x

x

Un caso per il "Commissario LEX"

Vi è mai capitato?

Non mi riferisco a quei giovani comici di una nota trasmissione televisiva, peraltro gradevole e divertente. Voglio parlarvi invece di un episodio i cui personaggi e fatti non sono frutto di fantasia ma sono del tutto reali, anche se in vero, tutto appare così confuso e paradossale.

Il caso lo ritengo interessante, per la dottrina o anche per la semplice curiosità degli amanti del diritto o della infinita conoscenza, che possono trovare spunti di riflessione per prendere coscienza che il buon senso pare non appartenga più a questo mondo e che l’uso strumentale del diritto è foriero di tempeste.

I personaggi di questa storia in ordine di apparizione sono:

- un datore di lavoro

- un lavoratore “infedele”.

Questi, rappresentati e difesi dalle norme poste a tutela del patrimonio il primo; il secondo, dall’eccellentissimo statuto dei lavoratori, in congiunta con la legge sulla privacy.

Ecco il racconto in breve.

Un signor datore di lavoro di un‘azienda con più di quindici dipendenti viene a conoscenza, suo malgrado, che dalla chiusura casse con cadenza mensile vi sono degli ammanchi importanti.

In prime cure non è in grado di poter individuare e quindi indicare l’autore del maltolto.

Nutre qualche sospetto su qualche dipendente infedele che ha accesso alla cassaforte, il quale deposita importi inferiori rispetto a quelli effettivamente incassati e contabilizzati e gli indizi non sono sufficienti ad adottare o contestare addebiti di qualsivoglia natura, ancor meno dal punto di vista disciplinare.

Dopo aver constatato che questa condotta furtiva aveva portato un ammanco dalle casse dell’azienda pari a 20milaeuro, il datore di lavoro esasperato cerca di ricorrere ai ripari.

Installa all’occorrenza una telecamera con sistema di videoregistrazione, focalizzandola utilmente sulla cassaforte.

In ragione di tale installazione, per evitare di incorrere in qualche legittima contestazione sull’uso improprio degli strumenti di controllo a distanza, comunica ai dipendenti che nell’area che interessa la cassaforte esiste una telecamera.

A tal riguardo appone un cartello, a suo dire, nel rispetto della privacy.

La scelta di installare quella telecamera porta alla identificazione del reo, il quale, ancorché non limpidamente visibile nel video, viene comunque individuato.

In effetti questo avviene in quanto il lavoratore interessato, tra gli altri, addetto alla contabilità, era il solo ad essere affetto da una importante ed evidente calvizia.

A tal punto, questi messo alle strette e innanzi alle proprie responsabilità dal datore di lavoro, legittimamente contrariato, il lavoratore “infedele”, forse anche per evitare una denuncia per furto, decide “motu proprio” di dimettersi.

Dopo qualche tempo quel lavoratore “infedele”, non pago di quanto aveva commesso inizia un percorso giudiziale per sostenere che, nonostante la sua illecita condotta, il suo datore di lavoro non poteva utilizzare la telecamera per riprenderlo durante lo svolgimento della sua attività lavorativa, violando a suo dire lo statuto dei lavoratori e la legge sulla privacy. Il datore di lavoro a propria difesa sostiene che la telecamera era stata installata per la tutela del patrimonio dell’azienda e non per controllare l’attività dei lavoratori.

A questo punto ecco che intervengono i difensori delle rispettive parti e la cosa si fa interessante.

Inizia la difesa lo statuto dei lavoratori portando a sostegno della propria tesi quanto segue:

ART. 4 - Impianti audiovisivi [1]

“È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.

Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna.

In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.

Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondono alle caratteristiche di cui al secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l’Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, dettando all’occorrenza le prescrizioni per l’adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti.

Contro i provvedimenti dell’Ispettorato dei lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale”.

Poi la stessa difesa aggiunge citando la violazione della privacy, quale condotta ulteriore tenuta in essere dal datore di lavoro all’atto in cui lo stesso ha posizionato una telecamera con video registrazione a circuito chiuso. Pertanto l’utilizzo di quelle riprese video filmate per individuare il dipendente infedele era stato il solo motivo per costringerlo alle dimissioni.

Questa la tesi difensiva del lavoratore.

Di contro, il datore di lavoro contesta quegli addebiti e insiste sul fatto che il lavoratore si è dimesso. La sua era stata una scelta ponderata ed accettata dall’interessato per evitare così un sicuro licenziamento per giusta causa e una probabile denuncia all’Autorità Giudiziaria.

