leone conservato tra il fondo della Scuola Grande di San Marco, di altrettanta e indiscutibile armoniosità ed eleganza stilistica.

Leone di San Marco

Tuttavia, l’aggressività che estrinseca e il libro chiuso tra gli artigli in evidenza, hanno fatto propendere verso il “leon in moéca”, più mite e istituzionale.

Due precisazioni.

Abbiamo scritto libro e non Vangelo, in quanto in nessuno dei passi del nuovo Testamento è attestata la frase «Pax tibi Marce, Evangelista meus». Inoltre, la tradizione popolare prefigura nel libro chiuso la simbologia della Serenissima in guerra come, di contro, il libro aperto rappresenterebbe Venezia in tempo di pace. In realtà, si tratta di una vulgata non corroborata da evidenze ufficiali.

Tornando al leone oggi simbolo dell’Archivio di Stato di Venezia, come ci conferma Giorgio Aldrighetti, possiamo descriverlo araldicamente come un leone d’oro, alato e nimbato dello stesso, con la testa posta di fronte, accovacciato, tenente fra le zampe anteriori avanti al petto il libro d’argento, aperto, scritto delle parole a lettere capitali di nero «Pax tibi Marce», nella prima facciata in ampiezza totale del foglio di quattro righe, ed «Evangelista meus» nella seconda facciata, in simile ampiezza in quattro righe.

 

Che fine ha fatto il leone rampante?

Orbene, Guggenheim – come abbiamo visto – descriveva il suo triplice dono con le parole seguenti: «in marmo, uno dei primi anni del sec. XIV, andante, altro del secolo XIV in fine o del XV, sorgente, e il terzo del sec. XVIII, rampante».

Nella missiva al Ministero dell’Interno, Cecchetti offriva una descrizione leggermente più completa: «tre bei leoni in marmo, uno, andante, dei primi anni del sec. XIV, interessante nei riguardi archeologici, altro del XIV-XV, sorgente, il terzo del sec. XVIII, rampante».

Come si intuisce facilmente, manca all’appello il leone rampante del Settecento, mentre nel chiostro oggi si trova il trittico non descritto nell’atto di liberalità di Guggenheim. Scomparso o spostato? È davvero così?

Lo scopriremo insieme in uno dei prossimi appuntamenti.

 

Ringraziamenti

Grazie per la preziosa collaborazione a Giorgio Aldrighetti, Patrizia Bortolozzo, Giovanni Caniato, Lisa Falone, Andrea Pelizza, Alberto Rizzi e Salvatore Toscano.

 

Pezzi unici

Per vedere il video YouTube dell’Archivio di Stato di Venezia:

Pezzi Unici n. 10

Per approfondire

L’opera più importante (e monumentale) è senza dubbio quella di:

Alberto Rizzi, I leoni di San Marco. Il simbolo della Repubblica veneta nella scultura e nella pittura, Verona, Arsenale, 2001

Fondamentale, anche per ampiezza della ricerca e minuziosa araldica, è:

Giorgio Aldrighetti, L’araldica e il leone di San Marco. Le insegne della Provincia di Venezia, Marsilio, 2002