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Sull’illegittimità dell’occupazione appropriativa secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Nota a Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza 9 febbraio 2006 nella causa Prenna ed altri contro Italia
L’occupazione appropriativa (o acquisitiva) di aree private per la realizzazione di opere pubbliche viola sempre e comunque l’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Così ha stabilito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza pubblicata il 09.02.06 nella causa n. 69907/01 “Prenna e altri c. Italia”.

IL FATTO. Con decreto del 28.06.88, il Sindaco di Macerata, in esecuzione della deliberazione del Consiglio Provinciale di Macerata n. 9 del 12.02.88, disponeva l’occupazione d’urgenza di alcuni appezzamenti di terreno in una zona residenziale del Comune stesso al fine di realizzare un complesso scolastico polivalente.

Decorsi circa quattro anni dall’occupazione d’urgenza, senza che fosse emanato il relativo decreto di espropriazione, le aree occupate subivano la loro definitiva ed irreversibile trasformazione conseguente alla realizzazione del suddetto complesso scolastico.

A quel punto, poiché alcuna indennità era stata pagata né offerta, i proprietari delle aree citavano in giudizio la Provincia di Macerata affinché venisse determinata, preso atto ormai dell’ultimazione dell’opera pubblica programmata, l’indennità dovuta commisurata al reale valore di mercato del bene sottratto in via di fatto. La causa è ancora pendente. Tuttavia, nell’aprile/2001, i proprietari ricorrevano anche alla Corte di Strasburgo per lamentare la violazione dell’ art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo in relazione alla fattispecie di occupazione appropriativa della quale gli stessi erano stati vittime.

IL PROTOCOLLO. Il citato Protocollo alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952, all’art. 1 recita:

“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

IL QUADRO NORMATIVO. L’istituto dell’occupazione appropriativa, o accessione invertita, si basa in buona sostanza su due precise condizioni: a) l’esistenza originaria di una dichiarazione di pubblica utilità; b) l’irreversibile trasformazione del bene occupato a prescindere dall’emanazione o meno del decreto di espropriazione.

Tale istituto, com’è noto, è frutto delle elaborazioni giurisprudenziali via via succedutesi nel corso di lungi anni con oscillanti indirizzi. Con la famosa sentenza n. 1464/83, le Sezioni Unite della Cassazione affermarono infine che in tali casi l’edificazione sul fondo di un’opera pubblica, che importi una trasformazione radicale ed irreversibile dei caratteri e della destinazione propria del fondo, determina l’acquisto a titolo originario della proprietà del suolo occupato, secondo i principi tipici dell’accessione. Venne così creato un nuovo modello di acquisto della proprietà da parte della Pubblica Amministrazione, la cosiddetta occupazione appropriativa o accessione invertita, perché opera in senso inverso a quello della comune accessione disciplinata dal codice civile (articoli 934-938). Infatti, mentre la regola generale dell’accessione è quidquid inaedificatur solo cedit - tutto ciò che è costruito sul fondo accede ad esso restando acquisito a titolo originario al proprietario del fondo - nell’accessione invertita, relativamente alle opere pubbliche, trova applicazione la regola inversa, in base alla quale è il fondo che accede all’opera, diventando di proprietà della P.A. che l’ha realizzata.

Tale indirizzo dei Giudici Nazionali, dopo aver conosciuto diverse oscillazioni interpretative, è stato, poi, confermato da altre pronunce (Cassazione, Sezioni unite n. 3740/88 e n. 418/89) ed ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte costituzionale, con le pronunce n. 188/95 e n. 24/00, divenendo così “diritto vivente”.

Su questo impianto si soffermava l’attenzione della Corte di Strasburgo con due isolate pronunce entrambe del 30.05.2000 (controversie Belvedere Alberghiera Srl contro Italia, e Carbonara-Ventura contro Italia). Con esse, in particolare con la prima, veniva avanzata una forte critica all’istituto dell’accessione invertita (o occupazione appropriativa) sul presupposto che in tali casi la compressione del diritto di proprietà era fondata su regole non sufficientemente chiare, precise e prevedibili né conformi al diritto internazionale come, invece, imposto dall’art. 1 del Protocollo.

In realtà, l’intervento della Corte Europea risultava utile al fine di far poi introdurre nel nostro ordinamento la norma di cui all’art. 43 del Dpr n. 327/2001, che ha istituito la figura del provvedimento amministrativo acquisitivo: "valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni".

