San Benedetto da Norcia: abate e padre del monachesimo

San Benedetto
San Benedetto

Il cuore dell’anima

Quand’ero ragazzo avevo una vera passione per la letteratura fantascientifica e, passando le mie giornate a sognare viaggi fra le stelle, ritenevo che il tratto peculiare della vita fosse una mirabile sintesi fra dinamismo e sonorità. Ai silenziosi tumulti dello spazio profondo infatti, la vita oppone una dinamicità non indifferente, capace in qualche modo di esprimere la propria consapevolezza cantando le sue lodi a Dio.

Comprenderete quindi la mia sorpresa quando, da cristiano tiepidissimo qual ero, ho sentito per la prima volta parlare della vita contemplativa. Queste persone, cui tributavo una superficiale ammirazione in virtù della loro vita materiale, affermavano di trovare la più alta espressione dell’esistenza proprio negando quegli elementi che a me parevano più fondanti; com’era possibile che un essere umano esprimesse appieno la propria vitalità nel silenzio e nell’improduttività? Non era forse quello lo stato proprio dei morti, ossia di coloro che non hanno più parte in questa vita[1]?

Il Signore, che guidò il mio cammino verso il Vangelo con provvido amore, non mi consentì di approfondire la questione immediatamente. Ora tuttavia, dopo essermi rifocillato alla Sua fonte, mi trovo a riconsiderarla con uno sguardo più consapevole. Mi rendo conto che le mie perplessità nascevano da quel fondo viscido di materialismo nel quale tutti viviamo o dal quale ci alziamo con fatica; a causa di questo tendiamo a considerare la vita come legata esclusivamente alla materia. Proprio su questa base quella tensione dinamica di cui parlavo viene pensata esclusivamente come fatta di atti concreti e di tangibili risultati.

Depennando tuttavia un simile principio dal ragionamento, si comprende che se la vitalità di ogni uomo viaggia su due binari, uno fisico e l’altro spirituale, il monaco è solo colui che silenziando il primo rende più evidente la sinfonia del secondo. Ecco che quindi, in un’ottica ecclesiale, la vita contemplativa ha il compito non solo di ravvivare ma anche di evidenziare nella Chiesa quel piccolo cuore vitale e profondo che non abbraccia ogni vita ma tutte le informa con la sua luce.           

 

San Benedetto Abate

Anche se la storia del monachesimo cristiano è tanto ricca da non consentire eccessive semplificazioni, in Occidente questa forma di vita religiosa ha un padre che, pur non costituendone l’unico modello, né è sicuramente uno splendido sunto.

Sto parlando ovviamente di san Benedetto da Norcia, Patrono d’Europa, nato circa nel 480 d.C. e morto nel 547 a Montecassino. Nei quasi settant’anni della sua vita egli non solo visse un profondo cammino ascetico di avvicinamento a Cristo, ma accolse anche l’arduo compito di essere padre e maestro per coloro che, senza pastore, bramavano la sicurezza dell’ovile.

Sunto e frutto di questa sua mirabile opera pastorale è la famosa Regola, una perla insostituibile di santità che lo Spirito Santo, nella storia, ha reso seme fecondo per tutta la Chiesa[2]. Finalizzata a modellare la vita di coloro che iniziavano il loro cammino di silenzio, questa norma di vita religiosa tocca, con un raro equilibrio fra delicatezza e precisione, ogni ambito della quotidianità del monaco, delineando un affresco che riesce a donare corpo all’apparente idealità dell’aspirazione monastica.

Sfogliando anche distrattamente questo antico testo, si comprende subito come la centralità della ricerca di Dio, vera anima dello scritto, trovi la sua prima e più importante incarnazione nella figura dell’abate. Questo termine deriva dall’aramaico abba e significa “padre”; nel Nuovo Testamento viene da Gesù utilizzato per identificare Dio Padre[3] e proprio da questa complessità semantica aiuta a comprendere le sfaccettature che l’ufficio possiede.

San Benedetto stesso, nel delineare questa figura, la tratteggia come insignita di gravi responsabilità formative verso i monaci lui sottoposti, al punto che l’abate è descritto come colui che “[…], alternando il rigore e la dolcezza, sappia dimostrare la severità del maestro e l’affetto indulgente del padre”[4].

Questo difficile equilibrio fra il ruolo magisteriale e quello paterno si concretizza in una proposta di vita che, evitando ogni generalizzazione, non teme di fissare la concreta umanità del singolo e ad essa rispondere. Questa risposta non si nutre di mere parole, ma di un bagaglio di santità che deve essere vissuto e coraggiosamente condiviso[5].

 

Il seme di Cristo

Se è vero che la vita contemplativa è l’anima della Chiesa e se l’abate è il cuore del monastero, allora sarà possibile trovare l’elemento vitalizzante dell’umanità in cammino verso Cristo proprio in quel delicato perno che mantiene in equilibrio le due nature dell’abate stesso, quella di padre e quella di maestro.

Paradossalmente la risposta ci viene fornita da una donna che, per quanto santa, mai visse direttamente la Regola di san Benedetto. Sto parlando di santa Caterina da Siena, Terziaria domenicana vissuta nella prima metà del XIV secolo.

Nel suo ricco epistolario troviamo una lettera inviata all’abate dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore[6], fondata nel 1319 da san Bernardo Tolomei nei pressi di Siena e retta dalla Regola benedettina.

In questo breve scritto, dopo un appassionato elogio alla carità, la santa senese individua proprio in questa virtù teologale l’elemento fondamentale affinché l’abate possa affrontare il suo arduo compito. Difatti, solo la disponibilità a farsi una cosa sola con l’altro dona allo sguardo del superiore religioso la lucidità necessaria ad essere guida e modello di discernimento[7]. Proprio da questa umiltà amorosa deriva, per santa Caterina, la capacità di amare nella severità e comandare nella dolcezza, frutti che san Benedetto possedette e pose come fondamenta di quel mondo che, nel suo impalpabile silenzio, è vita e spirito per tutta la Chiesa.

Questa duttilità nell’amore verso il prossimo, la capacità cioè di amarlo secondo la sua attualità facendosi abbastanza piccolo da accoglierla, deve irradiarsi nella Chiesa tutta e nel mondo come la vita si distende dall’anima a tutto il corpo.

Tale diffusione non è solo nutrita dall’intercessione di san Benedetto e di tutti i santi monaci che gli succedettero, ma anche dalla consapevolezza che questo piccolo seme è la grandezza cui Cristo chiama tutti noi e che Lui per primo ha contemplato e vissuto.  

 

[1] Sal 16, 14.

[2] Per queste ed altre informazioni biografiche cf La Regola di san benedetto (a cura di Anselmo Lentini), Montecassino 2010, Introduzione, pp. 7-19.

[3] Cf La Regola (ed. cit.), p. 32, nota 1.

[4] Cf ivi, c 2, 24.

[5] Cf ivi, c 2, 11-15.

[6] Cf Le Lettere di santa Caterina da Siena vol. 1 (a cura di p. Giuseppe di Ciaccia OP), ESD, Bologna 1996, Lettera 33, pp. 132-135.

[7] Cf ivi, pp. 134-135.

Testi di riferimento:

La Regola di san benedetto (a cura di Anselmo Lentini), Montecassino 2010.

Le Lettere di santa Caterina da Siena Vol. 1 (a cura di p. Giuseppe di Ciaccia OP), ESD, Bologna 1996