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Riduzione stipendio: se, quando, come e per quali voci è possibile

Lungomare di Reggio Calabria
Ph. Giuseppe Vigliarolo / Lungomare di Reggio Calabria

La giurisprudenza afferma che essa consiste in tutto quanto il lavoratore riceve dal datore di lavoro in cambio della sua prestazione e a causa della sua soggezione personale nel rapporto (Cass. SU 13/2/1984, n. 1069).

Da questa nozione derivano i seguenti principi:

  • corrispettività - il datore di lavoro retribuisce il lavoratore in cambio di una sua effettiva prestazione; tale principio viene derogato in alcuni casi tassativamente previsti di assenze dal lavoro come malattia, ferie, maternità, infortuni sul lavoro, festività, congedo matrimoniale e permessi;
  • obbligatorietà – costituiscono retribuzione solo le somme che il datore di lavoro è tenuto a pagare in dipendenza del contratto di lavoro e non quelle erogate a titolo di liberalità;
  • continuatività – rientrano nel concetto di retribuzione solo quegli elementi che vengono corrisposti con una certa frequenza e continuità;
  • irriducibilità – in caso di passaggio ad altra mansione il lavoratore conserva il diritto di mantenere inalterata la sua retribuzione.

Questi principi non possono essere derogati né dalla contrattazione collettiva né dalle parti.

Nel rapporto di lavoro subordinato la retribuzione rappresenta l’oggetto dell’obbligazione principale del datore di lavoro nonché il principale diritto del lavoratore. La retribuzione è materia regolata sia a livello costituzionale che da alcuni articoli del codice civile.

L’articolo 36 della Costituzione (co.1) dispone che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

In tale disposizione sono rinvenibili due principi fondamentali:

  • quello della proporzionalità, la retribuzione come corrispettivo della prestazione lavorativa;
  • quello della sufficienza, in quanto deve essere tale da garantire “un’esistenza libera e dignitosa”.

L’articolo 2099 Codice Civile stabilisce che la retribuzione deve essere corrisposta nella misura determinata dalle norme corporative (leggi dai contratti collettivi) [1]. La retribuzione è stabilita dal giudice [2] qualora manchi la determinazione da parte della contrattazione collettiva o l’accordo tra le parti del contratto individuale. Di fatto i contratti collettivi stabiliscono i compensi minimi che costituiscono riferimenti validi al fine di determinare un’equa corresponsione del lavoro svolto. Per tale motivo il giudice, per stabilire quale sia la corretta retribuzione spettante ad un dipendente, fa riferimento ai contratti collettivi e all’inquadramento del lavoratore.

Il meccanismo giuridico, attraverso il quale la giurisprudenza determina la retribuzione sufficiente dovuta dal datore di lavoro, è però differente a seconda che le parti non abbiano pattuito una retribuzione oppure l’abbiano pattuita in entità inferiore alla misura minima sufficiente.

Nel primo caso la determinazione giudiziale della retribuzione è manifestazione della funzione integratrice del contratto esercitata dal giudice ai sensi dell’articolo 2099 Codice Civile, il quale prevede che in mancanza di accordo tra le parti la retribuzione è determinata dal giudice. Quali parametri di riferimento il Giudice può quindi utilizzare anche le tariffe salariali concordate con regolamentazione collettiva per altri rapporti di lavoro che presentino analogia e affinità con il particolare rapporto sottoposto alla sua decisione [3].

Diverso è il meccanismo giuridico operante allorquando la retribuzione sia stata pattuita dalle parti in misura inferiore al minimo sufficiente. In tale ipotesi, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, la clausola retributiva è nulla in quanto contraria a norma imperativa (articolo 36 Costituzione) [4]. Nel caso in questione la retribuzione pattuita in misura insufficiente (quindi nulla) è sostituita di diritto dalla retribuzione minima legale prevista dall’articolo 36 della Costituzione, che ha appunto il carattere di norma impositiva del corrispettivo minimo del lavoro.

In ogni caso, per verificare la conformità del trattamento economico, fissato (o non fissato) nei contratti individuali, con il dettato costituzionale vengono utilizzati come parametri i minimi tariffari contenuti nei contratti collettivi [5].

 

Principio di irriducibilità della retribuzione

Altro riferimento legislativo in materia retributiva è l’articolo 2103 Codice Civile il quale sancisce che “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione (…). Ogni patto contrario è nullo”.

Esso è di fondamentale importanza perché contiene alcuni principi fondamentali:

  • il divieto di demansionamento del prestatore di lavoro[6];
  • il principio di irriducibilità della retribuzione;
  • la nullità di ogni patto contrario.

Letta così la norma sembrerebbe non lasciar spazio a qualsiasi patto volto a ridurre la retribuzione. Ma non è così. Infatti, l’interpretazione giurisprudenziale prevalente ritiene applicabile il divieto assoluto della irriducibilità della retribuzione ai soli casi di riduzione unilaterale della retribuzione da parte del datore di lavoro nonché ai casi in cui la retribuzione venga ridotta a seguito dell’illecito esercizio dello ius variandi[7].

