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Sull’estensione della responsabilità da reato corruttivo per l’amministratore di fatto

Nelle tematiche sempre più di stretta attualità, soprattutto sul fronte delle applicazioni giurisprudenziali, si pone la figura dell’amministratore di fatto
amministratore di fatto
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Sull’estensione della responsabilità da reato corruttivo per l’amministratore di fatto


Premesse

Nelle tematiche sempre più di stretta attualità, soprattutto sul fronte delle applicazioni giurisprudenziali, si pone la figura dell’amministratore di fatto: frutto dapprima dell’elaborazione giurisprudenziale, ha poi trovato, su impulso della dottrina, la sua disciplina legale con la Riforma dei reati societari del 2002, all’art. 2639 c.c..

È pacifico, ad oggi, che la portata applicativa di tale norma consenta, anche in altri settori del diritto, quali il penale tributario e fallimentare, l’imputabilità diretta di un reato proprio ad un soggetto che abbia esercitato de facto le funzioni del soggetto qualificato, senza ricorrere alla figura del concorso eventuale dell’extraneus nel reato proprio dell’intraneo. Questa, la teoria.

Nonostante la chiarezza del dettato legislativo, infatti, non sono mancati dubbi interpretativi sul tema che la giurisprudenza ha tentato di fugare, non sempre però – lo si anticipa – in maniera pienamente soddisfacente e conforme ai principi costituzionali.


Amministrazione di fatto e art. 2639 c.c.

Figura ormai acquisita nel panorama penalistico e sanzionatorio, ampiamente impiegata in chiave di estensione di responsabilità dei soggetti destinatari del precetto e della sanzione penale, attualmente trova la propria disciplina legale nell’art. 2639 c.c. interamente riformulato con la Riforma dei reati societari del 2002 (d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61).

Si tratta, a onor del vero, di una ratifica che il Legislatore è stato in qualche modo chiamato ad operare, soprattutto su impulso di larga parte della dottrina, la quale lamentava un deficit di tassatività a fronte di un versante giurisprudenziale che già sembrava orientato in un senso, con effetti non irrilevanti sul piano delle scelte di politica criminale: applicabilità, in presenza di reati propri, della più severa delle sanzioni previste dal nostro ordinamento, ai soggetti cd. di fatto.

Due i principali orientamenti interpretativi che si contrapponevano in dottrina.

Il primo, in ossequio ad uno stretto formalismo degli schemi civilistici, non ammetteva la possibilità di equiparare la qualifica formale con chi esercitasse, di fatto (ma privo di investitura), il medesimo ruolo ricoperto da chi risultava essere l’unico soggetto cd. di diritto legittimato a rivestire tale posizione, pena la violazione del divieto di analogia in malam partem.

Il secondo, diametralmente opposto, considerava maggiormente aderente al principio di personalità della responsabilità penale e al costituzionalizzato principio di non colpevolezza – soprattutto nell’ottica di evitare intollerabili forme di responsabilità di posizione – l’estensione della responsabilità penale in capo a chi avesse esercitato in concreto le funzioni tipiche attribuite per legge ad un soggetto formalmente investito della carica sociale (c.d., teoria funzionalistica).

Dunque, una diversità di letture tra chi valorizzava la carica formalmente assunta e chi invece la funzione concretamente esercitata. La giurisprudenza prevalente, peraltro, tanto quella di merito quanto quella di legittimità, aveva sin da subito fatto propria la seconda delle due impostazioni, ossia quella della c.d. teoria funzionalistica.

Come detto, nel 2002 – prima dunque della Riforma del diritto societario, che avverrà un anno dopo (scelta di tecnica legislativa fortemente criticata dalla dottrina) – il Legislatore intervenne settorialmente a modificare la disciplina dei reati societari sostituendo interamente il Titolo XI del codice civile e le disposizioni in allora ivi previste riformulando l’art. 2639, definitivamente accogliendo quello che era ormai diventato l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, che già da tempo applicava il ritrovato dell’amministrazione di fatto.

