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Samarcanda

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Samarcanda

Scoprii Samarcanda da bambino. In una collana di favole dei paesi del mondo Samarcanda ritornava nel volume delle fiabe persiane, e poi in quello delle favole dell’Asia centrale e poi in quello di favole russe. Era abbastanza strano che una città appartenesse a mondi così diversi. Certo, c’erano gli atlanti, e dunque non era difficile capire che la città di Samarcanda era collocata al centro di una vasta area condivisa da più paesi. E potevo anche immaginare che i traffici tra questi paesi fossero così continui e stretti da trasformare Samarcanda in un porto aperto a tutti i punti cardinali, a tutte le culture, a tutte le comunità linguistiche.

Samarcanda tornò qualche anno dopo - ormai praticamente adulto - con la famosissima canzone di Vecchioni. Una canzone affascinante ma che sembrava evocare scenari esistenziali più che fantasie geografiche. E non parlerò poi della trasmissione Samarcanda che andava in onda - mi pare su Rai Tre - e che qualche volta guardai incuriosito da questo nome e da tutto quello che evocava.

Tuttavia era assai difficile per chi aveva nutrito il mito di un luogo che apparteneva a tutte le culture e che condivideva tutte le lingue del mondo riconoscersi in questa trasmissione che tra i tanti meriti non aveva certo quello della obiettività e quello della serenità di giudizio.

Si può dunque facilmente immaginare con quale complessità di emozioni partii nel 1992 per Samarcanda, destinazione di uno dei viaggi che organizzavamo in quegli anni.

Era un momento difficile: da pochi mesi era crollata l'Unione Sovietica; il paese era nel caos. Noi stessi non sapevamo cosa avremmo trovato e come avremmo potuto realizzare un viaggio per cui erano saltati tutti i riferimenti tecnici e logistici.

Anche se questo aspetto del viaggio meriterebbe di per sé una rubrica per la surreale successione di eventi che lo caratterizzarono, è di altro che vorrei parlare. Qualche cosa che mi colpì, di inatteso.

Samarcanda era bellissima, come dubitarne? La grande piazza detta Reghistan era una spianata piena di moschee - madrase in realtà - di una bellezza infinita. E tuttavia la qualità di quello che vedevo non era eccezionale anzi.

Il professore che era con noi e che guidava il viaggio ci fece notare che se una persona avesse preso un binocolo e avesse guardato da vicino la qualità degli edifici e della lavorazione dell'ornamentazione si sarebbe reso conto di un lavoro fatto in fretta e di un restauro non meno frettoloso. Intendiamoci: è evidente che lo spazio che le madrase cingevano restava sognante, meraviglioso. Ma la contraddizione era lì, evidente, davanti ai miei occhi. Non poteva essere negata.

Una seconda cosa mi colpì ed era in qualche modo inquietante. Le guide del posto parlavano dei monumenti che stavamo osservando e su cui il nostro occhio si posava incantato come di qualche cosa appartenente alla loro nazione, loro cultura e indugiavano in questo plurale maiestatis – Noi, Noi, Noi - che lasciava abbastanza perplessi perché tra la qualità dei monumenti e le persone che ci parlavano si intuiva una distanza davvero notevole. E questo noi continuamente ripetuto era troppo assertivo e categorico per non spianare la strada a qualche legittimo dubbio.

La cosa divenne manifesta quando scoprii, e certo non era una scoperta particolarmente difficile, che in realtà gli edifici più importanti erano stati costruiti da un condottiero – Tamerlano – e dai suoi immediati discendenti. Questi, però, dopo meno di un secolo erano andati via / scacciati da Samarcanda e avevano lasciato queste splendide piazze e madrase in mano a un popolo di semi-nomadi eccezionalmente rudi. Qualcuno forse avrebbe detto – allora – barbari: gli Uzbeki.

In altre parole, gli uzbeki presentavano come proprio qualche cosa che lo era solo in parte. E che apparteneva a un gruppo di uomini che avevano abbandonato l'Asia centrale per l’India e in India avevano costruito uno degli imperi più sfarzosi della storia. Uomini che avevano dato vita a una delle arti più straordinarie della storia dell'umanità: l'arte moghul.

