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Sulla tutela del segreto professionale, tra l’obbligo di denuncia e di referto

Sulla tutela del segreto professionale, tra l’obbligo di denuncia e di referto
Sulla tutela del segreto professionale, tra l’obbligo di denuncia e di referto

L’articolo 622 del Codice Penale punisce la rivelazione del segreto professionale[1], e prevede che costituisca violazione della norma penale rendere noti fatti, circostanze, informazioni, notizie la cui diffusione potrebbe creare nocumento alla persona che si è rivolta al professionista in ragione del suo stato, ufficio, arte o professione (giornalista, medico, avvocato, commercialista, assistente sociale[2]).

Dunque, perché il reato si concretizzi, è sufficiente che la violazione del segreto possa comportare un danno o un pregiudizio giuridicamente rilevanti – siano essi morali, materiali, esistenziali – alla persona offesa, ma non è necessario che li “comporti” o li “debba comportare”: è pienamente sufficiente la potenzialità dannosa dell’azione del professionista.

Si evince ancora dalla disposizione che la rivelazione deve avvenire “senza giusta causa”: appare evidente che con tale formula il legislatore penale non intendeva ricomprendere le cause scriminanti generiche previste dagli articoli 50-54 del Codice Penale che, per operare, non necessitano di un esplicito richiamo all’interno della disposizione penale speciale. Siamo in presenza, invece, di un elemento al di sopra delle scriminanti intese in senso stretto, che opera mandando esente da responsabilità penali l’autore della rivelazione quando, effettuato un bilanciamento tra gli interessi in gioco, il professionista rivela il segreto per tutelare un bene di rango superiore[3].

Come conciliare dunque obbligo di denuncia e obbligo al segreto professionale?

Nella mappa delle norme codicistiche l’obbligo di denuncia trova collocazione nel titolo relativo ai delitti contro l’Amministrazione della giustizia, agli articoli 361 e 362 del Codice Penale, e 331 del codice di rito. L’articolo 622 del Codice Penale, inerente il segreto professionale, si colloca invece nel panorama degli articoli riguardanti la tutela della persona e della sua libertà.

La collocazione delle norme nel codice non è casuale, ma frutto di un’attenta analisi dei beni giuridici che le singole disposizioni si propongono di tutelare. Il codice penale predilige gli interessi collettivi a quelli individuali, ed è per questo che nei primi titoli del libro II si trovano elencate le fattispecie delittuose contro lo Stato, la sua Amministrazione, il suo Sistema giudiziario; seguono i delitti contro la persona e quelli contro il patrimonio.

Si può concludere quindi che, seguendo questa logica, per il medico-pubblico ufficiale che abbia avuto notizia di un reato nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, scatti l’obbligo di denuncia in virtù del suo rapporto privilegiato con la pubblica amministrazione, che pone in una posizione di minor rilievo il rapporto personale col paziente, tutelato dall’articolo 622 del Codice Penale.

Ciò detto, quid iuris circa l’obbligo di referto?

Il referto, definito come l’atto mediante il quale ogni esercente una professione sanitaria rende noti all’autorità giudiziaria competente i casi in cui ha prestato la propria assistenza od opera che presentino le caratteristiche di delitti perseguibili d’ufficio, rientra tra le attività doverose che il medico è tenuto a compiere, tanto che, come disciplinato dall’articolo 365 del Codice Penale, l’inadempimento di tale obbligo è penalmente sanzionato[4].

Oggetto del referto sono quei casi che presentano i caratteri del delitto perseguibile d’ufficio: a nulla rileva perciò che l’autore possa essere persona non imputabile, essendo esclusi dall’obbligo soltanto i casi nei quali la procedibilità è condizionata dalla presentazione della querela.

Giunti a questo punto è necessario mettere in evidenza la differenza che intercorre tra il referto e la denuncia, sia dal punto di vista soggettivo, che oggettivo.

