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Questioni di diritto intertemporale: la perdurante rilevanza penale delle condotte di millantato credito

successione di leggi
successione di leggi

Il fenomeno della successione di leggi si ha quando alla disciplina di un fatto ne subentra un’altra. Un fenomeno, questo, del tutto fisiologico negli ordinamenti giuridici moderni e reso necessario dall’esigenza di garantire una tutela effettiva dei diritti dei consociati, attraverso un adeguamento costante del sistema normativo ai mutamenti che si registrano all’interno della società ma che rischia, in determinati ambiti del diritto, di generare dubbi interpretativi in ordine all’individuazione della disciplina da applicare in concreto.

La successione di leggi in materia penale, diversamente da quanto avviene in altri ambiti del diritto nei quali trova applicazione generalizzata il principio di irretroattività assoluta di cui all’articolo 11 delle preleggi, è regolata dal principio di irretroattività relativa, disciplinato a livello di fonte primaria dall’articolo 2 Codice Penale (rubricato “Successione di leggi penali”).

Nel distinguere varie ipotesi, l’articolo 2 Codice Penale individua due regole generali ispirate al favor rei: da una parte, il principio di irretroattività della legge sfavorevole che introduce un nuovo reato o ne aggrava il trattamento sanzionatorio; dall’altra, il principio di retroattività della legge favorevole che abroga una fattispecie incriminatrice o ne modifica il trattamento sanzionatorio in senso migliorativo per il reo.

Relativamente alla forza applicativa, i due principi non sono perfettamente sovrapponibili.

L’irretroattività della legge penale incriminatrice di cui al primo comma dell’articolo 2 Codice Penale costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico nazionale e, più in generale, del moderno Stato di diritto, condicio sine qua non della pretesa punitiva statale, diritto inderogabile di diretta rilevanza costituzionale (articolo 25, comma secondo, Codice Penale) che non soffre di compressioni e limitazioni. Esso risponde all’esigenza di garantire al singolo la libertà di autodeterminazione e la calcolabilità/prevedibilità delle conseguenze penali del proprio agire.

Al contrario, il principio di retroattività della legge favorevole – di rilevanza costituzionale per così dire solo indiretta ai sensi dell’articolo 117, comma primo, Costituzione per rinvio alle diverse fonti internazionali e sovranazionali che lo prevedono espressamente (CEDU, Carta di Nizza, Patto internazionale sui diritti civili e politici) e in base al principio di uguaglianza ex articolo 3 Cost. – può subire compressioni e deroghe per la prevalenza di diversi e opposti interessi. Pertanto, l’applicazione retroattiva della legge favorevole soccombe nei casi in cui la differenziazione di disciplina tra fatti analoghi ma verificatisi in tempi diversi risulti ragionevole all’esito di un bilanciamento tra gli interessi in gioco.

Il comma secondo dell’articolo 2 Codice Penale disciplina il fenomeno dell’abolitio criminis, disponendo che se il fatto non è più previsto come reato da una legge successiva, il soggetto che l’abbia eventualmente commesso nella vigenza della legge incriminatrice non può più essere punito e, se vi è stata sentenza di condanna, a seguito dell’abolizione del reato cessano l’esecuzione della pena e gli effetti penali conseguenti alla condanna. Anche il giudicato, dunque, è travolto dal sopravvenire di una norma abrogatrice, non risultando ragionevole (ex articolo 3 Costituzione) continuare a punire un soggetto per un fatto non più previsto dalla legge come reato.

Diverso è il caso del sopravvenire di una norma che, pur continuando a considerare un fatto come reato, con lo stesso o con altro nomen iuris, ne modifichi in melius la disciplina. In questo caso, il mutamento di disciplina (c.d. mutatio criminis) in senso più favorevole incontra quale limite alla sua applicazione retroattiva proprio il giudicato (articolo 2, comma quarto, Codice Penale), che rimane fermo, fatta salva l’ipotesi di conversione della pena da detentiva a esclusivamente pecuniaria di cui al terzo comma dell’articolo 2 Codice Penale. Secondo il Legislatore, l’irrevocabilità della sentenza appare un limite ragionevole all’applicazione retroattiva della lex mitior per la necessità di salvaguardare ulteriori interessi di rilevanza costituzionale, quali la certezza della pena, la stabilità dei giudicati e la ragionevole durata del processo, evitando che le risorse dello Stato siano disperse nel laborioso riesame delle questioni giuridiche divenute definitive per il sopravvenire di una legge più favorevole.