Con tale norma, quindi, sembrava essere stata posta una pietra tombale sopra l’istituto dell’occupazione appropriativa. Essa appare, infatti, come una norma di chiusura, tesa ad affermare un ovvio principio di legalità: un bene immobile, quand’anche modificato per pubblica utilità, può essere acquisito da una Pubblica Amministrazione, pur in assenza di un titolo valido o efficace, solo dopo una congrua valutazione dei diversi interessi in gioco e solo con un provvedimento formale. L’occupazione del suolo e la sua pur irreversibile trasformazione è un fatto e tale rimane, senza alcuna possibilità di assurgere ad elemento determinante per l’acquisto della proprietà. L’intento del legislatore, dunque, è stato quello di eliminare qualsiasi automatismo traslativo conseguente all’attività di trasformazione.

Tale norma, tuttavia, non è risultata sufficiente per la Corte di Cassazione che, infatti, con le successive pronunce delle Sezioni Unite n. 5902/2003 e, in particolare, n. 6853/2003, ha continuato a riconoscere l’accessione invertita (o occupazione appropriativa), affermando che "la disciplina dell’occupazione appropriativa risulta ormai basata su regole sufficientemente chiare, precise e prevedibili, ancorate a norme giuridiche, che hanno superato positivamente il vaglio di costituzionalità e hanno recepito, confermandoli principi enucleati dalla giurisprudenza, che può definirsi costante".

Il disorientamento appare, poi, in tutta la sua evidenza laddove si consideri la Giurisprudenza che, nello stesso tempo, è stata prodotta dal Consiglio di Stato in apparente contrasto con la Corte di Cassazione. In particolare, da ultimo, va segnalata l’Adunanza plenaria con la sentenza n. 2/2005 che, però, come vedremo, lascia ancora spazio ad alcuni dubbi.

Infatti, qui interessa rilevare come l’Adunanza Plenaria, dopo aver preso atto dell’intervenuta norma di cui all’art. 43 del DPR n. 327/01, affronta il cuore del problema, relativo alla residua sussistenza dell’accessione invertita a fronte del nuovo istituto del provvedimento acquisitivo. A tal riguardo, la posizione dell’Adunanza non appare

sufficientemente chiara.

Da un lato, l’Adunanza è pienamente coerente con le tesi della Corte europea, affermando che "non costituisce impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata il fatto della realizzazione dell’opera pubblica; e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione appropriativa o usurpativa - di acquisizione del terreno, dovendo anzi ritenersi che, in tale ottica, la stessa distinzione tra occupazione appropriativa e usurpativa non assume più rilevanza".

Dall’altro, però, l’Adunanza non si spinge mai sino ad affermare con chiarezza che l’accessione invertita (quella fondata su di una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un valido provvedimento di occupazione) non ha più cittadinanza nel nostro ordinamento. Addirittura, in alcune parti della sentenza, appare evidente che si riferisca alla sola occupazione usurpativa quale figura venuta meno:"Ne consegue - ad avviso di questa Adunanza plenaria - che, in caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell’opera pubblica, l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento per evitare la restituzione dell’area è l’emanazione di un (legittimo) provvedimento di acquisizione ex articolo 43, in assenza del quale l’amministrazione non può addurre l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e quindi come impedimento alla restituzione: la realizzazione dell’opera pubblica è un fatto, e tale resta; la perdita della proprietà da parte del privato e l’acquisto in capo all’amministrazione possono conseguire unicamente all’emanazione di un provvedimento formale, nel rispetto del principio di legalità e di preminenza del diritto".

Del resto, nella fattispecie esaminata dall’Adunanza, la dichiarazione di pubblica utilità era stata annullata. Ma cosa avrebbe affermato l’Adunanza se la dichiarazione non fosse stata annullata ?

Tale decisiva domanda è rimasta, purtroppo, senza risposta ed è per tale motivo che risulta di particolare rilievo la pronuncia della Corte di Strasburgo pubblicata il 09.02.06 qui in commento (Requête n. 69907/01).

La stessa, infatti, si riferisce ad una fattispecie priva di qualsivoglia elemento che possa farla assimilare all’acquisizione usurpativa: legittima dichiarazione di pubblica utilità, legittimo provvedimento di occupazione, realizzazione dell’opera pubblica ed irreversibile trasformazione del fondo in vigenza di tale provvedimento.

Sotto tale profilo, la sentenza della Corte Europea qui in commento fa un ulteriore passo avanti rispetto alle pronunce del 30.05.2000 nelle controversie “Belvedere Alberghiera Srl contro Italia” e “Carbonara-Ventura contro Italia”, ma anche rispetto alla più recente sentenza del maggio/2005 nella causa “Mason e altri contro Italia” (quest’ultima, in realtà, pur affermando anch’essa la violazione dell’art. 1 del Protocollo, esamina una fattispecie che nulla ha a che vedere con l’accessione invertita riferendosi, invece, ad un caso di cessione volontaria del fondo nell’ambito di una procedura espropriativa.