Sotto il primo profilo, si osserva che sono tenuti all’obbligo di referto gli esercenti una professione sanitaria, mentre la denuncia è un obbligo riservato ai medici che assumono la qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

Dal punto di vista del contenuto, mentre la denuncia può avere ad oggetto sia i delitti che le contravvenzioni penali, il referto riguarda solo i delitti perseguibili d’ufficio, ed implica un giudizio tecnico di natura prognostica e diagnostica circa la natura del fatto, la cause, i mezzi e le conseguenze di essa (anche sul rischio per la vita)[5].

La denuncia reca invece informazioni sugli elementi del fatto, con indicazioni circa la fonte della notizia, la data di acquisizione della stessa e le generalità delle eventuali persone informate, tralasciando i dati di natura biologica.

L’obbligo di denuncia interessa, come disposto dall’articolo 331 del Codice Penale, tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio durante l’espletamento dello stesso che abbiano avuto notizia di un reato perseguibile d’ufficio; non v’è dubbio che la norma riguardi anche i medici che rivestano – anche temporaneamente – tali qualifiche.

Ai sensi degli articoli 361 e 362 del Codice Penale, mentre per poter stilare una denuncia il pubblico ufficiale deve aver avuto notizia di un reato perseguibile d’ufficio effettivamente realizzatosi, per il referto è invece sufficiente che l’esercente una professione sanitaria – talvolta pubblico ufficiale – abbia prestato la propria assistenza od opera in casi che possano presentare le caratteristiche di un delitto, di nuovo procedibile d’ufficio.

Quindi, con riferimento alla nostra analisi, mentre nel primo caso la normativa prevede che il medico, pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio, debba denunciare solo il reato perseguibile d’ufficio che a lui risulti effettivamente già consumato, nel secondo caso prevede che il medico (in generale), in relazione ad un caso in cui abbia prestato la propria assistenza od opera, riferisca di un “delitto in astratto che potrebbe non appartenere al mondo della realtà”[6].

Appare perciò evidente che uno dei presupposti che la legge richiede per la sussistenza dell’obbligo di referto consiste nella semplice “possibilità” che il fatto costituisca delitto perseguibile d’ufficio.

Si noti la mancanza dell’esimente, per quanto attiene alla denuncia, prevista per il referto all’articolo 365/2° del Codice Penale, laddove è previsto che l’obbligo di referto non scatti quanto il documento esporrebbe la persona assistita a procedimento penale. Quest’altra non trascurabile differenza deriva dal fatto che l’autore del referto è esercente una professione sanitaria, il che impone l’obbligo del rispetto dei doveri deontologici di tutela dell’assistito prima ancora di quelli connessi all’espletamento di funzioni giuridiche, secondo le stesse regole che stanno alla base del segreto professionale.

Va precisato tuttavia che – come è stato da altri rilevato – perché possa operare tale esimente è necessario che “tra referto e sottoposizione della persona a procedimento penale sussista un rapporto di causa/effetto, nel senso che solo a seguito del referto del sanitario il procedimento penale verrebbe aperto”[7]. Ciò significa che tale esonero non sarebbe applicabile nel caso in cui la prestazione sanitaria fosse diretta a persona latitante, colpita da ordinanze di custodia, che debba scontare condanna o che già rivesta la qualifica di imputato in un procedimento penale[8]; in tal caso, infatti, il referto non sarebbe causa di esposizione del paziente a conseguenze processuali ma solo, semmai, occasione per il suo rintraccio[9].

La collocazione dell’articolo 365 all’interno del Codice Penale evidenzia come l’omissione di referto sia delitto contro l’Amministrazione della giustizia, in quanto ostacolo allo svolgimento dell’attività giudiziaria. Si tratta, in particolare, di un reato di pericolo che rende punibile non solo chi omette di redigere un referto ma anche chi non lo faccia pervenire in tempo all’autorità giudiziaria (articolo 334 Codice Penale) o chi non lo rediga in maniera completa o corretta[10].