La distinzione tra abolitio e mutatio criminis, di estrema rilevanza per l’individuazione degli effetti sul giudicato di condanna, può a volte non risultare particolarmente agevole. La questione si pone con riferimento non alle ipotesi – pacifiche di mutatio criminis di modifica del solo trattamento sanzionatorio, ma relativamente ai casi di riformulazione del precetto penale e di abrogazione secca della fattispecie incriminatrice, in cui occorre valutare se il fatto compiuto rientri ancora nel penalmente rilevante, perché ricompreso nella nuova fattispecie penale così come riformulata o nell’ambito di applicazione di altra fattispecie penale più generale che, per effetto dell’abrogazione della norma speciale, si riespande, occupando lo spazio lasciato libero dalla norma abrogata.

Così, in caso di riformulazione del precetto penale, verificandosi una modifica degli elementi costitutivi del reato, potrebbe realizzarsi una abolitio criminis per creazione di una distinta fattispecie (nuova incriminazione) che, pur conservando lo stesso titolo di reato, risulterebbe diversa rispetto alla precedente, da ritenersi, al contempo, espunta dall’ordinamento (abolizione).

In conseguenza di ciò, la precedente fattispecie non potrebbe più trovare applicazione per i fatti in corso di accertamento e verrebbero travolti anche i giudicati eventualmente formatisi su detta contestazione, mentre la nuova incriminazione, in quanto tale, non potrebbe trovare applicazione retroattiva per i fatti commessi prima della sua introduzione. Nel caso in cui si realizzasse una mutatio criminis, invece, sarebbe possibile l’applicazione retroattiva della fattispecie riformulata, fermo il limite del giudicato, che non subirebbe alcuna caducazione.

Non dissimile è, peraltro, il caso dell’abrogazione di una disposizione incriminatrice con contestuale introduzione di altra fattispecie penale, contenente alcuni elementi costitutivi della precedente.

Per quanto concerne l’ipotesi dell’abrogazione c.d. secca della fattispecie penale, può verificarsi che, nonostante l’abrogazione della norma penale, il fatto compiuto nella vigenza della fattispecie incriminatrice abrogata conservi rilevanza penale per riespansione dell’ambito di applicazione di una norma generale, preesistente all’abrogazione. Il fenomeno appena descritto è conosciuto come abrogatio sine abolitio e si distingue dal contrapposto fenomeno di abrogatio cum abolitio proprio per la conservazione della rilevanza penale del fatto nonostante l’abrogazione della fattispecie incriminatrice alla quale il fatto stesso era stato inizialmente sussunto.

Al fine di distinguere tra ipotesi di modificazione, nuova incriminazione e abolizione, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato nel tempo varie teorie.

Alcune di queste muovono da un’analisi delle fattispecie basata su criteri valutativi, sostanzialistici, del fatto concreto, quali l’identità del bene giuridico protetto o delle modalità dell’offesa, individuando la continuità tra le fattispecie e, dunque, il fenomeno della mutatio criminis nell’ipotesi in cui il fatto concreto è punibile alla luce sia della previgente disciplina che della nuova (in base al principio “prima punibile, dopo punibile, quindi punibile”).

Senonché, anche la giurisprudenza ha col tempo abbondonato dette teorie che, fondandosi su criteri opinabili e rimessi in larga parte all’attività interpretativa del giudice, non assicuravano adeguati livelli di certezza nella distinzione tra ipotesi di abolitio e mutatio e, dunque, nella individuazione dei conseguenti effetti sulla punibilità e sul giudicato.

Così la giurisprudenza, a partire dalla nota sentenza Giordano delle Sezioni Unite (sentenza 26 marzo 2003, n. 25887), ha accolto la teoria del raffronto astratto tra fattispecie, secondo cui il confronto tra vecchia e nuova disciplina deve essere compiuto sulla base di criteri logico-formali e strutturali. In caso di mancata individuazione di un rapporto di continenza formale, ossia di specialità, tra le due fattispecie, si ravviserebbe una discontinuità tra le due norme e, dunque, un fenomeno di abolitio criminis, con tutte le conseguenze che se ne devono rilevare in termini di punibilità per i fatti già commessi e di stabilità del giudicato.

Al contrario, in caso di individuazione di un rapporto di specialità tra le due fattispecie, occorrerebbe operare una seconda valutazione avente ad oggetto il fatto concreto, verificando la punibilità dello stesso sia alla luce della precedente normativa che della nuova: solo in caso di positività a questo nuovo giudizio, dovrebbe ravvisarsi piena continuità normativa e concludersi per la sussistenza di una mutatio. Diversamente, ci si troverebbe di fronte ad una ipotesi di limitata continuità (mutatio) e di parziale abolitio, che si verifica nei casi in cui la nuova norma ha una portata applicativa più ristretta della precedente e restringe l’area del penalmente rilevante.

