Ragazze Ultrà

L’emancipazione femminile è passata anche dalle curve
RAGAZZE ULTRÀ
RAGAZZE ULTRÀ

Ragazze Ultrà


L’emancipazione femminile è passata anche dalle curve


«Eravamo lì per la curva e per il Toro, per fare casino come loro». Così Susanna e Luisa giustificano la loro presenza in Curva Maratona negli anni ’70, ma queste parole non suonano soltanto come una dichiarazione d’amore per i Granata. Infatti con “loro” si riferiscono ai colleghi maschi, i primi ultras che cominciavamo in quel periodo a colonizzare gli stadi di tutta la Penisola. In maniera sorprendente, ma senza dubbio fedele, queste ragazze incarnavano le coeve istanze femministe di stampo impolitico; allo stesso tempo i settori popolari divenivano inattesi laboratori d’emancipazione.

Nella transizione tra i Sessanta ed i Settanta il “boom” ha ormai esaurito il carburante e la locomotiva dello sviluppo è entrata in una crisi che destabilizza le fasce più basse della società. Dagli schermi delle televisioni si fanno promesse che in realtà l’economia non è in grado di mantenere e negli Stati Uniti, epicentro dello stile di vita occidentale, la società degli adulti sembra vacillare sotto il vento della Controcultura.

Alla fine degli anni Sessanta anche la gioventù italiana è in subbuglio. Nel ’68 studenti ed operai si prendono università, strade e piazze, ma la spinta rivoluzionaria si esaurisce nel parto di una serie di formazioni politiche extraparlamentari, sia di sinistra sia di destra. In breve dal disimpegno delle masse si passa al terrorismo dei piccoli gruppi, quando la sanguinosa giornata della strage di Piazza Fontana a Milano inaugura gli Anni di Piombo.

In ambito sportivo, soltanto il ciclismo può competere con il pallone nel cuore degli Italiani che, dopo la messa ed il pranzo in famiglia, ogni domenica si precipitano allo stadio a celebrare l’unico rito nazional-popolare rimasto. Nel frattempo sono stati fondati i primi club di fedelissimi, collettivi ufficialmente riconosciuti e promossi dalle società, allo scopo di fidelizzare la base di sostenitori; in molti casi proprio le sezioni giovanili di questi aggregati rappresentano i boccioli da cui fioriscono i gruppi ultras.

Il clima di violenza diffusa, il fallimento dei modelli politici del ’68 e la crisi dei valori tradizionali descrivono la realtà vissuta dai ragazzi all’inizio degli anni Settanta, un disagio che si accentua di fronte all’irraggiungibilità del modello totalizzante diffuso sui massmedia. Mentre gli ambienti cittadini sono stravolti dalla ricostruzione del Dopoguerra, la ricerca di nuovi spazi vitali si conclude sotto i palchi dei concerti rock e, su ampia scala, nei settori popolari degli stadi, dove vive un sottobosco interclassista ma marcatamente giovanile.

Qui il terreno è fertile per la costruzione di “zone liberate” in cui le regole sono dettate dagli stessi occupanti; questa rivendicazione ricorda le contemporanee comuni, dove i giovani americani cercano di alimentare il fuoco acceso con la Summer of Love di San Francisco del 1967. Negli stadi italiani la passione per la squadra diviene un mezzo per veicolare istanze antisistemiche e per dare nuovo significato alla militanza politica; dalle esperienze extraparlamentari si mutuano l’estetica del vestiario da combattimento ed il simbolismo, oltre a dinamiche e pratiche organizzative. La violenza diviene un rituale per annichilire gli avversari e per difendere il proprio territorio dai nemici, siano essi tifosi ospiti o forze dell’ordine.