 

[1] «Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento […]. Il delitto è punibile a querela della persona offesa».

[2] Questi ultimi inseriti tra i titolari di segreto professionale dalla legge n. 88 del 14 aprile 2001 “Disposizioni concernenti l’obbligo del segreto professionale per gli assistenti sociali”.

[3] Potremmo considerare, per esempio, il caso di un medico che riveli la tossicodipendenza per scongiurare il concreto pericolo di vita del paziente.

[4] “Chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’art. 361, è punito […]. Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”.

[5] Così come disposto dall’art. 334/2° cpp.

[6] Palmieri L., Dai segreti alla riservatezza e poi al segreto, Medicina Legale Quaderni Camerti, XV, pag. 5, 1993.

[7] Vidoni G., Denuncia o referto? Promemoria al legislatore, in Rivista Italiana di Medicina Legale, XIII, 1991, pag. 489.

[8] Vinci E., Il referto nell’attività sportiva. Considerazioni medico-legali, Difesa Sociale, LXXIV, 1995, pag. 171.

[9] Al riguardo è opportuno precisare che l’obbligo del referto non riguarda esclusivamente i medici, andando ad interessare qualsiasi esercente una professione sanitaria latu sensu, vale a dire veterinari, farmacisti, infermieri, ostetrici, ecc. Poiché a tal proposito l’art. 365 cp. evita opportunamente di entrare nel dettaglio, i destinatari di tale disposto possono essere individuati nell’art. 99 T.U.L.S. (approvato con R.D. 27 luglio 1934, n. 1265).

[10] I delitti di più frequente riscontro statistico nell’esercizio della professione sanitaria per i quali sussiste l’obbligo di referto sono quelli contro la vita e l’incolumità personale, quali ad esempio l’omicidio, l’istigazione o l’aiuto al suicidio, la morte come conseguenza di altro delitto, le lesioni personali gravissime, gravi – che producano malattia di durata superiore a venti giorni – le lesioni colpose gravi o gravissime quando siano conseguenza di violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato malattia professionale).

L’articolo 622 del Codice Penale punisce la rivelazione del segreto professionale[1], e prevede che costituisca violazione della norma penale rendere noti fatti, circostanze, informazioni, notizie la cui diffusione potrebbe creare nocumento alla persona che si è rivolta al professionista in ragione del suo stato, ufficio, arte o professione (giornalista, medico, avvocato, commercialista, assistente sociale[2]).

Dunque, perché il reato si concretizzi, è sufficiente che la violazione del segreto possa comportare un danno o un pregiudizio giuridicamente rilevanti – siano essi morali, materiali, esistenziali – alla persona offesa, ma non è necessario che li “comporti” o li “debba comportare”: è pienamente sufficiente la potenzialità dannosa dell’azione del professionista.

Si evince ancora dalla disposizione che la rivelazione deve avvenire “senza giusta causa”: appare evidente che con tale formula il legislatore penale non intendeva ricomprendere le cause scriminanti generiche previste dagli articoli 50-54 del Codice Penale che, per operare, non necessitano di un esplicito richiamo all’interno della disposizione penale speciale. Siamo in presenza, invece, di un elemento al di sopra delle scriminanti intese in senso stretto, che opera mandando esente da responsabilità penali l’autore della rivelazione quando, effettuato un bilanciamento tra gli interessi in gioco, il professionista rivela il segreto per tutelare un bene di rango superiore[3].

Come conciliare dunque obbligo di denuncia e obbligo al segreto professionale?

Nella mappa delle norme codicistiche l’obbligo di denuncia trova collocazione nel titolo relativo ai delitti contro l’Amministrazione della giustizia, agli articoli 361 e 362 del Codice Penale, e 331 del codice di rito. L’articolo 622 del Codice Penale, inerente il segreto professionale, si colloca invece nel panorama degli articoli riguardanti la tutela della persona e della sua libertà.

