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Trump, censura e libertà di espressione

Il problema di regolare i c.d. big tech
TRUMP
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Abstract

La recente decisione di tutte le più grandi piattaforme online di social-networking di censurare quello che è, o forse era, uno degli uomini più importanti nel panorama politico internazionale, Donald Trump, ha posto nuovamente in risalto interrogativi a cui da tempo i governi nazionali e le stesse big companies, che gestiscono tali servizi, tentano di fornire risposte.

I fatti di Capitol Hill, con l’assedio dei sostenitori di Donald Trump al cuore della democrazia americana, hanno infatti posto i c.d. Big Tech di fronte alla non facile scelta di oscurare tutti i profili dell’oramai ex presidente degli USA.

Quanto accaduto evidenzia con forza e chiarezza quanto gli stati nazionali siano del tutto inermi di fronte alla potenza di compagnie private, le quali si posizionano come veri e propri enti sovranazionali, avendo queste il potere di decidere ed intervenire in luogo del potere statale in maniera transnazionale, influenzando la stessa vita politica, un tempo prerogativa degli organi istituzionali.

Lo scrivente, consapevole che i summenzionati fatti aprono scenari di discussione vastissimi e non certamente risolvibili in questa sede, tenterà comunque nel presente articolo di fornire un focus al lettore sui recenti fatti, di aprire interrogativi e ricercare, infine, eventuali soluzioni nell’ambito che ivi interessa, quello giuridico.

 

Indice:

1. Intro

2. L’esempio europeo

3. L’esempio americano

4. L’esempio italiano

5. Soluzioni giuridiche

6. Conclusioni

 

1. Intro

La recente decisione dei c.d. Big Tech di oscurare i profili del grande magnate made in USA è solamente il culmine di un problema tutt’ora irrisolto.

Emerge in questi giorni in maniera imperante quanto oramai le grandi compagnie della Silicon Valley, e non solo, siano dei veri e propri enti sovranazionali e, come tali, intervengono anche in sostituzione del potere statale, il quale rimane del tutto inerme di fronte alla tempestività di intervento con cui tali Big Companies sono in grado di operare, non solo per la intrinseca lentezza burocratica che contraddistingue gli stati moderni, ma anche e soprattutto per via di un vuoto legislativo che costringe i governi a delegare a Google o Facebook decisioni importanti come il ban di un ex presidente USA dal mondo politico virtuale.

Già in passato Twitter aveva adottato, quale politica interna di lotta alle fake news, la decisione di mettere mano con delle note, ma non già eliminare, rectius “bannare”, i c.d. tweet dell’ex presidente Donald Trump.

Con la scelta in commento, i post pubblicati dall’ex presidente non venivano del tutto eliminati dal social network, ma apparivano al lettore accompagnati da una nota che ne evidenziava la natura controversa e che rimandava ad altri post ritenuti più attendibili.

Va da sé che un simile approccio ha sollevato non poche polemiche, come è normale che sia quando si parla di fake news.

Il problema infatti risiede tutto alla radice, non potendosi agevolmente stabilire con certezza assoluta la verità o falsità di un fatto, tanto meno quando si discute in ordine ad ambiti complessi e vasti come quello politico, storico, economico o sociale.

Quanto detto risulta ancora più complesso se si considera che a dover vigilare sulla veridicità dei fatti postati sulla rete è una commistione fra controlli algoritmici, creati ad hoc dalle compagnie in commento, e controlli umani.

Atta la complessità del problema, i social si sono sempre tenuti a distanza, fatta eccezione per Twitter nei suddetti termini, da eventuali censure, soprattutto in relazione a grandi personaggi politici, in parte per motivi economici – i social guadagnano sul traffico di dati che generano e pertanto censurare è una mossa contraria ai loro interessi – in parte per l’obiettiva difficoltà di giudicare su siffatte questioni e in parte per evitare un’assunzione di responsabilità su argomenti sì delicati.

Tuttavia, i recenti fatti intervenuti presso il Campidoglio statunitense hanno offerto ai Big Tech un fortissimo precedente, tale da giustificare un intervento forte come quello di un completo oscuramento della figura di Donald Trump nel mondo di internet.

