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Trump o Biden: l’essenzialità della verità sul voto per il riconoscimento internazionale in chiave geopolitica

elezoni Usa
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Democrazia equivale a significare libertà?

È una domanda che nasconde non poche insidie sia in termini filosofici che giuridici.

Nel caso delle elezioni Usa 2020 la contesa tra i due concetti si fa più intensa che mai e questa è la premessa di un ragionamento che cerca una lettura geopolitica dei due elementi.

Alla prima domanda, pertanto, ne segue un’altra.

È importante sapere chi sia effettivamente il candidato Presidente che, in base alle regole del paese statunitense, risulterà democraticamente suffragato nei singoli Stati affinché ne siano attribuiti (sempre per singolo Stato) i c.d. “grandi elettori”?

Il paragone che sorge spontaneo potrebbe essere, per certi versi, quello con il falsus procurator del sistema giuridico italiano.

Attenzione, però, ad una differenza che occorre precisare chiaramente: in Italia tale figura è disciplinata dal Codice Civile (tra l’altro, quest’ultimo, di periodo pre-repubblicano sicché, per deduzione, nato in epoca anteriore allo Stato democratico) il ché non sta a significare che medesimo inquadramento giuridico vi sia negli Stati Uniti (in cui esiste, risaputamente, un sistema di common law il quale diverge dai sistemi di civil law).

Questa nettezza si traduce oggettivamente, quantomeno sul piano giuridico prima che geopolitico, nel comprendere come sia essenziale chi effettivamente, tra Trump e Biden, risulti il candidato votato con le regole democraticamente date ed in vigore negli Usa.

È una questione di portata delicatissima: a seconda dell’elezione di uno o dell’altro gli effetti di geopolitica implicherebbero, per gli Stati del mondo che con gli Usa si interfacciano (e non solo), un diverso approccio in campo energetico, commerciale, diplomatico, monetario e via discorrendo.

Qui si innesta, quindi, la radice più importante dell’analisi: quanto l’effettività di un voto, delineandosi alla pubblica opinione come democratico, sia espressione di libertà di scelta del popolo statunitense.

A oggi i fatti raccontano che Trump chiede la verifica e la conta esatta dei voti prima di accettarsi sconfitto o meno; Biden, invece, ha già avviato la c.d. “transition” sino a gennaio 2021 ritenendo valido il risultato della tornata elettorale appena conclusa.

Sulla scorta di questa evoluzione dei fatti ne deriva che risulta necessario ed essenziale che, proprio in ragione delle regole democraticamente vigenti nel sistema statunitense, vi sia chiarezza elettorale.

Ne va della credibilità della più grande democrazia al mondo.

Ne va della credibilità di Biden e della forza maggiore che potrebbe esprimere sul piano politico.

Ne va, altrettanto, della credibilità di Trump sia in ipotesi di confermata sconfitta che di ribaltamento del risultato determinato in prima battuta.

Immaginiamo per un attimo l’ipotesi in cui Trump non avesse dichiarato di volere avviare la procedura di riconteggio, così accettando la sconfitta elettorale, sul presupposto che il voto derivatone dalla tornata di inizio novembre scorso si palesasse attendibile da subito.

Ecco, ragionando per ipotesi, l’effetto di quanto appena descritto sarebbe vedere Biden quale Presidente senza alcuna contestazione: il gioco democratico (si ribadisce, determinato da regole in quel dato sistema ordinamentale) avrebbe dato, così facendo, il via alla certezza elettiva del quarantaseiesimo Uomo “più potente al mondo”.

Il pregiudizio in termini di rappresentanza politica a cui avrebbe contribuito Trump (colpevolmente od incolpevolmente) sarebbe stato ben peggiore rispetto a quanto, oggi, sta avvenendo; ciò, soprattutto, laddove si scoprisse che, a esito di riconteggio, Biden non avrebbe effettivamente la maggioranza dei c.d. grandi elettori per diventare prossimo Presidente Usa.

Perciò democrazia non equivale per forza di cose a libertà se le regole che disciplinano un sistema non si rendono vive nell’affrontare un determinato problema con metodo di riconoscimento.

È un diritto, quindi, il riconteggio dei voti per Trump così come è un atto di democrazia per Biden ritenersi il futuro quarantaseiesimo Presidente Usa (sino a conferma del voto appena effettuato dal popolo statunitense).

Avere certezza del voto, pur essendo la democrazia un processo lungo, faticoso, costoso, è essenziale affinché anche gli altri paesi del globo possano correttamente interagire con il paese statunitense.

Diversamente entrerebbe in crisi uno dei pilastri dei processi internazionali che punta al consolidamento dei rapporti di geopolitica: per l’appunto il reciproco riconoscimento.   

Principio di riconoscimento che, proprio come una carta d’identità, è strumentale acchè ci si possa palesare all’esterno nonché a rendere attendibili le informazioni, i lineamenti, la struttura, lo stato occupazionale, ecc. di un determinato soggetto.

Cosa succederebbe, però, se la carta d’identità degli Usa non fosse esattamente corrispondente al vero dato elettoralmente determinato?

Eppure il voto di inizio novembre 2020 è non altro che l’esito di un processo democratico in cui si è stabilito che i voti per posta valgono tanto quanto quelli in presenza.

Il ruolo delle verità diventa imprescindibile a questo punto a meno che, a prescindere dalla Costituzione Americana, l’establishment non abbia decretato comunque la fine di Trump.

Anche questa è democrazia qualcuno potrebbe dire, ma non è certo libertà perché questa è effettiva solo se si rendono effettivi i diritti e si riconoscono le regole del gioco.

A prescindere quindi dalla vittoria di Trump o meno, la forza di una democrazia si pesa dal come essa stessa riesce a mettersi continuamente in discussione con la certezza del diritto.

Certezza, quest’ultima, che si può volere solo con coraggio (di tutti).

Perché se il coraggio rimane prerogativa solo di pochi, alla fine, si rimane solo democratici senza avere dentro alcun vero anticorpo per evitare che lo stress sistemico favorisca l’implosione lasciando spazio ai famosi “ismi”.

Uno dei mali peggiori della democrazia è, appunto, il democraticismo: ostentazione fanatica che porta solo alla negazione dello stesso principio da cui deriva.

Per questo è necessario che si faccia chiarezza sul voto americano: finché non ci sarà riconoscimento come le norme prescrivono, la democrazia non sarà mai volta alla libertà effettiva e all’uguaglianza.

Vi fidereste di un paese che non ammette il suo auto-controllo e, quindi, la trasparenza del suo stesso andamento dall’esterno e per l’esterno? 

Investireste in un rapporto (sia esso diplomatico, commerciale, ecc.) con qualcuno non attendibile per come si dichiara o mostra?

La linea sottile che congiunge principi fondamentali, valori e sviluppo complessivo dell’Umanità tra diversi continenti sta proprio nella reciproca legittimazione ad interloquire.

Biden potrebbe giurare a gennaio 2021 quale prossimo Presidente degli Usa democraticamente eletto, ma non potrà dirsi liberamente riconosciuto finché non si saranno espletate tutte le dinamiche del processo di legittimazione.

E su questo punto gli Usa dovranno fare i conti così come dovrebbe farli l’Europa e, in particolare, l’Italia.

Perché la democrazia dei falsus procurator è una insidia enorme (a Morotea memoria); tanto grande quanto perdere l’identità e non poterla più recuperare.

Dollaro isn’t it?