La collocazione delle norme nel codice non è casuale, ma frutto di un’attenta analisi dei beni giuridici che le singole disposizioni si propongono di tutelare. Il codice penale predilige gli interessi collettivi a quelli individuali, ed è per questo che nei primi titoli del libro II si trovano elencate le fattispecie delittuose contro lo Stato, la sua Amministrazione, il suo Sistema giudiziario; seguono i delitti contro la persona e quelli contro il patrimonio.

Si può concludere quindi che, seguendo questa logica, per il medico-pubblico ufficiale che abbia avuto notizia di un reato nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, scatti l’obbligo di denuncia in virtù del suo rapporto privilegiato con la pubblica amministrazione, che pone in una posizione di minor rilievo il rapporto personale col paziente, tutelato dall’articolo 622 del Codice Penale.

Ciò detto, quid iuris circa l’obbligo di referto?

Il referto, definito come l’atto mediante il quale ogni esercente una professione sanitaria rende noti all’autorità giudiziaria competente i casi in cui ha prestato la propria assistenza od opera che presentino le caratteristiche di delitti perseguibili d’ufficio, rientra tra le attività doverose che il medico è tenuto a compiere, tanto che, come disciplinato dall’articolo 365 del Codice Penale, l’inadempimento di tale obbligo è penalmente sanzionato[4].

Oggetto del referto sono quei casi che presentano i caratteri del delitto perseguibile d’ufficio: a nulla rileva perciò che l’autore possa essere persona non imputabile, essendo esclusi dall’obbligo soltanto i casi nei quali la procedibilità è condizionata dalla presentazione della querela.

Giunti a questo punto è necessario mettere in evidenza la differenza che intercorre tra il referto e la denuncia, sia dal punto di vista soggettivo, che oggettivo.

Sotto il primo profilo, si osserva che sono tenuti all’obbligo di referto gli esercenti una professione sanitaria, mentre la denuncia è un obbligo riservato ai medici che assumono la qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

Dal punto di vista del contenuto, mentre la denuncia può avere ad oggetto sia i delitti che le contravvenzioni penali, il referto riguarda solo i delitti perseguibili d’ufficio, ed implica un giudizio tecnico di natura prognostica e diagnostica circa la natura del fatto, la cause, i mezzi e le conseguenze di essa (anche sul rischio per la vita)[5].

La denuncia reca invece informazioni sugli elementi del fatto, con indicazioni circa la fonte della notizia, la data di acquisizione della stessa e le generalità delle eventuali persone informate, tralasciando i dati di natura biologica.

L’obbligo di denuncia interessa, come disposto dall’articolo 331 del Codice Penale, tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio durante l’espletamento dello stesso che abbiano avuto notizia di un reato perseguibile d’ufficio; non v’è dubbio che la norma riguardi anche i medici che rivestano – anche temporaneamente – tali qualifiche.

Ai sensi degli articoli 361 e 362 del Codice Penale, mentre per poter stilare una denuncia il pubblico ufficiale deve aver avuto notizia di un reato perseguibile d’ufficio effettivamente realizzatosi, per il referto è invece sufficiente che l’esercente una professione sanitaria – talvolta pubblico ufficiale – abbia prestato la propria assistenza od opera in casi che possano presentare le caratteristiche di un delitto, di nuovo procedibile d’ufficio.

Quindi, con riferimento alla nostra analisi, mentre nel primo caso la normativa prevede che il medico, pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio, debba denunciare solo il reato perseguibile d’ufficio che a lui risulti effettivamente già consumato, nel secondo caso prevede che il medico (in generale), in relazione ad un caso in cui abbia prestato la propria assistenza od opera, riferisca di un “delitto in astratto che potrebbe non appartenere al mondo della realtà”[6].

Appare perciò evidente che uno dei presupposti che la legge richiede per la sussistenza dell’obbligo di referto consiste nella semplice “possibilità” che il fatto costituisca delitto perseguibile d’ufficio.