Infatti, la fattispecie presa in esame dalla Corte con la sentenza del 09.02.06 è priva di qualsivoglia elemento che possa farla assimilare all’acquisizione usurpativa: c’era una legittima dichiarazione di pubblica utilità, c’era un legittimo provvedimento di occupazione, la realizzazione dell’opera pubblica e l’irreversibile trasformazione del fondo è avvenuta in vigenza di tale provvedimento. Il caso “di scuola” dell’occupazione appropriativa (o acquisitiva).

La rilevanza della pronuncia della Corte sta proprio nell’aver fatto chiarezza anche con riguardo alle titubanze della sentenza sopra richiamata n. 2/2005 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che (pur molto avanzata rispetto alle pronunce della Corte di Cassazione), in alcuni suoi passaggi sembra, invece, continuare a far riferimento solo all’occupazione usurpativa (cioè quella senza titolo o titolo dichiarato illegittimo). Afferma, infatti, l’Adunanza Plenaria che "…………in caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell’opera pubblica, l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento per evitare la restituzione dell’area è l’emanazione di un (legittimo) provvedimento di acquisizione ex articolo 43, in assenza del quale l’amministrazione non può addurre l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e quindi come impedimento alla restituzione: la realizzazione dell’opera pubblica è un fatto, e tale resta; la perdita della proprietà da parte del privato e l’acquisto in capo all’amministrazione possono conseguire unicamente all’emanazione di un provvedimento formale, nel rispetto del principio di legalità e di preminenza del diritto".

La rilevanza della sentenza della Corte di Strasburgo, che peraltro, richiama espressamente la sentenza n. 2/2005 dell’Adunanza Plenaria, sta nel fatto che si riferisce proprio ad un caso classico di occupazione appropriativa (o acquisitiva) ed in relazione ad esso afferma che la violazione dell’art. 1 c’è sempre, anche quando c’è la legittima dichiarazione di pubblica utilità, il legittimo provvedimento di occupazione, e la realizzazione dell’opera pubblica e l’irreversibile trasformazione del fondo è avvenuta in vigenza di tale legittimo provvedimento.

Ora non resta che sperare che anche la Corte di Cassazione riveda il suo orientamento.

L’occupazione appropriativa (o acquisitiva) di aree private per la realizzazione di opere pubbliche viola sempre e comunque l’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Così ha stabilito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza pubblicata il 09.02.06 nella causa n. 69907/01 “Prenna e altri c. Italia”.

IL FATTO. Con decreto del 28.06.88, il Sindaco di Macerata, in esecuzione della deliberazione del Consiglio Provinciale di Macerata n. 9 del 12.02.88, disponeva l’occupazione d’urgenza di alcuni appezzamenti di terreno in una zona residenziale del Comune stesso al fine di realizzare un complesso scolastico polivalente.

Decorsi circa quattro anni dall’occupazione d’urgenza, senza che fosse emanato il relativo decreto di espropriazione, le aree occupate subivano la loro definitiva ed irreversibile trasformazione conseguente alla realizzazione del suddetto complesso scolastico.

A quel punto, poiché alcuna indennità era stata pagata né offerta, i proprietari delle aree citavano in giudizio la Provincia di Macerata affinché venisse determinata, preso atto ormai dell’ultimazione dell’opera pubblica programmata, l’indennità dovuta commisurata al reale valore di mercato del bene sottratto in via di fatto. La causa è ancora pendente. Tuttavia, nell’aprile/2001, i proprietari ricorrevano anche alla Corte di Strasburgo per lamentare la violazione dell’ art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo in relazione alla fattispecie di occupazione appropriativa della quale gli stessi erano stati vittime.

IL PROTOCOLLO. Il citato Protocollo alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952, all’art. 1 recita:

“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

IL QUADRO NORMATIVO. L’istituto dell’occupazione appropriativa, o accessione invertita, si basa in buona sostanza su due precise condizioni: a) l’esistenza originaria di una dichiarazione di pubblica utilità; b) l’irreversibile trasformazione del bene occupato a prescindere dall’emanazione o meno del decreto di espropriazione.