A tal proposito può essere utile ripercorrere come l’Unione Europea, gli USA e, in ultimo, anche il nostro Paese si sono approcciati a temi come la libertà di espressione nel mondo digitale e come le rispettive corti si siano eventualmente espresse.

 

2. L’esempio europeo

In ambito CEDU, gli esempi giurisprudenziali migliori attingono ad esperienze passate dalle quali è possibile trarre delle conclusioni applicabili in via analogica alle realtà delle Internet Platform.

La carta fondamentale riconosce il diritto di libera espressione e informazione nell’articolo 10 della Carta dei Diritti Fondamentali, ai sensi del quale, sintetizzando, ognuno ha diritto di esprimersi liberamente, senza che alcun governo possa in ciò limitarlo. Tuttavia, l’esercizio del diritto può ben essere limitato, dal momento che comporta dei doveri e responsabilità, da talune restrizioni e condizioni previste per legge.

La domanda che sorge dunque spontanea è: fino a che punto la libertà di espressione deve essere tutelata da eventuali censure, in relazione a notizie false, sovversive o pericolose per l’incolumità pubblica?

Secondo la CEDU, con la sentenza Salov v. Ucraina del 2005 l’articolo 10 “does not prohibit discussion or dissemination of information received even if it is strongly suspected that this information might not be truthful.”

A tal proposito però lo stesso Parlamento Europeo, in particolare grazie al lavoro della Commissione responsabile della tutela dei consumatori, nonché della regolamentazione del mercato digitale, ha altresì affermato in un valido Framework sulle fake news del 2018 che, la libertà di espressione così come intesa all’articolo 10 della Carta dei Diritti Fondamentali e come espressa nell’estratto della sentenza citata, può essere più agevolmente limitata nei confronti di quei soggetti che rivestono un ruolo istituzionale o di pubblica informazione, quali sono politici o giornalisti, in virtù dell’importante ruolo che costoro rivestono nel dibattito pubblico e nel buon funzionamento della democrazia.

Posta in questi termini, la questione, può far ben pensare che, eventi come quelli accaduti sul suolo americano, avrebbero agevolmente portato le corti europee ad assecondare le scelte dei Big Tech di oscurare i profili dell’ex Presidente statunitense, dal momento che questo riveste un ruolo della massima importanza istituzionale e politica e, in quanto tale, non può favoreggiare, più o meno esplicitamente, volontà violente e sovversive.

Ciò detto, l’atteggiamento in ambito UE rimane piuttosto cauto e le strade che si intendono percorrere tendono a guardare alla censura come extrema ratio preferendo percorsi di sensibilizzazione sociale, nonché lo sviluppo di tecnologie che siano in grado, con l’ausilio di operatori umani, di identificare notizie false e potenzialmente dannose per il buon funzionamento democratico.

 

3. L’esempio americano

Su suolo americano la dottrina e giurisprudenza è alla ricerca in maniera altrettanto vivace di categorie giuridiche, o meglio, precedenti giurisprudenziali idonei a far fronte ai problemi relativi alle fake news e alla censura.

L’approccio americano da sempre è molto più a favore di una libertà incontrastata, anche in ambiente social, rispetto a quanto accade in Europa, preferendo i primi lasciare che siano i privati, sia nel mondo reale che su quello virtuale, ad autoregolamentarsi.

Norma sacra alla base della vita dell’Internet americano è indubbiamente il Communication Decency Act del 1996, il quale ha di fatto foraggiato l’anarco-liberismo virtuale prevedendo in particolare alla sezione 230 c. 1 che “no provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider”.

La norma dunque consente alle piattaforme digitali di de-responsabilizzarsi completamente, civilmente e penalmente, per i contenuti che vengono su questa caricati da soggetti terzi, limitandosi e dovendosi limitare queste ad offrire servizi neutri che garantiscano agli utenti di scambiarsi pensieri, opinioni ed informazioni.

Una siffatta norma ha inevitabilmente creato nel tempo un acceso dibattito giurisprudenziale atto a limitare la portata potenzialmente infinita del principio di de-responsabilizzazione delle Internet Platform.

Il modello puro di democrazia aperta sì caro agli americani, pertanto, ha sempre garantito la libertà anche per le espressioni più odiose, mantenendo quale limite solo il concretizzarsi di un pericolo contra legem, come si afferma in un vecchio caso giurisprudenziale del 1969, Brandenburg v. Ohio, 395 U.S. 444 (1969), secondo il quale speech that supports law-breaking or violence in general is protected by the First Amendment unless it directly encourages people to take an unlawful action immediately.”