Si noti la mancanza dell’esimente, per quanto attiene alla denuncia, prevista per il referto all’articolo 365/2° del Codice Penale, laddove è previsto che l’obbligo di referto non scatti quanto il documento esporrebbe la persona assistita a procedimento penale. Quest’altra non trascurabile differenza deriva dal fatto che l’autore del referto è esercente una professione sanitaria, il che impone l’obbligo del rispetto dei doveri deontologici di tutela dell’assistito prima ancora di quelli connessi all’espletamento di funzioni giuridiche, secondo le stesse regole che stanno alla base del segreto professionale.

Va precisato tuttavia che – come è stato da altri rilevato – perché possa operare tale esimente è necessario che “tra referto e sottoposizione della persona a procedimento penale sussista un rapporto di causa/effetto, nel senso che solo a seguito del referto del sanitario il procedimento penale verrebbe aperto”[7]. Ciò significa che tale esonero non sarebbe applicabile nel caso in cui la prestazione sanitaria fosse diretta a persona latitante, colpita da ordinanze di custodia, che debba scontare condanna o che già rivesta la qualifica di imputato in un procedimento penale[8]; in tal caso, infatti, il referto non sarebbe causa di esposizione del paziente a conseguenze processuali ma solo, semmai, occasione per il suo rintraccio[9].

La collocazione dell’articolo 365 all’interno del Codice Penale evidenzia come l’omissione di referto sia delitto contro l’Amministrazione della giustizia, in quanto ostacolo allo svolgimento dell’attività giudiziaria. Si tratta, in particolare, di un reato di pericolo che rende punibile non solo chi omette di redigere un referto ma anche chi non lo faccia pervenire in tempo all’autorità giudiziaria (articolo 334 Codice Penale) o chi non lo rediga in maniera completa o corretta[10].

 

[1] «Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento […]. Il delitto è punibile a querela della persona offesa».

[2] Questi ultimi inseriti tra i titolari di segreto professionale dalla legge n. 88 del 14 aprile 2001 “Disposizioni concernenti l’obbligo del segreto professionale per gli assistenti sociali”.

[3] Potremmo considerare, per esempio, il caso di un medico che riveli la tossicodipendenza per scongiurare il concreto pericolo di vita del paziente.

[4] “Chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’art. 361, è punito […]. Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”.

[5] Così come disposto dall’art. 334/2° cpp.

[6] Palmieri L., Dai segreti alla riservatezza e poi al segreto, Medicina Legale Quaderni Camerti, XV, pag. 5, 1993.

[7] Vidoni G., Denuncia o referto? Promemoria al legislatore, in Rivista Italiana di Medicina Legale, XIII, 1991, pag. 489.

[8] Vinci E., Il referto nell’attività sportiva. Considerazioni medico-legali, Difesa Sociale, LXXIV, 1995, pag. 171.

[9] Al riguardo è opportuno precisare che l’obbligo del referto non riguarda esclusivamente i medici, andando ad interessare qualsiasi esercente una professione sanitaria latu sensu, vale a dire veterinari, farmacisti, infermieri, ostetrici, ecc. Poiché a tal proposito l’art. 365 cp. evita opportunamente di entrare nel dettaglio, i destinatari di tale disposto possono essere individuati nell’art. 99 T.U.L.S. (approvato con R.D. 27 luglio 1934, n. 1265).

[10] I delitti di più frequente riscontro statistico nell’esercizio della professione sanitaria per i quali sussiste l’obbligo di referto sono quelli contro la vita e l’incolumità personale, quali ad esempio l’omicidio, l’istigazione o l’aiuto al suicidio, la morte come conseguenza di altro delitto, le lesioni personali gravissime, gravi – che producano malattia di durata superiore a venti giorni – le lesioni colpose gravi o gravissime quando siano conseguenza di violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato malattia professionale).