E anche chi ignora questo nome o non sa esattamente cosa sono stati i Moghul capisce immediatamente … basta pronunciare un nome Taj Mahal di Agra e subito, anche il bambino della valle più sperduta, sa dell’esistenza di qualcosa di sognante, di favoloso, di infinitamente bello.

E qui uno storico - come chi scrive - non poteva non chiedersi la cosa più semplice.

Non poteva non farsi una domanda così scontata che quasi sorprende per banalità: come mai questi uomini che avevano costruito Samarcanda, della cui bellezza davvero non c'è motivo di dubitare, se ne andarono via? Per quale ragione abbandonarono tutto?

Se con la partenza per l’India cominciò - come cominciò – una splendida avventura, di fama universale… poco più di un secolo dopo la fondazione di Samarcanda… come valutare questo periodo di tempo, così eccezionalmente breve rapportato agli investimenti fatti?

Mi dicevo e mi domandavo: se io avessi speso una fortuna per costruire una villa e avessi fatto questa villa così sfarzosa e così bella da sfidare i secoli e da diventare … nemmeno una villa, ma un palazzo. Un luogo di bellezza infinita e di fama mondiale, lo abbandonerei dopo due o tre generazioni?

I miei nipoti se ne andrebbero via da un palazzo così bello che io ho costruito anche per loro?

Ovviamente no, non lo farei mai. Qual è la condizione per cui io abbandoni un palazzo di infinita bellezza e lo lasci a popoli definiti barbari?

La guerra, si potrebbe dire, la debolezza militare. E certo gli epigoni di Tamerlano persero le guerre che combatterono in Asia centrale. Ma se uno è così debole da perdere casa sua, ha poi la forza di conquistare l’Afghanistan e l’India? Non si avverte una certa contraddizione?

Beh la risposta è lì, davanti agli occhi, davanti a tutti noi. Non è particolarmente raffinata. Si abbandona un palazzo, si abbandona una reggia, si abbandona un luogo infinitamente bello quando non si hanno soldi e quando si deve andare a cercar fortuna altrove.

Ma allora? le cose non tornano più, è evidente che non tornano più.

Se Samarcanda era stata così importante e così ricca come mai se ne erano andati via? Come mai dopo avere costruito un luogo di questa bellezza erano andati a cercar fortuna - e che fortuna! - in India?

Anni dopo studiando - così come studio da sempre - la storia della Cina scoprii due cose che nei nostri libri di storia non sono così importanti o, meglio, che sono tenute un po' ai margini dei nostri manuali.

La prima - in qualche modo conosciuta - è che il costruttore di Samarcanda, Tamerlano, aveva sostanzialmente distrutto tutte le grandi città commerciali del vicino Oriente e dell’Asia centrale. L'elenco delle città che Tamerlano distrusse è talmente lungo e la quantità di morti che Tamerlano diffuse per tutta Asia talmente sterminata che mettersi a dettagliare sarebbe un'impresa. Forse gioverà ricordare Delhi saccheggiata e rasa al suolo; Balkh una grande città dell'Afghanistan che dopo Tamerlano è semplicemente scomparsa. E poi, naturalmente, le città della Persia e Baghdad e le altre grandi città del vicino Oriente. In miserevoli condizioni dopo le distruzioni operate dall’esercito di Tamerlano.

E allora è lecito chiedersi: quali commerci e traffici dovevano rendere ricca Samarcanda se tutte le città con cui commerciare erano state distrutte? La ricchezza di Samarcanda a che cosa apparteneva? era dunque una ricchezza di rapina? una ricchezza commerciale?

Mi sembrò evidente: Samarcanda è stato il sogno di una notte, di pochi decenni.

Il commercio di cui doveva diventare regina non c’era più. Un’immensa e splendida capitale senza province, mercati. Banche e commerci. Una cattedrale nel deserto.

Una seconda riflessione mi confermò in queste convinzioni. L'imperatore cinese Yongle della dinastia dei Ming nel 1415 - praticamente pochi anni dopo la costruzione di Samarcanda - chiuse completamente le frontiere a ogni traffico commerciale. La Cina si chiuse al mondo esterno e lo sarebbe restata fino alla metà del 1800.

