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Università degli Studi di Trieste – “Indicazioni sulla redazione dei documenti amministrativi dell’Amministrazione centrale a seguito dell’introduzione del nuovo Statuto. Modelli aggiornati di carta intestata”. Commento

Nell’èra del documento informatico e della firma digitale, quando ancora si dibatte sull’effettivo valore legale delle posta elettronica certificata (PEC), cattura l’attenzione la circolare emanata dall’ateneo triestino recante “Indicazioni sulla redazione dei documenti amministrativi dell’Amministrazione centrale a seguito dell’introduzione del nuovo Statuto. Modelli aggiornati di carta intestata” [Rinvenibile al link http://www-amm.units.it/bachecac.nsf/0/4A64B7C92FCE23E4C12579E5003CA9DD/$FILE/UniTS%20-%20Circolare%20DA%2034%20Modelli%20carta%20intestata%2019%20apr%202012.pdf].

L’occasio juris è data dall’entrata in vigore del nuovo Statuto dell’ateneo; è con questa iniziativa che il “vento di rinnovamento” sostanziale si accorda ad una nuova veste grafica per l’impostazione di un nuovo modello di formalità, mettendo ordine nell’organizzazione testuale del documento pubblico.

Il primo risultato è l’immediata riconoscibilità della provenienza del documento; pochi elementi grafici distintivi e facilmente coglibili che rendano immediata la fonte istituzionale: un nuovo sigillo e un’impostazione testuale univoca e corretta.

E non è un aspetto scontato: spesso accade di rinvenire all’interno di uno stesso Ente provvedimenti che, al di là del contenuto, si presentano graficamente diversi, disarmonici, disarticolati, e questo inevitabilmente non può che produrre un certo senso di sciatteria, di scarsa attenzione ai dettagli che, talvolta anche erroneamente, mal dispone il lettore o il destinatario dell’atto.

Purtroppo va anche riconosciuto che, ancora, scarsissima attenzione è data sia allo studio formale del documento che alla corretta redazione dell’atto pubblico. Lo studio e la conoscenza della diplomatica, disciplina regina di questi temi, e ancor più della diplomatica del documento contemporaneo, rimane ancora appannaggio di pochi, considerata forse più un retaggio culturale che una “scienza” che, all’inverso, dovrebbe essere posta alla base delle conoscenze richieste sia agli operatori dell’amministrazione pubblica, che agli operatori del diritto, i quali, per poter censurare gli aspetti viziati di un provvedimento, dovrebbero conoscere almeno i rudimenti di una corretta redazione formale.

La realtà è che per accedere al pubblico impiego non è richiesto di saper redigere formalmente un atto, non si ritiene necessario saperlo impostare; poca attenzione è data a quest’aspetto la cui conoscenza viene supplita spesso solo con “formulari” ripetitivi e decontestualizzati.

E, una volta divenuti impiegati, e funzionari, e dirigenti, la redazione di un atto è lasciata spesso alla libera interpretazione e fantasia dell’autore. Ben venga quindi una direttiva all’interno di un “centro del sapere” che ci richiami a riflettere su questo aspetto.

Il metodo utilizzato è un chiaro richiamo, come detto, all’applicazione della diplomatica, nei suoi elementi estrinseci ed intrinseci, alla normativa vigente.

Si inizia richiamando il nuovo sigillo, e non, come comunemente viene maldestramente detto, il logo dell’Ente.

Si prosegue gerarchicamente richiedendo l’indicazione dell’Area Organizzativa Omogenea (AOO) e dell’Unità Organizzativa Responsabile (UOR), un richiamo al TUDA (DPR 445/2000) e uno alla legge 241/90, ai “testi sacri” sul documento e sul procedimento amministrativo, correttezza formale e correttezza giuridica nell’individuazione dell’autore.

Si descrive poi l’esatta e quasi pedissequa serie di atti necessari alla protocollazione, con precisazioni mai troppo scontate (la protocollazione deve essere sempre successiva alla sottoscrizione del documento e mai antecedente, numero, quindi, deve essere scritto a penna dopo tale operazione). Prezioso il tecnicismo nella definizione attinente al caso in cui la data cronica va apposta unitamente al numero di protocollo.

Si parla quindi di classificazione e fascicolatura: autorevole dottrina è solita affermare che “il fascicolo è il cuore dell’archivio” e in questo caso, forse per evitare autoreferenzialità, la circolare si limita a richiamare precetti normativi senza dilungarsi o soffermarsi sulla reale necessità che adeguata attenzione venga data all’elemento “fascicolo” al fine di non interrompere “la linea dell’arco”.

Fin qui indicazioni precise e testuali, ma la circolare affronta anche due temi a lungo, ma mai sufficientemente, dibattuti e studiati, vale a dire la redazione dell’oggetto e del testo.

Senza richiamare palesemente i “regesti”, si affronta un argomento scivolosissimo per i più: la corretta redazione dell’oggetto, sia esso documentale o proprio della compilazione dell’apposito campo nel registro di protocollo. Sul punto sono richiamate le raccomandazioni, si badi al termine trattandosi solo di suggerimenti così come nell’intento del gruppo di lavoro, elaborate nel corso del progetto AURORA [http://www.unipd.it/archivio/progetti/aurora/].

La redazione dell’oggetto di un documento non è cosa facile: richiede intelligenza, sagacia, coerenza e lucidità.

