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Tessitori di pace: Gandhi e Mandela

Mandela e Gandhi
Mandela e Gandhi

Forse nel mondo l’uomo, mai sazio, ha sempre sparso violenza.

Eppure ci sono state persone uniche che si sono battute per la pace, che hanno dimostrato che si potrebbe vivere tutti meglio se…

Ragiono fra me e me qui ad Ahmedabad, nello Stato indiano del Gujarat, dove è nato il Mahatma, che la gente chiama con rispetto Gandhiji.

Non fu facile per lui, induista, creare questo ashram (Sabarmati) dove persone di tutte le caste venivano accolte. Anche sua moglie Kasturba, di casta brahmana come lui, dovette piegarsi alla regola che tutti i partecipanti erano uguali e, di conseguenza, tutti a turno dovevano pulire le latrine. Questo, nel sistema affermato delle caste, significava una contaminazione inaccettabile.

Si batté per l’indipendenza nazionale (swaraj) organizzando una famosa marcia per andare sulla costa a raccogliere sale, invece che acquistarlo dal monopolio inglese. Così pure, sostenne la produzione di tessuto a livello familiare tramite arcolai per non dipendere dall’importazione di manufatti industriali dalla potenza occupante.

Dopo la sua morte il Paese subì la divisione ed il sistema delle caste, sebbene proibito dalla Costituzione, rimase di fatto in vigore. Queste furono le sue sconfitte, ma il suo esempio rimane un faro per l’umanità.

Sono stato in altri luoghi del mondo alla ricerca di persone che avessero dato un apporto significativo all’idea della fratellanza tra gli uomini. Senza accorgermene, la mia mente inizia a vagare lontano da qui e ripercorre ricordi.

Prima che persone uniche quali Mandela e Tutu disinnescassero quella bomba sociale, il Sudafrica era conosciuto come il regime dell’apartheid, la segregazione razziale. Loro diedero vita ad un’epoca di speranza e di cambiamenti, che tuttavia non riuscì a sradicare la perdurante corruzione. Per questo qualche anno orsono mi sono recato in quel Paese, per visitare a Soweto la casa di Mandela, chiamato Madiba, e Robben Island, il carcere di massima sicurezza dove per anni fu tenuto prigioniero (“Non ci riconoscevano come esseri umani”, mi disse un ex detenuto politico che faceva la guida in quel luogo).

Avevo poi cercato di capire la realtà delle township, i sobborghi baraccopoli nei quali si concentrava la manodopera nera che di giorno si recava in città ad offrire il proprio lavoro a basso costo. Anche lì avevo scorto una evoluzione. Ad esempio, la township di Knysna era stata suddivisa in settori, nei quali era progressivamente in corso la sostituzione delle baracche con casette in muratura dotate di acqua ed energia elettrica. L’assegnazione avveniva a titolo gratuito ed il ritmo preventivato di tale operazione era di una baracca al giorno. Inoltre, la nuova casetta veniva localizzata esattamente dove prima c’era la baracca, quindi senza danneggiare il tessuto delle relazioni umane.

Era stato in quel contesto che avevo conosciuto Ella. Lei, sulla cinquantina, proveniva da una famiglia distrutta dall’alcol e non aveva potuto studiare. Il suo viso denunciava al contempo una esistenza dura ed una ferma volontà di riscatto per tutti. Mi aveva fatto da guida nella township e me ne aveva descritto le caratteristiche, inclusi i problemi. Le avevo chiesto se avesse figli e la risposta era stata “Ventiquattro”, specificando poi che due erano suoi e gli altri adottati. Li manteneva con quello che percepiva facendo da guida ai visitatori.

Con i figli era al contempo affettuosa e severa. La sua era una lotta quotidiana affinché imparassero a sviluppare un progetto di vita.

Nella sua casa, rannicchiata su una sedia, in posizione fetale con la testa fra le gambe, c’era una bimba. Ella mi aveva spiegato che era l’ultima arrivata e che aveva qualcosa ad una gamba, forse risolvibile con una operazione. La piccola, tuttavia, appariva traumatizzata psicologicamente da qualcosa che aveva subito e quello era il problema maggiore. Ella le aveva messo fra le mani un tamburo ed aveva iniziato a cantare dolcemente una canzone di Myriam Makeba. La sua voce era calda e coinvolgente e la musica era riuscita ad operare un effetto terapeutico. Lentamente la bambina si era rilassata ed aveva iniziato a seguire il ritmo. Se avessi avuto un cappello in testa me lo sarei tolto con rispetto e ammirazione.

Adesso, terminato il viaggio attraverso il filo dei ricordi, la mente mi riporta a Gandhi. La sua statua in bronzo brilla nel prato davanti a me, ma ancor più brilla il suo insegnamento.

Ricordo che un giorno mi è capitato di chiedermi cosa restasse di lui e del suo messaggio universale e senza tempo basato su principi quali la ahimsa (non violenza). Una persona mi aveva risposto: “Non chiederti cosa resta di lui nel mondo, ma cosa resta di lui nel tuo cuore”.