Difatti la Corte Suprema ha più volte ribadito che

Il principio dell’irriducibilità della retribuzione, dettato dall’art.2103 Codice Civile, implica che la retribuzione concordata al momento dell’assunzione non è riducibile (…) salvo che, in caso di legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello ius variandi, la garanzia della irriducibilità della retribuzione si estenda alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione   lavorativa; ne consegue che detto principio non impedisce che una delle voci della retribuzione ... possa essere ridotta o soppressa purché la retribuzione base complessiva del dipendente medesimo non venga a risentirne negativamente[8].

L’ulteriore limite da tenere in considerazione al fine di comprendere quale sia la retribuzione riducibile è posto dallo stesso legislatore all’articolo 36 della Costituzione quando afferma che “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Ebbene, come abbiamo già anticipato, il giudice per stabilire quale sia la retribuzione sufficiente fa riferimento ai contratti collettivi e all’inquadramento del dipendente.

Pertanto, il patto che prevede la riduzione della retribuzione tale da far scendere la retribuzione del lavoratore al di sotto dei minimi contrattuali è da ritenersi in contrasto con l’articolo 36 della Costituzione.

 

Diritti disponibili, rinunce e transazioni

Gli aspetti principali del rapporto di lavoro sono regolati da norme inderogabili volte a tutelare non solo gli interessi del singolo lavoratore, ma anche quelli della collettività: in tal senso, si configura il diritto alla retribuzione sufficiente, al trattamento di fine rapporto, alle ferie ed al riposo, alla sicurezza delle condizioni di lavoro, ai contributi previdenziali, alla conservazione del posto di lavoro durante il periodo di comporto.

Di norma è la stessa legislazione che qualifica questi diritti come irrinunciabili e, quindi, indisponibili. Si pensi ad esempio all’articolo 36 della Costituzione, il quale sancisce che “Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

Storicamente la ragione dell’indisponibilità di tali diritti è da ricercare nella posizione di dipendenza e soggezione del lavoratore nei confronti del datore. Infatti, il lavoratore era indotto a ricorrere a rinuncia o transazione quando era in stato di timore reverenziale nei confronti del datore-padrone di lavoro.

In quest’ottica si può affermare che il lavoratore non può liberamente disporre (rectius: rinunciare) di quella parte di retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, e quindi della retribuzione nei limiti dei minimi tabellari.

Inoltre, la possibilità riconosciuta ad un soggetto di dismettere un diritto rientra nella c.d. facoltà di disposizione riconosciuta in via generale al titolare di un diritto soggettivo che nel diritto del lavoro è limitata dall’articolo 2113 Codice Civile, che garantisce i livelli minimi imposti dalle norme imperative.

Le rinunzie e le transazioni (1966) che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 Codice Procedura Civile non sono valide.

L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.

Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà. Ciò non si applica alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410 e 411 Codice Procedura Civile. Infatti, a norma dell’articolo 2113 Codice Civile, le rinunce e transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o da contratti collettivi sono invalide, a meno che siano intervenute in una conciliazione raggiunta in sede giudiziale (articolo 185 Codice Procedura Civile), presso la Direzione Provinciale del Lavoro o in sede sindacale nel rispetto degli articoli 410 e 411 Codice Procedura Civile.

Tuttavia, se il lavoratore omette di impugnare [9] le rinunzie e transazioni intervenute al di fuori delle procedure sopra descritte entro sei mesi, tale omissione provoca l’effetto di sanare il negozio inizialmente invalido.

 

Riducibilità della retribuzione

L’eccezione alla regola dell’irriducibilità è la possibilità di stipulare accordi individuali di modifica (in senso peggiorativo per il dipendente) delle mansioni, della categoria legale (dirigente, quadro, operaio, impiegato) e del livello di inquadramento, nonché della relativa retribuzione.

Tali accordi sono possibili soltanto nell’interesse del lavoratore dipendente:

  • alla conservazione dell’occupazione, oppure
  • all’acquisizione di una diversa professionalità, oppure ancora
  • al miglioramento delle condizioni di vita.

Inoltre, per essere validi, devono essere stipulati dinanzi all’Ispettorato del Lavoro, al Giudice del Lavoro (conciliando un giudizio pendente), ad una Commissione di certificazione o in sede sindacale.

Peraltro, l’operatività della prima condizione (l’interesse del lavoratore al mantenimento dell’occupazione) è attualmente esclusa dal generale divieto di licenziare.

Premesso che è una questione molto dibattuta in dottrina e giurisprudenza si ritiene che per alcuni diritti indisponibili, come quello alla retribuzione, è ammessa la rinuncia in una sede protetta, per esempio durante una conciliazione o un giudizio. La possibilità di rinunciare a tali tipologie di diritti è stata confermata da una nota circolare del Ministero del Lavoro [10] (sulla quale l’autore nutre dei dubbi) che ammette pacificamente la possibilità, per i lavoratori dipendenti, di privarsi di parte dello stipendio firmando una conciliazione col datore di lavoro.

Attenzione!