Attualmente l’art. 2639 c.c. (rubricato “Estensione delle qualifiche soggettive”) recita: “per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.

Dunque, salvo quanto si dirà infra, per poter imputare ad un soggetto la autorìa di fatto in presenza di una fattispecie a soggettività ristretta occorre che sussista un requisito negativo, il difetto di investitura formale, e contemporaneamente due requisiti positivi: uno, di carattere quantitativo-temporale, legato quindi ad un esercizio della funzione continuativo e perdurante nel corso di in un apprezzabile arco di tempo, l’altro, di carattere qualitativo, che presuppone l’aver esercitato nella sua globalità la funzione del legittimato di diritto, riservando a sé una significativa dose di autonomia decisionale.

In definitiva, non una mera ingerenza, sporadica ed occasionale o meramente esecutiva ma bensì una “effettiva, dinamica, riconosciuta e significativa esplicazione dei poteri e delle facoltà” [A. ROSSI, in F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Leggi Complementari, 2018] che tipicamente contraddistinguono – ad esempio – un amministratore, senza venir richiesto (ovviamente) l’esercizio di tutti i poteri propri dell’amministratore di diritto, essendo pur sempre l’amministratore di fatto privo di formale investitura.

Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, ormai costante sul punto, “significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale” [Cass. pen., sez. I, n. 1636/2022].

Nell’accertamento circa l’attribuzione della qualifica di soggetto di fatto la giurisprudenza fa ampio utilizzo dei cc.dd. indici sintomatici della funzione, ossia elementi frutto di elaborazioni fondate sulla sostanza della funzione, sintomatici di una gestione o cogestione della società. Tali indici, tuttavia, dovranno essere dotati di un’attitudine probatoria non meramente indiziaria (come potrebbe essere la mera spendita del nome della società), salvo l’esistenza di indizi gravi precisi e concordanti, ma qualificata, tali da potere essere “inequivocabilmente interpretati nel senso dell’effettiva assunzione, da parte del soggetto, di quella particolare qualifica” [App. Catanzaro, sez. III, n. 83/2022].

Ancora di recente, “la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare” [Cass. pen., sez. I, n. 1636/2022].

Merita accennare, infine, ad un ampio dibattito sviluppatosi all’indomani della Riforma del 2002, che interessa propriamente l’ambito applicativo della norma in esame. Facendo l’art. 2639 c.c. riferimento ai soli reati disciplinati dal Titolo XI (“per i reati previsti dal presente titolo”), ci si è domandati se la previsione in materia di estensione delle qualifiche soggettive si potesse applicare o meno anche in altri settori del diritto penale, quali quelli del penale bancario, penale tributario e penale fallimentare.

A fronte di un primo orientamento in dottrina, più restrittivo, che lamentava la violazione del principio di tassatività nel caso di un’interpretazione estensiva della norma, si è posto un altro orientamento – ormai maggioritario e prevalente – che riconosce nell’art. 2639 c.c. la formalizzazione e la valenza ricognitiva di principi di precedente formazione giurisprudenziale, a carattere generale e ‘di sistema’, immanenti nell’ordinamento penale e che anzi, a detta di alcuni, dovrebbero trovare la loro naturale sede di elezione nella Parte generale del Codice penale. Lapidaria sul punto la giurisprudenza di legittimità secondo cui l’art. 2639 c.c. avrebbe codificato “un principio di carattere generale applicabile ad altri settori penali dell’ordinamento e che, per la sua natura interpretativa, è suscettibile di applicazione anche per fatti pregressi” [Cass. pen., 28 aprile 2011, n. 23425].

Un solo esempio, forse il meno intuitivo, di applicazione dell’estensione di cui alla norma de qua lo si ritrova nella normativa in materia di responsabilità degli enti da reato (D.Lgs. 231/2001), all’art. 5, dedicato, come noto, all’individuazione delle categorie di soggetti capaci di commettere i reati presupposto dell’illecito dell’ente.