Un particolare fenomeno di successione di leggi si è verificato a seguito della riforma realizzata dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Legge c.d. Spazzacorrotti) che ha riformulato la fattispecie di traffico di influenze illecite di cui all’articolo 346-bis Codice Penale, contestualmente abrogando il reato di millantato credito di cui all’articolo 346 Codice Penale.

Nella previgente formulazione, il reato di millantato credito puniva, da una parte, il soggetto che, millantando credito presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato di pubblico servizio, si faceva dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione verso il pubblico funzionario (mediazione c.d. onerosa, comma primo) e, dall’altra, il soggetto che si faceva dare o promettere denaro o altra utilità con il pretesto di dover comprare il favore del pubblico funzionario, o di doverlo remunerare (mediazione c.d. gratuita, comma secondo) ma non puniva il privato poiché, non esistendo relazioni effettive tra il mediatore e il funzionario pubblico, il privato si limitava a “comprare fumo”, condotta questa priva di una concreta offensività per beni della Pubblica Amministrazione; si riteneva, dunque, che lo stesso fosse vittima delle vanterie e della condotta truffaldina del millantatore, danneggiato dalla condotta criminosa del millantatore che lo aveva indotto al compimento (o alla promessa) dell’atto di disposizione patrimoniale, comunque destinato a non produrre alcuna influenza sull’operato della Pubblica Amministrazione.

Diversa e, per certi versi, complementare era la fattispecie di traffico di influenze illecite che, nella formulazione ante riforma, puniva il soggetto che, sfruttando relazioni esistenti, si faceva dare o promettere denaro o altra utilità patrimoniale come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerare quest’ultimo.

Come espressamente indicato nella Relazione del Governo di accompagnamento alla riforma, l’intento del Legislatore, in virtù di plurime sollecitazioni internazionali, era quello di unificare le due fattispecie, superando in tal modo le difficoltà interpretative sulla distinzione tra le due ipotesi di reato dovute alla complessità di verificare l’esistenza o meno della possibilità da parte del mediatore di influenzare l’operato del funzionario pubblico. A seguito di tale unificazione, anche il privato, seppur mero “compratore di fumo”, sarebbe divenuto punibile in ragione del contenuto illecito dell’accordo stretto tra quest’ultimo e il presunto mediatore. Nelle intenzioni del Legislatore, il riferimento allo sfruttamento di relazioni “esistenti o asserite” contenuto nella nuova formulazione dell’articolo 346-bis Codice Penale era idoneo ad assicurare continuità normativa con l’abrogato millantato credito e, conseguentemente, ad originare un fenomeno di abrogatio sine abolitio.

Senonché, con una recente pronuncia (sentenza 7 febbraio 2020, n. 5221) la Corte di Cassazione ha affermato che se detta continuità normativa può dirsi sussistente con riferimento all’ipotesi prevista dal primo comma dell’abrogato articolo 346 Codice Penale (come, peraltro, già affermato dalla stessa Corte di legittimità, tra le altre, con la sentenza 30 aprile 2019, n. 17980), in ragione della sovrapponibilità della condotta di “millantare credito” con quella di “sfruttare o vantare relazioni asserite”, diversa è l’ipotesi di cui al secondo comma dello stesso articolo 346 Codice Penale, pacificamente ritenuta autonoma rispetto a quella del comma precedente e integrante una forma particolare di truffa. Proprio il termine “pretesto” di cui al secondo comma dell’articolo 346 Codice Penale evocherebbe la rappresentazione di una falsa causa posta alla base della richiesta di denaro o di altra utilità patrimoniale da parte del millantatore, idonea ad indurre in errore la vittima che, in conseguenza di ciò, si determina all’atto di disposizione patrimoniale, come avviene nel caso della truffa a seguito del compimento di artifici e raggiri.

Di contro, l’ipotesi di mediazione gratuita del nuovo articolo 346-bis Codice Penale non presenterebbe questo elemento di raggiro, in quanto il riferimento alla relazione asserita starebbe a indicare un rapporto al momento inesistente ma che ci si prefigge di creare, situazione questa pienamente conosciuta dal privato, che si determinerebbe comunque alla conclusione del pactum sceleris. Esisterebbe, dunque, una relazione di simmetria informativa tra intermediario e privato sull’esistenza delle relazioni con il funzionario pubblico o sulla possibilità di crearle. Di qui, l’offensività della condotta del privato e la ragionevolezza della sua punibilità (sotto quest’ultimo profilo il riformato articolo 346-bis Codice Penale costituirebbe una nuova incriminazione, appunto del privato, insuscettibile di applicazione retroattiva).