I contributi vanno sempre versati, anche se il lavoratore rinuncia alla retribuzione: l’Inps, infatti, titolare del credito contributivo, non può in alcun modo essere pregiudicato da atti dispositivi di terzi, anche se questi sono beneficiari delle prestazioni previdenziali.

In caso di rinuncia allo stipendio o a una sua parte, pertanto, i contributi vanno calcolati e versati sulle retribuzioni dovute anche se non pagate e non sui minimali contributivi. La stessa regola vale, oltreché per l’Inps e gli altri enti previdenziali, anche per i premi dovuti all’Inail per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in quanto si tratta di un ente titolare di un interesse pubblico collegato al rapporto di lavoro.

Nel caso in cui il lavoratore abbia validamente espresso la volontà di privarsi di parte della retribuzione, quanto non percepito non deve essere registrato nel libro unico del lavoro (LUL). Bisognerà dunque registrare le sole spettanze effettivamente erogate al lavoratore.

 

Elementi della retribuzione liberamente riducibili

Bisogna ricercare gli elementi retributivi eccedenti il minimo e individuare quelli riducibili.

Tra le voci retributive che eccedono il minimo troviamo i c.d. superminimi collettivi, solitamente originati da contratti integrativi aziendali e riguardanti la generalità dei lavoratori, oppure i lavoratori addetti a particolari mansioni che, in quella azienda, sono ritenute meritevoli di una maggiore retribuzione rispetto a quella spettante a lavoratori di pari livello ma con altre mansioni.

La retribuzione del lavoratore, oltre che dalla contrattazione collettiva nazionale di 1° livello, aziendale o territoriale di 2° livello, può essere determinata direttamente dalle parti nel contratto individuale di lavoro.

Atteso che nel nostro ordinamento vige il principio generale dell’inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte dei contratti individuali, la retribuzione stabilita in sede di contratto individuale può essere solo migliorativa rispetto a quella stabilita dalla contrattazione collettiva di ogni livello e, quindi, può solo eccedere i minimali.

Le voci pattuite dalle parti del contratto individuale di lavoro sono per lo più costituite da premi, incentivi, superminimi ed assegni ad personam, volte a remunerare il lavoratore per la sua professionalità e/o per i risultati conseguiti.

In particolare i superminimi sono generalmente riconosciuti, al momento stesso dell’assunzione oppure nel corso del rapporto lavorativo, in virtù delle particolari caratteristiche di professionalità del lavoratore (o della sua abilità e forza contrattuale). Essi possono essere concessi per merito, non assorbibili, o quale anticipo di futuri aumenti contrattuali e, quindi, assorbibili.

Poi vi sono quegli elementi retributivi quali ad esempio premi ricorrenti e gratificazioni varie che, concessi unilateralmente e reiteratamente dai datori di lavoro, configurano dei veri e propri “usi aziendali”.

 

 

[1] Che così recita: “La retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a cottimo e deve essere corrisposta nella misura determinata (dalle norme corporative), con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito. In mancanza (di norme corporative o) di accordo tra le parti, la retribuzione e determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali. Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti con provvigione o con prestazioni in natura (Cod. Proc. Civ. 409)”

[2] Tenuto conto ove occorra del parere delle associazioni professionali.

[3] Cfr. Cass. 8/11/74, n.3473; 27/04/78, n.1986: 15/12/79, n.6526; 08/04/80, n.2254

[4] Tuttavia tale vizio non genera la nullità totale del contratto in quanto, secondo il disposto del co.2 dell’art.1419 Codice Civile, “La nullità di singole clausole non comporta la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”.

[5] In questo modo la giurisprudenza ha realizzato in forma parziale e indiretta l’estensione erga omnes degli effetti del contratto collettivo, risolvendo così il problema del riconoscimento dell’efficacia generale ai contratti collettivi stessi, almeno limitatamente alla loro parte economica (c.d. estensione ultra partes dei contratti collettivi).

[6] A tale principio derogano due sole ipotesi, l’una si ha quando tra l’interesse del lavoratore a non vedere pregiudicata la propria posizione professionale e l’interesse dello stesso alla conservazione del posto si privilegia quest’ultimo, per cui si consente, in presenza di una ristrutturazione dell’azienda, di disporre un mutamento peggiorativo delle mansioni in luogo del licenziamento (si veda ad esempio Cass. 29/11/88, n.6441); l’altra ipotesi è prevista dal legislatore, sempre nell’interesse del mantenimento del posto di lavoro, e si verifica quando gli accordi sindacali, stipulati nel corso delle procedure di mobilità e diretti al riassorbimento del personale, possono consentire di assegnare i lavoratori a mansioni inferiori (art.4, co.11, L. n.223\93).

[7] Ovvero a seguito del demansionamento illecito del lavoratore.

[8] Vedi Cass. 19 febbraio 2008, n.4055; Cass. 1° marzo 2007, n.4821; Cass. 20 settembre 2006, n.20339; Cass. 27 ottobre 2003, n.16106.

[9] Possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale.

[10] Circolare Min. Lav. N. 28/2015