Qui, infatti, anche se non espressamente riconosciuto dall’art. 5 D.Lgs. cit. in questi termini, sono da ritenere soggetti ‘apicali’ anche coloro che esercitano di fatto, in via continuativa e significativa, una o più delle funzioni esercitate dai soggetti ‘apicali’ di diritto. Mediante tale lettura sistematica dell’art. 2639, comma 1, c.c. con le funzioni indicate dall’art. 5, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 231 diviene più agevole circoscrivere, soprattutto in chiave garantistica, i requisiti mediante i quali un soggetto privo di investitura formale possa essere qualificato come ‘apicale’ di fatto, come tale in grado di impegnare – sia sul lato fisiologico che su quello patologico – l’ente.


Estensione imputazione per reati corruttivi

Uno dei reati-presupposto, tra i tanti, che si potrebbe immaginare è quello di cui all’art. 321 c.p. il quale estende le pene previste per i diversi reati di corruzione anche al corruttore, ossia al privato che “dà o promette al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio denaro o altra utilità” (si tratta dell’ipotesi della c.d., corruzione attiva). Ebbene, in questa fattispecie ben potrebbe accadere che il privato – gestore di fatto di una società – corrompa un pubblico funzionario al fine di ottenere, ad esempio, un appalto, una fornitura, una deliberazione favorevole o comunque una qualche utilità nell’interesse o a vantaggio dell’ente amministrato de facto. È pacifico, dunque, che in un caso simile l’amministratore di fatto della società sarà ritenuto punibile ai sensi dell’art. 321 c.p. insieme – trattandosi di reato a concorso necessario – con il funzionario corrotto se ha esercitato significativamente e continuativamente le funzioni dell’amministratore di diritto ovvero, come previsto dall’art. 5, comma 1, lett. a) D.Lgs. 231 cit. se ha esercitato, di fatto, la gestione e il controllo dell’ente.

In questi termini si pone un’interessante pronuncia del Tribunale di Vicenza del 27.5.2021, n. 229 la quale, nel caso esaminato, ha evidenziato come “la promessa e successiva concreta dazione di somme di denaro e rifornimenti gratuiti di carburante presso l’impianto aziendale fatta dall’ex amministratore unico di un’impresa edile, divenuto gestore di fatto della medesima società, in favore dell’istruttore tecnico dell’ufficio tecnico del Comune, dal quale ha poi ottenuto l’incarico di lavori pubblici, integra, in capo ad entrambi i soggetti menzionati, la responsabilità per il reato di corruzione con conseguente applicabilità, nei confronti dell’ex amministratore unico di quanto statuito ex art. 321 c.p.”.


Amministratore di fatto o concorso dell’extraneus nel reato proprio dell’intraneus?

Tematica di notevole interesse e rilievo pratico, già presente prima dell’introduzione dell’art. 2639 c.c. e, giocoforza, riaccesa con la sua introduzione, concerne l’annosa questione circa i casi di configurabilità in capo al soggetto agente privo di qualifica formale del ruolo di amministratore di fatto piuttosto che quello di concorrente (eventuale) con l’amministratore di diritto nelle forme, ormai note, del concorso dell’estraneo nel reato proprio dell’intraneo ex art. 110 c.p., negando quindi la sussistenza di un’autorìa di fatto in capo al primo.

È noto come la possibilità di attribuire ad un soggetto privo ex ante della qualifica formale richiesta dalla fattispecie per essere qualificato come soggetto attivo può avvenire, e così avviene in giurisprudenza, o estendendo la soggettività del reato proprio a chi di fatto ha esercitato le funzioni del soggetto di diritto oppure configurando una fattispecie di concorso eventuale nel reato proprio.