La mancata riproposizione nel nuovo testo dell’articolo 346-bis Codice Penale del termine “pretesto” o di altro equipollente, la rilevata inoffensività della condotta del “compratore di fumo” ai beni della Pubblica Amministrazione, nonché il riconoscimento della particolare natura di truffa dell’ipotesi di cui all’articolo 346, comma secondo, Codice Penale, ha portato la Cassazione a concludere per la discontinuità normativa tra quest’ultima disposizione e il nuovo traffico di influenze illecite.

Pertanto, deve ritenersi che per le ipotesi di cui all’abrogato articolo 346, comma primo, Codice Penale, essendosi verificata una mutatio, rimarrà fermo il giudicato già formatosi, e la nuova legge, in quanto più favorevole, dovrà trovare applicazione retroattiva.

Discorso diverso deve, però, farsi per l’ipotesi prevista dal comma secondo dell’abrogato articolo 346 Codice Penale che, in ragione della discontinuità normativa con la nuova fattispecie di traffico di influenze illecite, costituirebbe un fenomeno di abrogatio cum abolitio (con conseguente non punibilità per i fatti già commessi e revoca del giudicato). Senonché, proprio la Cassazione, nell’affermare la discontinuità tra l’articolo 346, comma secondo, Codice Penale e il novellato articolo 346-bis Codice Penale, ha stabilito che sussiste continuità normativa tra la prima disposizione e la fattispecie di truffa che, in quanto norma generale e, quindi, in rapporto di continenza formale con il millantato credito, determinerebbe la conservazione della rilevanza penale della condotta precedentemente sussunta nell’abrogato articolo 346, comma secondo, Codice Penale, enunciando il seguente principio di diritto:

Deve, allora, riconoscersi che non c’è continuità normativa tra l’abrogata ipotesi di millantato credito già prevista nell’articolo 346, secondo comma, cod. pen. nella condotta dell’agente che si riceve o fa dare o promettere denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo comunque remunerare e quella prevista nell’articolo 346-bis cod. pen. nella parte in cui punisce il faccendiere che sfruttando o vantando relazioni asserite con l’agente pubblico si fa dare o promettere indebitamente denaro o altra utilità per remunerare l’agente pubblico in relazione all’esercizio delle sue funzioni; condotta che, in considerazione della intervenuta abrogazione del secondo comma dell’articolo 346 cod. pen., deve ritenersi integrare il delitto di cui all’articolo 640, primo comma, cod. pen. allorché l’agente, mediante artifici e raggiri, induca in errore la parte offesa che si determina a corrispondere denaro o altra utilità a colui che vanti rapporti neppure ipotizzabili con il pubblico agente”. 

In altri termini, alcune condotte precedentemente sussunte nella fattispecie di cui all’articolo 346 Codice Penale, e in particolare quelle previste dal suo secondo comma, conserverebbero, dopo l’entrata in vigore della legge n. 3/2019, rilevanza penale non in virtù della continuità normativa con il nuovo articolo 346-bis Codice Penale, secondo quella che era l’intenzione del Legislatore, ma per effetto dell’articolo 640, comma primo, Codice Penale, norma generale rispetto a quella abrogata “che viene oggi a riespandersi”, verificandosi in questo modo, anche con riferimento alla fattispecie di cui all’articolo 346, comma secondo, Codice Penale, un fenomeno di abrogatio sine abolitio (analogamente a quanto avviene per l’ipotesi di cui al comma primo dell’abrogato articolo 346 Codice Penale per effetto della riformulazione del traffico di influenze illecite), con punibilità del soggetto che ha già commesso il fatto, previa riqualificazione del fatto in sede di giudizio, e stabilità del giudicato di condanna.

Soluzione, questa, che non convince in modo assoluto e senza riserve, se non altro in ragione della diversità strutturale tra la condotta di truffa ex articolo 640 Codice Penale e quella descritta dall’abrogato articolo 346, comma secondo, Codice Penale, in cui, ad eccezione del termine “pretesto”, non si fa alcun riferimento a condotte di artificio e raggiro tali da determinare il privato al compimento dell’atto di disposizione patrimoniale, nonché per la diversità del bene giuridico tutelato dalle due disposizioni incriminatrici e la contrapposizione tra tale soluzione interpretativa e la volontà del legislatore di continuare a punire condotte di millantato credito come traffico di influenze illecite e, dunque, come reato contro la Pubblica Amministrazione.