Tale istituto, com’è noto, è frutto delle elaborazioni giurisprudenziali via via succedutesi nel corso di lungi anni con oscillanti indirizzi. Con la famosa sentenza n. 1464/83, le Sezioni Unite della Cassazione affermarono infine che in tali casi l’edificazione sul fondo di un’opera pubblica, che importi una trasformazione radicale ed irreversibile dei caratteri e della destinazione propria del fondo, determina l’acquisto a titolo originario della proprietà del suolo occupato, secondo i principi tipici dell’accessione. Venne così creato un nuovo modello di acquisto della proprietà da parte della Pubblica Amministrazione, la cosiddetta occupazione appropriativa o accessione invertita, perché opera in senso inverso a quello della comune accessione disciplinata dal codice civile (articoli 934-938). Infatti, mentre la regola generale dell’accessione è quidquid inaedificatur solo cedit - tutto ciò che è costruito sul fondo accede ad esso restando acquisito a titolo originario al proprietario del fondo - nell’accessione invertita, relativamente alle opere pubbliche, trova applicazione la regola inversa, in base alla quale è il fondo che accede all’opera, diventando di proprietà della P.A. che l’ha realizzata.

Tale indirizzo dei Giudici Nazionali, dopo aver conosciuto diverse oscillazioni interpretative, è stato, poi, confermato da altre pronunce (Cassazione, Sezioni unite n. 3740/88 e n. 418/89) ed ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte costituzionale, con le pronunce n. 188/95 e n. 24/00, divenendo così “diritto vivente”.

Su questo impianto si soffermava l’attenzione della Corte di Strasburgo con due isolate pronunce entrambe del 30.05.2000 (controversie Belvedere Alberghiera Srl contro Italia, e Carbonara-Ventura contro Italia). Con esse, in particolare con la prima, veniva avanzata una forte critica all’istituto dell’accessione invertita (o occupazione appropriativa) sul presupposto che in tali casi la compressione del diritto di proprietà era fondata su regole non sufficientemente chiare, precise e prevedibili né conformi al diritto internazionale come, invece, imposto dall’art. 1 del Protocollo.

In realtà, l’intervento della Corte Europea risultava utile al fine di far poi introdurre nel nostro ordinamento la norma di cui all’art. 43 del Dpr n. 327/2001, che ha istituito la figura del provvedimento amministrativo acquisitivo: "valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni".

Con tale norma, quindi, sembrava essere stata posta una pietra tombale sopra l’istituto dell’occupazione appropriativa. Essa appare, infatti, come una norma di chiusura, tesa ad affermare un ovvio principio di legalità: un bene immobile, quand’anche modificato per pubblica utilità, può essere acquisito da una Pubblica Amministrazione, pur in assenza di un titolo valido o efficace, solo dopo una congrua valutazione dei diversi interessi in gioco e solo con un provvedimento formale. L’occupazione del suolo e la sua pur irreversibile trasformazione è un fatto e tale rimane, senza alcuna possibilità di assurgere ad elemento determinante per l’acquisto della proprietà. L’intento del legislatore, dunque, è stato quello di eliminare qualsiasi automatismo traslativo conseguente all’attività di trasformazione.

Tale norma, tuttavia, non è risultata sufficiente per la Corte di Cassazione che, infatti, con le successive pronunce delle Sezioni Unite n. 5902/2003 e, in particolare, n. 6853/2003, ha continuato a riconoscere l’accessione invertita (o occupazione appropriativa), affermando che "la disciplina dell’occupazione appropriativa risulta ormai basata su regole sufficientemente chiare, precise e prevedibili, ancorate a norme giuridiche, che hanno superato positivamente il vaglio di costituzionalità e hanno recepito, confermandoli principi enucleati dalla giurisprudenza, che può definirsi costante".

Il disorientamento appare, poi, in tutta la sua evidenza laddove si consideri la Giurisprudenza che, nello stesso tempo, è stata prodotta dal Consiglio di Stato in apparente contrasto con la Corte di Cassazione. In particolare, da ultimo, va segnalata l’Adunanza plenaria con la sentenza n. 2/2005 che, però, come vedremo, lascia ancora spazio ad alcuni dubbi.

Infatti, qui interessa rilevare come l’Adunanza Plenaria, dopo aver preso atto dell’intervenuta norma di cui all’art. 43 del DPR n. 327/01, affronta il cuore del problema, relativo alla residua sussistenza dell’accessione invertita a fronte del nuovo istituto del provvedimento acquisitivo. A tal riguardo, la posizione dell’Adunanza non appare

sufficientemente chiara.

Da un lato, l’Adunanza è pienamente coerente con le tesi della Corte europea, affermando che "non costituisce impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata il fatto della realizzazione dell’opera pubblica; e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione appropriativa o usurpativa - di acquisizione del terreno, dovendo anzi ritenersi che, in tale ottica, la stessa distinzione tra occupazione appropriativa e usurpativa non assume più rilevanza".