Il caso portato qui ad esempio calza alla perfezione quanto accaduto nei fatti di Capitol Hill, ed è possibile ipotizzare che, se adita, la Corte Suprema statunitense potrebbe ben riesumare simile precedente per confermare la censura intercorsa nei confronti del Tycoon.

O ancora, nel ricordare che il Communication Decency Act nasce anche con l’intento di garantire una certa decenza nei contenuti online, la United States Court of Appeals, seventh Circuit, nella pronuncia del 2008 Chicago Lawyers Comm. for Civil Rights v. Craigslist, statuì che la portata del 230, c.1, non può non trovare un limite, dovendo le piattaforme online comunque vigilare, almeno parzialmente, per limitare la circolazione delle oscenità sul web.

Insomma, anche in territorio americano il dibattito, seppur su presupposti normativi differenti, ruota attorno ad un saggio bilanciamento fra piena ed incontrastata libertà di espressione, tramite la de-responsabilizzazione delle piattaforme, e la contestuale necessità di impedire che il mondo virtuale diventi un foro dominato da anarchie e contenuti o indecenti o potenzialmente dannosi.

Ripercorsa, seppur sommariamente, la linea giurisprudenziale americana è ipotizzabile che, qualora la Suprema statunitense venisse adita, potrebbe confermare la censura intercorsa nei confronti del Tycoon, alla luce dei risvolti pratici che quei post hanno avuto nella realtà.

 

4. L’esempio italiano

Un fatto in parte simile a quanto accaduto oltreoceano, è quanto avvenuto nel settembre 2019, allorquando Facebook sceglieva di rimuovere diversi profili di gruppi ed individui legati agli ambienti di estrema destra, in particolare Casapound e Forza Nuova.

La decisione interveniva in seguito alle numerose segnalazioni degli utenti alle summenzionate pagine online, al che il social di punta di Zuckerberg sceglieva di rimuovere i profili dei due partiti in quanto “le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram”.

Simone Di Stefano, segretario di CasaPound, definiva la decisione come “un abuso, commesso da una multinazionale privata in spregio alla legge italiana. Uno sputo in faccia alla democrazia”.

Casapound decideva quindi di impugnare la decisione del colosso social affermando che quanto accaduto fosse un’evidente censura e conseguente limitazione della libertà di espressione di una fazione politica.

Nel dicembre dello stesso anno il Tribunale Civile di Roma accoglieva le doglianze lamentate avanzate dal partito, ordinando la riattivazione dei profili eliminati, asserendo che “il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento” e sostenendo, altresì, che in qualità di soggetto che ricopre una posizione “particolare”, Facebook deve necessariamente rispettare una serie di principi costituzionali ed ordinamentali nel rapportarsi con gli utenti che usufruiscono del suo servizio.

Di esito opposto il ricorso promosso da Forza Nuova, il quale veniva invece respinto, diversamente da quanto accaduto per Casapound. La sentenza, sempre del Tribunale di Roma, interpretava la vicenda in maniera differente sostenendo che eccepire la violazione dell’articolo 21 non era una motivazione di per sé sufficiente ad ottenere la riattivazione delle pagine social, in quanto le attività online del partito risultavano fortemente in contrasto con l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Entrambe le pronunce, insomma, argomentano le loro scelte in ordine ai principi più alti dell’ordinamento, come è usuale accadere quando ci si muove in territori del diritto inesplorati, laddove non è possibile rinvenire norme specifiche e dettagliate che, per l’appunto, in tale ambito risultano del tutto assenti.

Pertanto, entrambe le decisioni adottate dal Tribunale di Roma risultano coerenti, essendo l’esito differente frutto di una diversa valutazione di bilanciamento fra principi costituzionalmente garantiti.

 

5. Soluzioni giuridiche

Giunti a questo punto si spera che il lettore abbia acquisito sufficienti elementi e spunti per avere un quadro più o meno chiaro sulle problematiche che caratterizzano un siffatto tema, così da poter meglio apprezzare le soluzioni giuridiche che si tenterà di fornire nel prosieguo.