E ora il lettore provi a riflettere insieme a me su questa situazione: a Occidente tutte le città erano state distrutte, non c'era più caravanserraglio, banca, borsa: non c'era più niente. Tamerlano aveva raso al suolo mezzo continente. A Oriente c'era una frontiera chiusa: la Cina non commerciava più con nessuno e chi voleva fare affari con la Cina doveva andare per via mare come faranno i portoghesi.

E allora la fortuna di Samarcanda? il mito di Samarcanda? Che mito può essere una città che sorge dall’oggi al domani intorno al 1370 e che già nel 1415 si vede azzerati utili, guadagni e commerci?

No: la Samarcanda che io vedevo e che la guida uzbeka illustrava con continui – e infine un po’ ridicoli – richiami al Noi, Noi, Noi non aveva nulla a che fare con il mito di Samarcanda. Nessuno trasforma in leggenda una città costruita in fretta e furia e abbandonata dopo pochi decenni per bancarotta.

Cominciò così una ricerca: a metà tra lo studio, la passione, il divertimento. Come a volte succede quando si innescano delle curiosità e uno vuole assecondarle.

Nel volgere degli anni scoprii quello che gli storici conoscono, quello che gli archeologi sanno e che tuttavia era lontano dalla mia conoscenza, appunto.

Scoprii che Samarcanda aveva un altro nome e con questo altro nome era stata una città leggendaria fin dal terzo secolo prima di Cristo, tra il 300 a.C. e il 700 d.C. In quegli anni Samarcanda era stata – ma con nome diverso, Afrasiab - uno dei luoghi commerciali più importanti della terra. Un luogo frequentato da popoli di lingua diversa, di cultura diversa… Questa fortuna non era legata né a Tamerlano né agli uzbechi né tanto meno alla cultura islamica. Era legata a un’epoca di cui lentamente - a poco a poco - cominciai a scoprire i contorni, i limiti, i successi.

La grande cultura dei regni greco-battriani, i discendenti dei soldati della spedizione di Alessandro Magno. O quella dei regni Indo-greci, e poi del periodo Kushana, quello che diede vita a una delle più splendenti arti della storia dell'umanità, nota in occidente con il nome di Gandhara.

E poi, ancora, il grande sviluppo del commercio sogdiano … man mano che andavo avanti in questa mia ricerca scoprii che Samarcanda non era stata nulla di tutto quello che io fantasticavo: semplicemente era stato il sogno di un conquistatore - Tamerlano - che cercava di fare rivivere la città così come era stata un tempo.

La fama di Samarcanda non era legata agli edifici costruiti da Tamerlano anzi: Tamerlano provò a rilanciare questo sogno, ma lui stesso, le sue stesse guerre e distruzioni lo avevano reso impossibile.

La chiusura al commercio cinese lo aveva definitivamente affossato.

E così la Samarcanda che io vedevo davanti a me, quella degli splendidi edifici del Reghistan non era la prova di forza e la manifestazione di una società opulenta, ricca e meravigliosa, ma l’estremo tentativo fatto da un condottiero particolarmente sanguinario di rimettere in vita qualche cosa che lui stesso aveva contribuito a distruggere per sempre.

E così il mito di Samarcanda divenne ancora più grande: divenne ancora più luminoso. Si arricchì dei ricordi di Alessandro Magno, degli affreschi di località di cui non avevo mai sentito parlare: Nisa partica, Afrasiab, Panjikent, Varaksha… si confuse con la storia degli epigoni di Alessandro Magno, con i contributi incredibili e straordinari di arte iranica sia partica che sasanide.

In breve, si arricchì di tutte le molte culture dell'Asia centrale che un europeo di cultura media tendenzialmente ignora o che manco sa che siano mai esistite.

Ed è per questo che quando io ripenso a Samarcanda tendo a dimenticarmi delle madrase e del Reghistan.

Il mio cuore va ai grandi cicli di affreschi del III-VI secolo. Alcuni dei quali sono ancora oggi in loco, altri sono invece esposti all’Ermitage di San Pietroburgo.

Banqueters rhyton

 

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Verso Samarcanda di Stefano Cammelli www.viaggidicultura.com