Dall’altro, però, l’Adunanza non si spinge mai sino ad affermare con chiarezza che l’accessione invertita (quella fondata su di una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un valido provvedimento di occupazione) non ha più cittadinanza nel nostro ordinamento. Addirittura, in alcune parti della sentenza, appare evidente che si riferisca alla sola occupazione usurpativa quale figura venuta meno:"Ne consegue - ad avviso di questa Adunanza plenaria - che, in caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell’opera pubblica, l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento per evitare la restituzione dell’area è l’emanazione di un (legittimo) provvedimento di acquisizione ex articolo 43, in assenza del quale l’amministrazione non può addurre l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e quindi come impedimento alla restituzione: la realizzazione dell’opera pubblica è un fatto, e tale resta; la perdita della proprietà da parte del privato e l’acquisto in capo all’amministrazione possono conseguire unicamente all’emanazione di un provvedimento formale, nel rispetto del principio di legalità e di preminenza del diritto".

Del resto, nella fattispecie esaminata dall’Adunanza, la dichiarazione di pubblica utilità era stata annullata. Ma cosa avrebbe affermato l’Adunanza se la dichiarazione non fosse stata annullata ?

Tale decisiva domanda è rimasta, purtroppo, senza risposta ed è per tale motivo che risulta di particolare rilievo la pronuncia della Corte di Strasburgo pubblicata il 09.02.06 qui in commento (Requête n. 69907/01).

La stessa, infatti, si riferisce ad una fattispecie priva di qualsivoglia elemento che possa farla assimilare all’acquisizione usurpativa: legittima dichiarazione di pubblica utilità, legittimo provvedimento di occupazione, realizzazione dell’opera pubblica ed irreversibile trasformazione del fondo in vigenza di tale provvedimento.

Sotto tale profilo, la sentenza della Corte Europea qui in commento fa un ulteriore passo avanti rispetto alle pronunce del 30.05.2000 nelle controversie “Belvedere Alberghiera Srl contro Italia” e “Carbonara-Ventura contro Italia”, ma anche rispetto alla più recente sentenza del maggio/2005 nella causa “Mason e altri contro Italia” (quest’ultima, in realtà, pur affermando anch’essa la violazione dell’art. 1 del Protocollo, esamina una fattispecie che nulla ha a che vedere con l’accessione invertita riferendosi, invece, ad un caso di cessione volontaria del fondo nell’ambito di una procedura espropriativa.

Infatti, la fattispecie presa in esame dalla Corte con la sentenza del 09.02.06 è priva di qualsivoglia elemento che possa farla assimilare all’acquisizione usurpativa: c’era una legittima dichiarazione di pubblica utilità, c’era un legittimo provvedimento di occupazione, la realizzazione dell’opera pubblica e l’irreversibile trasformazione del fondo è avvenuta in vigenza di tale provvedimento. Il caso “di scuola” dell’occupazione appropriativa (o acquisitiva).

La rilevanza della pronuncia della Corte sta proprio nell’aver fatto chiarezza anche con riguardo alle titubanze della sentenza sopra richiamata n. 2/2005 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che (pur molto avanzata rispetto alle pronunce della Corte di Cassazione), in alcuni suoi passaggi sembra, invece, continuare a far riferimento solo all’occupazione usurpativa (cioè quella senza titolo o titolo dichiarato illegittimo). Afferma, infatti, l’Adunanza Plenaria che "…………in caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell’opera pubblica, l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento per evitare la restituzione dell’area è l’emanazione di un (legittimo) provvedimento di acquisizione ex articolo 43, in assenza del quale l’amministrazione non può addurre l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e quindi come impedimento alla restituzione: la realizzazione dell’opera pubblica è un fatto, e tale resta; la perdita della proprietà da parte del privato e l’acquisto in capo all’amministrazione possono conseguire unicamente all’emanazione di un provvedimento formale, nel rispetto del principio di legalità e di preminenza del diritto".

La rilevanza della sentenza della Corte di Strasburgo, che peraltro, richiama espressamente la sentenza n. 2/2005 dell’Adunanza Plenaria, sta nel fatto che si riferisce proprio ad un caso classico di occupazione appropriativa (o acquisitiva) ed in relazione ad esso afferma che la violazione dell’art. 1 c’è sempre, anche quando c’è la legittima dichiarazione di pubblica utilità, il legittimo provvedimento di occupazione, e la realizzazione dell’opera pubblica e l’irreversibile trasformazione del fondo è avvenuta in vigenza di tale legittimo provvedimento.

Ora non resta che sperare che anche la Corte di Cassazione riveda il suo orientamento.