Tale doppia possibile configurazione, tuttavia, non è priva di conseguenze, essendo la scelta dell’una o dell’altra tutt’altro che equivalente, soprattutto, come si vedrà alla fine di questo paragrafo, in termini di accertamento probatorio, con il conseguente rischio di un possibile indebito e automatico scivolamento nell’una categoria o nell’altra a seconda di quale tra le due risulti più facile da dimostrare, con evidente violazione del diritto di difesa.

Come detto nel paragrafo che precede, l’estensione della qualifica del soggetto di diritto al soggetto di fatto consente di ritenere quest’ultimo non già un mero concorrente esterno bensì l’autore o il co-autore del/nel reato proprio in quanto anch’egli destinatario diretto del precetto.

Nei reati fallimentari, ad esempio, un’interpretazione estensiva della nozione di imprenditore è ammessa per applicare il reato di bancarotta anche alle due figure dell’amministratore di fatto e dell’amministratore occulto. Sulla prima figura si è già detto; la seconda, invece, si manifesta nei casi in cui a fronte di amministratori regolarmente nominati e insediati (meri “prestanome” o “teste di paglia”) si nascondano, grazie alla ‘copertura’ formale dei primi, amministratori che “di fatto, dirigono la società senza esporsi di fronte a terzi, eludendo, pertanto, ciò che è necessario ai fini dell’imputazione dell’attività di impresa ossia la spendita del nome del soggetto che svolge la citata attività” [M. TARZIA, Il concorso dell’amministratore di fatto e dell’extraneus nel reato di bancarotta patrimoniale, alla luce della nozione di identità del fatto, in Sistema Penale, 2/2020].

Dalla natura di reati propri dei delitti in materia fallimentare si è quindi dovuto adottare una nozione estensiva e non formale di imprenditore, pena il rischio di lasciare impunite numerose condotte, talvolta assai perniciose, in tutti quei casi in cui non sarebbe possibile addebitare nemmeno l’ipotesi concorsuale per mancanza degli elementi costitutivi.

Chiara sul punto la giurisprudenza, secondo cui “in materia di reati fallimentari il soggetto che, ai sensi della disciplina dettata dall’art. 2639 c.c. assume la qualifica di amministratore di fatto della società fallita è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore di ‘diritto’, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili (come i fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale), tra i quali vanno ricomprese le condotte dell’amministratore di diritto, anche nel caso di colpevole inerzia a fronte di tali condotte, in applicazione della regola di cui all’art. 40 c.p., comma 2” [Cass. pen., sez. V, n. 6199/2015].

Ad una simile evoluzione si assiste nella materia penal tributaria la quale anch’essa è costituita da fattispecie (spesso omissive) a soggettività ristretta e, in talune, del dolo specifico di evasione. Sebbene, anche qui come sopra, la normativa fiscale predetermini chi debba essere il contribuente, soggetto passivo del tributo, è ormai pacifica nella giurisprudenza l’estensione soggettiva di tali fattispecie anche all’amministratore di fatto.

In tal senso, “del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, quale mero prestanome – come si vedrà nel §3 – è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento, a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice” [Cass. pen., sez. II, n. 8632/2020].

Più spinosa e dibattuta la questione circa l’ascrivibilità ad un soggetto non qualificato (extraneus) del reato proprio commesso dall’intraneo, secondo il paradigma del concorso eventuale nel reato ex art. 110 c.p. [per un approfondimento sul punto si veda F. MUCCIARELLI, L’extraneus nei reati di bancarotta tra amministratore di fatto e concorrente, in Sistema Penale, aprile 2022].

Tale ipotesi può frequentemente manifestarsi nei casi in cui soggetti terzi si siano ingeriti nella società solo nel compimento di determinati atti, con carenza di autonomia decisionale e continuatività e significatività di esercizio funzionale.