A supporto della sua buona fede e della liceità nella condotta posta in essere, quel datore di lavoro evidenzia il fatto che il prestatore d’opera in questione era assunto in qualità di lavoratore subordinato [2]; che lo stesso, con la propria condotta, andava contro l’azienda, trafugando somme di danaro profittando del ruolo di contabile e venendo meno così agli obblighi di fedeltà.

Ma al di là di questi elementi tipici del contratto di lavoro subordinato, il datore di lavoro giustificava le registrazioni video filmate, esclusivamente per tutelare l’azienda e il relativo patrimonio.

Questi i fatti.

Aspettando che il commissario Lex faccia il suo corso, lo scrivente ritiene sostenibile la difesa del datore di lavoro, per il semplice fatto che il lavoratore, in ragione della sua particolare attività lavorativa, giova ricordare di impiegato contabile, ben doveva e poteva essere oggetto di controllo.

Il suo operato poteva essere sempre verificato, a prescindere dall’operatività di strumenti di video registrazione, utilizzati allo scopo.

In effetti, il datore di lavoro, solo dopo aver constatato il notevole ammanco di danaro nelle casse dell’azienda, per difenderne il patrimonio, è stato costretto a porre in essere il controllo diretto ad accertare condotte illecite dei propri dipendenti, non già l’attività lavorativa da questi svolta.

Come contributo a tali personali considerazioni cito una sentenza della Cassazione - Sezione Lavoro, che ritiene ammissibili i sistemi di controllo cosiddetti “difensivi” [3].

Non occorre aggiungere altro, se non rilevare, come in questo caso l’uso sconsiderato, pretestuoso della Legge e del Diritto.

E’ ora che il buon senso sia a servizio della collettività e non solo a servizio della privacy [4].

Il commissario LEX continua le indagini; instancabile e fiducioso di addivenire ad una soluzione il più conforme alla realtà evitando, laddove possibile, usitate speculazioni astratte che, invece di unire, hanno sempre diviso.



[1] Statuto dei Lavoratori. Legge 300 del 1970. a cui rinvia l’articolo 114 del Decreto Legislativo 196/2003.

[2] Art. 2094 codice civile.

[3] Sentenza 4746/02 Cass. Lavoro – R.G.N. 7619/99.

[4] Filodiritto, contributo del 31.03.07 Avv. Zama: il buon senso al servizio della privacy.

Vi è mai capitato?

Non mi riferisco a quei giovani comici di una nota trasmissione televisiva, peraltro gradevole e divertente. Voglio parlarvi invece di un episodio i cui personaggi e fatti non sono frutto di fantasia ma sono del tutto reali, anche se in vero, tutto appare così confuso e paradossale.

Il caso lo ritengo interessante, per la dottrina o anche per la semplice curiosità degli amanti del diritto o della infinita conoscenza, che possono trovare spunti di riflessione per prendere coscienza che il buon senso pare non appartenga più a questo mondo e che l’uso strumentale del diritto è foriero di tempeste.

I personaggi di questa storia in ordine di apparizione sono:

- un datore di lavoro

- un lavoratore “infedele”.

Questi, rappresentati e difesi dalle norme poste a tutela del patrimonio il primo; il secondo, dall’eccellentissimo statuto dei lavoratori, in congiunta con la legge sulla privacy.

Ecco il racconto in breve.

Un signor datore di lavoro di un‘azienda con più di quindici dipendenti viene a conoscenza, suo malgrado, che dalla chiusura casse con cadenza mensile vi sono degli ammanchi importanti.

In prime cure non è in grado di poter individuare e quindi indicare l’autore del maltolto.

Nutre qualche sospetto su qualche dipendente infedele che ha accesso alla cassaforte, il quale deposita importi inferiori rispetto a quelli effettivamente incassati e contabilizzati e gli indizi non sono sufficienti ad adottare o contestare addebiti di qualsivoglia natura, ancor meno dal punto di vista disciplinare.

Dopo aver constatato che questa condotta furtiva aveva portato un ammanco dalle casse dell’azienda pari a 20milaeuro, il datore di lavoro esasperato cerca di ricorrere ai ripari.

Installa all’occorrenza una telecamera con sistema di videoregistrazione, focalizzandola utilmente sulla cassaforte.

In ragione di tale installazione, per evitare di incorrere in qualche legittima contestazione sull’uso improprio degli strumenti di controllo a distanza, comunica ai dipendenti che nell’area che interessa la cassaforte esiste una telecamera.

A tal riguardo appone un cartello, a suo dire, nel rispetto della privacy.