Torna utile, a tal proposito, riprendere quanto asserito dalla sentenza del Tribunale di Roma nell’accogliere il ricorso di Casapound. Questa risulta particolarmente interessante perché, per la prima volta, un tribunale ha ravvisato la necessità di considerare Facebook – o social ad esso collegati – non come meri enti privati con cui gli individui stipulano contratti in situazione di parità, ma si riconosce il disvalore tra le parti.

A titolo esemplificativo può essere utile il paragone che segue. Le stesse banche, pur essendo nate come semplici enti privati, hanno assunto nella realtà, ed oggi è un fatto ampiamente accettato se non lapalissiano, un ruolo sì rilevante da costringere il Legislatore ad ammettere che le categorie giuridiche del semplice diritto privato non fossero più idonee per normare il rapporto tra ente bancario e privato. Pertanto, si ha avuto la necessità di legiferare un testo unico ad hoc (TUB) per rendere sussumibile in nuove categorie giuridiche la realtà bancaria.

A parere di chi scrive, il precedente storico poc’anzi riportato può essere un valido esempio da cui prendere spunto per regolamentare queste nuove realtà createsi nel corso degli ultimi 15 anni, ossia creare un testo unico ad hoc che regoli i rapporti tra utenti e social-network.

La soluzione, più facile a dirsi che a farsi, incontra tuttavia non poche criticità.

Simili enti sono infatti realtà sovranazionali che, come tali, risulta difficile normare tramite una legiferazione di respiro nazionale. I social sono entità globali, che hanno fondato la propria fortuna sul collegare individui provenienti da ogni parte del pianeta, il tutto regolamentato da una semplice policy interna.

Ciò detto, risulta quindi assai poco immaginabile che il Legislatore nostrano sia in grado di imporsi sui Big Tech e di persuaderli ad accettare una normativa efficace solamente sul suolo nazionale. Simile soluzione risulta di difficile applicazione, non solo per la difficoltà di rendere obbligatoria una legge per un ente che, di fatto, si regge su servizi utilizzabili ovunque e in qualsiasi momento – con l’evidente perplessità di dover stabilire come e quando far valere la normativa eventualmente creata e nei confronti di chi – ma anche perché tali enti non sono frazionabili in realtà statali.

Non è una strada percorribile, come auspicato da qualcuno, in ultimo dalla Turchia, la quale da tempo esercita forti pressioni sui social di Zuckerberg, per far sì che quest’ultimo crei un ente interno made in Turchia che segua regole imposte dalle istituzioni di Ankara.

La c.d. “balcanizzazione” dei social, insomma, non pare una soluzione plausibile se si considera che questi sono necessariamente enti di respiro mondiale e, a maggior ragione, se si considera lo scarso potere che una nazione singola, come l’Italia, può esercitare su simili corporazioni.

Tuttavia, siffatte criticità risultano in qualche modo arginabili se, ad esercitare pressioni sui Big Tech intervengono istituzioni più ampie e forti, che, in sede contrattuale, abbiano un certo potere da affermare. È quanto accaduto recentemente nei rapporti tra UE e Facebook.

L’Unione Europea ha sempre mantenuto un atteggiamento di rigore in ordine al trattamento dei dati personali, motivo per cui era questione di tempo prima che una delle commissioni nazionali garanti della privacy, in questo caso quella irlandese, ordinassero lo stop al trasferimento dei dati degli utenti europei in server dislocati negli Stati Uniti.

L’unica soluzione auspicabile, dunque, affinché Zuckerberg possa mantenere le proprie attività in Europa, è che crei dei server sottoposti al controllo dell’Unione in cui trasferire tutti i dati degli utenti europei che, in tal modo, sarebbero sottratti all’esercizio statunitense.

Simil fatto rende evidente che la summenzionata “balcanizzazione” dei social sia in realtà una soluzione non del tutto utopica se, a porre condizioni su un tavolo di discussione, sono enti più ampi e forti, qual è l’Unione Europea, rispetto al singolo stato nazionale.

Infine, c’è chi auspica la creazione di un soggetto terzo ed imparziale che sia in grado di decidere in ordine a tutte le questioni legate ai Big Tech.

Anche simile soluzione, apprezzabile, appare non scevra di difficoltà applicative.