Per poter correttamente imputare tali atti all’extraneus dovranno sussistere rigorosamente i requisiti tipici della fattispecie concorsuale: i) l’accordo criminoso, elemento indefettibile per affermare la responsabilità concorsuale; ii) un concreto, “dinamico” e riconoscibile apporto concorsuale (morale o materiale) dell’estraneo alla produzione, in concorso con l’autore qualificato – nei casi di reati fallimentari, il fallito (imprenditore o soggetti ad esso equiparato) – dell’evento mediante una condotta significativa e causalmente apprezzabile (di esigenza di identificare “lo specifico contributo concorsuale apportato parla Cass. pen., sez. I, n. 1636/2022); iii) l’elemento soggettivo, tanto nella forma del dolo del fatto quanto del dolo c.d., di concorso, che deve sorreggere la condotta del terzo estraneo il quale deve essere aver agito con la consapevolezza e volontà di aiutare il soggetto qualificato. In particolare, con riferimento a quest’ultimo punto occorrerà dimostrare che l’extraneus abbia agito “con la consapevolezza di determinare un depauperamento del patrimonio sociale ai danni del creditore, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società poiché l’evento del reato non è rappresentato dal fallimento bensì dalla lesione dell’interesse patrimoniale della massa” [M. TARZIA, Il concorso dell’amministratore di fatto e dell’extraneus, cit.].

Elemento altrettanto essenziale che deve rientrare nella sfera di rappresentazione dell’estraneo è costituito dalla qualifica di intraneo del soggetto concorrente, dal momento che i reati di cui si sta discorrendo – come detto – sono a soggettività ristretta.

All’inizio di questo paragrafo si è fatto cenno ad un possibile ’cortocircuito’, di carattere prettamente processuale, cui si assiste tutte le volte in cui la figura dell’amministrazione di fatto ex art. 2639 c.c. ovvero quella del concorso dell’extraneus ex art. 110 c.p., probabilmente sulla scorta di ritenute difficoltà in ordine alla prova dell’una o dell’altra, vengano applicate indistintamente nel medesimo giudizio (nei suoi diversi gradi) mediante l’escamotage tecnico della riqualificazione automatica della condotta, che il più delle volte consiste nel passare dalla contestazione dell’amministrazione di fatto a quella del concorso dell’estraneo nel reato proprio dell’intraneo.

Brevemente. La questione che giace al fondo è se una nuova contestazione di tal fatta consista nel “dare al fatto una definizione giuridica diversa” ai sensi dell’art. 521 c.p.p. o se invece consista nel contestare due fatti diversi ai sensi dell’art. 516 c.p.p. [per maggiori approfondimenti si veda M. TARZIA, Il concorso dell’amministratore di fatto e dell’extraneus, cit.].

Come noto, la soluzione del quesito dipende largamente dalla nozione di fatto cui si intende accedere, oltre che dalla attenta comprensione della ratio di fondo della disciplina in materia di nuove contestazioni.

Fatto, inteso in termini di corrispondenza storico-naturalistica con la struttura del reato, che per dirsi identico deve mantenere immutati i suoi elementi costitutivi (condotta, evento ed elemento psicologico).

Inteso in questi termini, secondo la giurisprudenza, tale operazione di riqualificazione non comporterebbe un mutamento del fatto: “la condanna di un soggetto quale concorrente esterno in un reato di bancarotta fraudolenta anziché quale amministratore di fatto, qualora rimanga immutata l’azione distrattiva ascritta, non comporta immutazione dell’addebito: invero non si versa in due diverse ipotesi criminose, ma distinte modalità di partecipazione criminosa” [Cass. pen. sez. V, n. 13595/2003].

Analizzando, però, la ratio che innerva il Capo IV del Libro Settimo del codice di rito, dedicato alle nuove contestazioni, si scorge l’esigenza che la modificazione dell’imputazione, ammessa di principio, non pregiudichi il diritto di difesa dell’imputato.