La scelta di installare quella telecamera porta alla identificazione del reo, il quale, ancorché non limpidamente visibile nel video, viene comunque individuato.

In effetti questo avviene in quanto il lavoratore interessato, tra gli altri, addetto alla contabilità, era il solo ad essere affetto da una importante ed evidente calvizia.

A tal punto, questi messo alle strette e innanzi alle proprie responsabilità dal datore di lavoro, legittimamente contrariato, il lavoratore “infedele”, forse anche per evitare una denuncia per furto, decide “motu proprio” di dimettersi.

Dopo qualche tempo quel lavoratore “infedele”, non pago di quanto aveva commesso inizia un percorso giudiziale per sostenere che, nonostante la sua illecita condotta, il suo datore di lavoro non poteva utilizzare la telecamera per riprenderlo durante lo svolgimento della sua attività lavorativa, violando a suo dire lo statuto dei lavoratori e la legge sulla privacy. Il datore di lavoro a propria difesa sostiene che la telecamera era stata installata per la tutela del patrimonio dell’azienda e non per controllare l’attività dei lavoratori.

A questo punto ecco che intervengono i difensori delle rispettive parti e la cosa si fa interessante.

Inizia la difesa lo statuto dei lavoratori portando a sostegno della propria tesi quanto segue:

ART. 4 - Impianti audiovisivi [1]

“È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.

Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna.

In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.

Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondono alle caratteristiche di cui al secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l’Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, dettando all’occorrenza le prescrizioni per l’adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti.

Contro i provvedimenti dell’Ispettorato dei lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale”.

Poi la stessa difesa aggiunge citando la violazione della privacy, quale condotta ulteriore tenuta in essere dal datore di lavoro all’atto in cui lo stesso ha posizionato una telecamera con video registrazione a circuito chiuso. Pertanto l’utilizzo di quelle riprese video filmate per individuare il dipendente infedele era stato il solo motivo per costringerlo alle dimissioni.

Questa la tesi difensiva del lavoratore.

Di contro, il datore di lavoro contesta quegli addebiti e insiste sul fatto che il lavoratore si è dimesso. La sua era stata una scelta ponderata ed accettata dall’interessato per evitare così un sicuro licenziamento per giusta causa e una probabile denuncia all’Autorità Giudiziaria.

A supporto della sua buona fede e della liceità nella condotta posta in essere, quel datore di lavoro evidenzia il fatto che il prestatore d’opera in questione era assunto in qualità di lavoratore subordinato [2]; che lo stesso, con la propria condotta, andava contro l’azienda, trafugando somme di danaro profittando del ruolo di contabile e venendo meno così agli obblighi di fedeltà.

Ma al di là di questi elementi tipici del contratto di lavoro subordinato, il datore di lavoro giustificava le registrazioni video filmate, esclusivamente per tutelare l’azienda e il relativo patrimonio.

Questi i fatti.

Aspettando che il commissario Lex faccia il suo corso, lo scrivente ritiene sostenibile la difesa del datore di lavoro, per il semplice fatto che il lavoratore, in ragione della sua particolare attività lavorativa, giova ricordare di impiegato contabile, ben doveva e poteva essere oggetto di controllo.

Il suo operato poteva essere sempre verificato, a prescindere dall’operatività di strumenti di video registrazione, utilizzati allo scopo.

In effetti, il datore di lavoro, solo dopo aver constatato il notevole ammanco di danaro nelle casse dell’azienda, per difenderne il patrimonio, è stato costretto a porre in essere il controllo diretto ad accertare condotte illecite dei propri dipendenti, non già l’attività lavorativa da questi svolta.

Come contributo a tali personali considerazioni cito una sentenza della Cassazione - Sezione Lavoro, che ritiene ammissibili i sistemi di controllo cosiddetti “difensivi” [3].

Non occorre aggiungere altro, se non rilevare, come in questo caso l’uso sconsiderato, pretestuoso della Legge e del Diritto.

E’ ora che il buon senso sia a servizio della collettività e non solo a servizio della privacy [4].

Il commissario LEX continua le indagini; instancabile e fiducioso di addivenire ad una soluzione il più conforme alla realtà evitando, laddove possibile, usitate speculazioni astratte che, invece di unire, hanno sempre diviso.



[1] Statuto dei Lavoratori. Legge 300 del 1970. a cui rinvia l’articolo 114 del Decreto Legislativo 196/2003.

[2] Art. 2094 codice civile.

[3] Sentenza 4746/02 Cass. Lavoro – R.G.N. 7619/99.

[4] Filodiritto, contributo del 31.03.07 Avv. Zama: il buon senso al servizio della privacy.