Innanzitutto, atta la natura globale dei social nei suesposti termini, non è chiaro l’ambito di competenza in cui un ipotetico organo terzo giudicante dovrebbe operare, se debba essere una sorta di tribunale a competenza territoriale globale, ovvero nazionale od europea.

In secondo luogo, è difficile immaginare come un organo giudicante creato ad hoc possa smaltire tutto l’immenso carico di lavoro che presumibilmente giungerebbe presso i suoi uffici.

A tal proposito interessante è la scelta del colosso Facebook di creare una speciale Corte Suprema della piattaforma, la quale si esprimerà a breve proprio sullo stesso caso che ha investito Donald Trump.

Siffatta Corte, rectius commissione di sorveglianza esterna, pur essendo nata su impulso e per volontà di Facebook stessa è composta da quaranta membri provenienti da tutto il mondo, investiti della carica con mandato triennale, i quali hanno il compito di assumere decisioni vincolanti su quali contenuti possano e debbano essere rimossi da Facebook e Instagram.

Dal punto di vista giuridico simile esperimento risulta interessantissimo e ancor più interessante sarà vedere come un organo, di costituzione privata, sceglierà di muoversi nel mondo giuridico e quali fattispecie e categorie giuridiche sceglierà di fare proprie.

È la prima volta che un ente privato si dota di un proprio tribunale autonomo e dotato di caratteristiche che cerchino di conferirne imparzialità e ci si chiede se un simile organo, di origine privata si ricorda, possa divenire in futuro non solo un esempio per esperimenti simili, vista l’impossibilità degli stati nazionali di soddisfare simili esigenze, ma anche un nuovo centro di fonte normativa.

La commissione di vigilanza voluta da Zuckerberg, infatti, non è assimilabile alla figura a noi già nota del semplice arbitrato, differenziandosi da questo non solo per i tre gradi di giudizio previsti, ma anche perché a giudicare della questione non vi è un arbitro nominato dalle parti, bensì un vero e proprio collegio formato da 40 esperti in vari ambiti professionali.

Inoltre, se in genere dal lodo arbitrale sono esclusi la trattazione dei diritti fondamentali, simile comitato invece tratterà soprattutto temi quali la libertà di espressione, in relazione, presumibilmente, ad altri diritti altrettanto rilevanti in ordine ai quali sarà interessante vedere quali soluzioni di bilanciamento e compromesso adotterà.

Insomma, si è di fronte ad un vero e proprio sistema giudiziario di natura privatistica che mostra ancor più gravemente come le compagnie private stiano lentamente spodestando gli stati nazionali in ambiti una volta esclusivi nei termini più profondi, come quello giudiziario.

 

6. Conclusioni

Qualunque sia la strada che si sceglierà di percorrere urge ed è evidente che delle soluzioni debbano essere adottate al più presto.

I fatti di Capito Hill non possono lasciare le istituzioni di tutto il mondo inermi di fronte all’evidenza che tali Big Companies hanno assunto un potere oramai eccessivamente sproporzionato che, per la tutela di tutti, deve necessariamente essere regolamentato.

Al di là di considerazioni di carattere politico il ban di Donald Trump è un atto su cui ogni governo deve avere l’ultima parola. I governi e i parlamenti, quale espressione della volontà popolare, gli stati, quale espressione dell’unione di una comunità territoriale, devono necessariamente porsi come garanti dei diritti individuali, i quali non possono essere lasciati alla libera disposizione di compagnie private.

Così come è pacifico che nessun ente privato può sottoporre alcuno a misure coercitive, previo consenso di un’autorità, qualunque essa sia, parimenti nessuno dovrebbe disporre del potere di eliminare dal mondo virtuale un soggetto senza che via sia una normativa ad hoc che disponga una casistica di intervento in tal senso, ovvero un’autorità pubblica che lo ordini, a maggior ragione se costui è un soggetto che riveste un ruolo istituzionale.

Tutte le soluzioni sopra auspicate, pertanto, per quanto difficilmente realizzabili, necessitano di analisi approfondite che possano individuare profili di applicabilità percorribili, così che a decidere della vita virtuale di un utente non sia solo la policy di un singolo ente, ma anche un organo terzo ed imparziale che giudichi sulla base di un testo unico plasmato ad hoc per limitare l’arbitrarietà di cui le potenze digitali ad oggi godono.