Ritenere di poter ascrivere indifferentemente ad un soggetto amministratore di fatto – come detto, possibile destinatario diretto del precetto e della sanzione penale, indipendentemente dal trattamento del soggetto formalmente investito della carica – il paradigma del concorso eventuale dell’extraneus nel reato proprio dell’intraneo – che richiede, come visto, la sussistenza di un accordo criminoso, di un contributo causale rilevante, del dolo nella partecipazione al reato e della consapevolezza di concorrere con il soggetto qualificato – appare un’operazione del tutto priva di giustificazione e in violazione delle regole di standard probatorio richieste per emettere una pronuncia di condanna al di là di ogni ragionevole dubbio.

Come osserva attenta dottrina, infatti, “gli elementi di prova ritenuti insufficienti per radicare la qualità di amministratore di fatto in capo all’estraneo non possono essere utilizzati come prova presuntiva della sua responsabilità a titolo di concorso esterno nel reato proprio del fallito” [M. TARZIA, Il concorso dell’amministratore di fatto e dell’extraneus, cit.].


Quale destino per l’amministratore di diritto?

Merita soffermarsi rapidamente sulla sorte dell’amministratore asseritamente di diritto, titolare di una qualifica meramente formale all’interno della compagine sociale, tutte le volte in cui tale formale investitura sia utilizzata come paravento da altri soggetti (es. il caso del c.d., amministratore occulto, di cui si è detto) per l’esercizio, in concreto ma senza la spendita del nome, della gestione societaria. Si tratta delle classiche ipotesi di soggetti “prestanome” o “teste di legno”.

In tali ipotesi la giurisprudenza riconosce in capo a quest’ultimi - pur sempre amministratori di diritto – una posizione di garanzia (art. 40 cpv c.p.), derivante dalla qualifica formale ricoperta la quale, ai sensi dell’art. 2392 c.c., impone loro un dovere di vigilanza e di impedimento di fatti pregiudizievoli, se a loro conoscenza, o di eliminazione o attenuazione delle conseguenze dannose derivanti da essi.

In virtù di tale ricostruzione si è soliti addebitare ai ‘prestanome’, a titolo di concorso (omesso controllo e impedimento dell’evento), il reato commesso dai soggetti di fatto, accontentandosi ai fini dell’accertamento di una loro colpevolezza di una presunta “generica consapevolezza” in capo ai primi delle condotte depauperative dei secondi, sulla scorta della considerazione che avendo accettato di ricoprire la carica sociale “non potevano non sapere”, rilevando sotto il profilo subiettivola sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale)” [Cass. pen., sez. V, n. 2137/2001].

Inutile dire che una simile impostazione, come sostenuto da un’acuta dottrina penal-comparatistica (Licci), cela dietro di sé tutta la fallacia tipica dell’utilizzo del modello ‘mentitore’ del dolo eventuale: come osservato da tempo, mediante tale modello si produce nient’altro che una normativizzazione dell’imputazione dolosa, poiché “maschera quella che a conti fatti non è altro che una mera violazione di obblighi  di diligenza, finendo dunque, nella maggior parte dei casi coll’imputare all’agente, seppur a titolo di concorso, la responsabilità colposa per un illecito doloso” [G. SODANO, La responsabilità dei “soggetti di fatto” nell’ambito dei reati fallimentari: spunti di riflessione, in Giurisprudenza Penale Web, 11/2017].


Conclusioni

Dalle considerazioni sin qui svolte si evince come, seppur a fronte di una disciplina legale apparentemente chiara e inequivoca, il dibattito intorno alla configurazione delle ipotesi di amministratore di fatto sia tutt’altro che condiviso ed unanime nella giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità. Si tratta, come si è cercato di tratteggiare qui brevemente, di una tematica assai rilevante per determinati settori del diritto penale (penale fallimentare e tributario in primis) e di frequente applicazione nelle aule di giustizia la quale, tuttavia, proprio per questo, non può prescindere dal rispetto del dettato costituzionale e dalle norme del Codice di rito a tutela del diritto di difesa dell’imputato.