«Autonomia dalla tutela paterna, modelli parapolitici di coesione del gruppo, assimilazione per via imitativa delle forme inedite di tipo hooligan sembrano dunque essere, in breve, i principali elementi che si coagulano nel dar vita ai gruppi ultrà italiani dei primi anni Settanta». A. Roversi – “Calcio e violenza in Italia”

La trasversalità dell’estrazione sociale dei primi ultras ed il comune passato politico permettono di sviluppare uno stile curvaiolo, che diviene universalmente noto come “tifo all’italiana” e segna un netto salto di qualità rispetto alla coeva tradizione del hooligan britannico, da cui si trae la figura del “giovane maschio ribelle e violento”. Infatti l’attività dei gruppi non si esaurisce nei 90 minuti di sostegno in gradinata, ma si protrae durante la settimana quando ci si incontra per cucire striscioni e bandieroni, scrivere le fanzine ed organizzare le coreografie. Collettivi che si ampliano e saldano sui rapporti d’amicizia tra i membri, che ritrovano così forme aggregative ormai venute meno nel contesto delle associazioni politiche e religiose.

Sulle gradinate, in cui si abbattono gli schemi sociali vigenti, anche le ragazze reclamano il loro spazio di espressione. Sono state iniziate all’ambiente dello stadio soprattutto dai parenti, ma ora sono pronte ad impegnarsi al fianco dei compagni maschi, in quella che diventa un’autentica scuola di vita. Susanna e Luisa rappresentano le prime due lettere di S.L.A.S Donne Ultras che campeggia nella Curva Maratona del Comunale insieme allo striscione Ultras Granata.

Il loro primato è conteso dalle Ultra Girls della Sampdoria, ma presto le quote rosa crescono e si fanno riconoscere nelle curve di tutta Italia. In risposta alle rivali blucerchiate, sulla sponda opposta del Bisagno ecco le Ragazze delle Fossa, invece a Milano e Roma ci sono le Donne Rossonere e le Ragazze Giallorosse, a Bologna le U.R.B. Girls, come a Bergamo e Bari dove nascono sezioni femminili di Brigate Nerazzurre ed Ultras.

Non si commetta l’errore di ritenere minoritario l’apporto delle ragazze alle attività dei vari gruppi; le giovani si mettono in gioco in tutti i modi possibili e non si tirano indietro nelle situazioni più calde. La loro partecipazione è massima nell’organizzazione del tifo e nella produzione del materiale, come testimonia la realizzazione da parte delle succitate Ultras Girls del primo bandierone copricurva d’Italia, apparso nella gradinata doriana nel 1982. Tuttavia le cronache testimoniano che il “gentil sesso” non si risparmia nemmeno negli scontri.

Clamoroso l’episodio del Manuzzi di Cesena, dove i padroni di casa ospitano la Sampdoria nel 87/88: sotto gli occhi attoniti dei tifosi dei distinti, le amazzoni delle due fazioni si fronteggiano animando l’intervallo tra primo e secondo tempo. Tragicamente, la diffusione della presenza femminile in curva è ribadita anche dal bilancio del rogo dello Stadio Fratelli Ballarin di San Benedetto del Tronto, i cui postumi costano la vita a due giovanissime sostenitrici della Samba.

In un ambiente che rimane fortemente maschilista, in cui probabilmente si cela l’ultima difesa della società patriarcale, anche il coinvolgimento delle ragazze nei disordini racconta con forza il desiderio di emancipazione della donna nella società italiana. Un attivismo che in quelli anni trova corrispondenza nelle manifestazioni di piazza, nei partiti istituzionali ed extraparlamentari, ma soprattutto nelle cellule terroristiche.

Apparentemente meno impegnate delle animatrici delle formazioni femminili, che dalla fine degli Anni Sessanta manifestano per il riconoscimento della parità dei diritti sociali, si può dire però che “le ultras” incarnino fedelmente lo spirito del tempo e riempiano di nuovo significato il crogiolo interclassista delle curve. Queste ragazze sarebbero poi diventare lavoratrici, mogli e madri, scrivendo una storia poco nota ma significativa del femminismo italiano.

Oggi che non sembra esserci più spazio per iniziative di matrice antagonista, negli stadi e nei palazzetti italiani i gruppi ultras sono bersaglio di una repressione indiscriminata, quando la loro attività aggregativa non è squalificata da derive affaristiche. Nell’ormai storica crisi della società occidentale, ci si domanda se i giovani di entrambi i sessi saranno in grado di trovare nuovi spazi e pratiche per “vivere insieme”, trovando risposte alla desolazione che la postmodernità presenta loro.