Intelligenza perché il redattore deve aver ben presente il messaggio primario che vuole dare, deve essere in grado di compiere un’analisi-sintesi tale da renderlo intellegibile quasi universalmente; sagacia perché lo stesso deve porsi nella posizione di un terzo estraneo che in là nel tempo cercherà quel documento, avendo quindi ben chiaro l’”iter logico medio” che permetterà di richiamare alla mente l’oggetto del documento; coerenza lucidità perché nel corso di quest’operazione di analisi-sintesi dovrà essere in grado, redigendo l’oggetto di individuare semplici parole chiave, peculiari nell’individuazione del documento, tali da facilitare una ricerca informatica.

Si passa poi al testo: “è indispensabile scrivere in maniera linguisticamente corretta, priva di complessità non necessarie, evitando frasi apodittiche o involute, così come un numero eccessivo di proposizioni incidentali”: una tale enunciazione sarebbe in grado di intimorire anche i più esperti letterati. La nostra bella lingua italiana, che subisce quotidiani attacchi da azzardati neologismi anglofoni, e spesso bistrattata, è talvolta così erta d’insidie che già scrivere in maniera linguisticamente corretta potrebbe sembrare non così scontato, figuriamoci poi renderla scorrevole e non astrusa.

Difficile ma necessario, sì perché, si dice, la chiarezza per un dipendente pubblico è “un dovere morale”, oltre ad essere un obbligo giuridico. Ah se questo principio fosse applicato anche a certe leggi finanziarie, o a certi provvedimenti omnibus dove, a stento, si riesce a rinvenire il verbo della principale e dove anche i tecnici hanno spesso difficoltà a comprendere il messaggio meramente testuale! Questo, ad avviso di chi scrive, è il precetto della circolare più difficile da mettere in pratica, la sfida più ambiziosa: semplificare, infatti, non vuol dire svilire il concetto, non vuol dire tradurlo, trasformando il verbo “asserire” con il verbo “dire”, non vuol dire abbandonare il linguaggio proprio di certe discipline, si pensi al linguaggio giuridico, non vuol dire abbrutire la frase, vuol dire utilizzare tutti i mezzi che la lingua italiana offre, e sono tanti, per descrivere un concetto in modo chiaro e preciso.

E ciò non è facile. Non tutti sono abili comunicatori, non tutti sono in grado di trasmettere ciò che sanno perché non riescono a trasferire ad altri le loro cognizioni; non è facile ma, è vero, per un dipendente pubblico è un dovere morale, perché agisce in nome della “res publica”, agisce per la comunità, e come tale dalla comunità deve farsi capire. La circolare offre alcuni spunti quali il diffidare da frasi che contengono più di 40/50 parole e dall’utilizzo di enunciati tacciati di essere “burocratese”.

La circolare fornisce alcuni esempi: “Con la presente si comunica, Spiace comunicare che, Si ha il piacere di comunicare, In relazione all’oggetto si comunica che…”.

Certamente non è facile abbandonare l’utilizzo di certe formule di stile oramai entrate nell’uso quotidiano del “linguaggio pubblico scritto” e che, in fondo, talvolta, vengono usate per edulcorare certi dinieghi, o per ipocrisia si potrebbe ribattere.

In ogni caso abbandonare certe abitudini lessicali non è cosa facile, quindi il fine è davvero ambizioso e lo sforzo richiesto davvero notevole. Al fine di agevolare l’utente però vengono fornite importanti indicazioni di testi sul tema [Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica, Direttiva 8 maggio 2002, Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi (GU 18.06.2002, n. 141); Commissione Europea - Ufficio delle pubblicazioni, Manuale interistituzionale di convenzioni redazionali, http://publications.europa.eu/code/itlit-000500.htm].

Si ritorna poi alle nozioni di diplomatica con i chiarimenti in punto di data cronica e topica e sulla loro corretta funzione identificatrice del momento di perfezione dell’atto. Importante la precisazione circa l’auspicabile coincidenza tra il momento perfettivo e di efficacia dell’atto.

Completano gli elementi la necessaria indicazione, in calce al documento, del nominativo del responsabile del procedimento o responsabile unico del procedimento, che dir si voglia, come da legge 241/90 ed i riferimenti istituzionali (indirizzo, numero di telefono proprio, riferimenti della UOR, indirizzo del sito web di Ateneo e indirizzo di posta elettronica certificata).

Particolare attenzione è dedicata ai saluti. Considerandoli, correttamente, come un elemento non essenziale dell’atto, i saluti vengono lasciati alla discrezionalità dell’autore; qualora vengano apposti, si suggerisce di scriverli a penna per rappresentare la volontà personale e la ponderatezza della loro inclusione nel documento.

Si lasci commentare che in un’epoca in cui i mass-media si distinguono, purtroppo spesso, per maleducazione e volgarità, un richiamo alla più comune e banale educazione deve far riflettere.

La chiosa rammenta la necessaria redazione del documento in duplice esemplare, originale e minuta, con precisa indicazione delle sottoscrizioni (si badi, non firma!) e sigle richieste.

L’intento didattico-operativo è evidente, ma ancorché rimanesse qualche dubbio nel lettore, la circolare espressamente palesa questo intento formativo preannunciando l’organizzazione di incontri di diplomatica accademica giuliana, incentrati sulla genesi, forme e sulle modalità redazionali dei documenti nell’ateneo triestino; tali incontri saranno il naturale prosieguo del cammino intrapreso con l’emanazione di questa circolare.

Era ora, verrebbe da dire, che qualcuno si accorgesse che è necessario insegnare ai dipendenti pubblici a scrivere; e che una buona conoscenza della sostanza non può, rectius non deve, far dimenticare la necessità di una corretta impostazione della forma. Forse, speriamo, sia il primo passo verso la consapevolezza dell’ignoranza e la volontà di colmare questa lacuna, certo è che la sensibilizzazione circa questo aspetto non può che venire dall’alto, dalla classe dirigenziale, su cui grava l’onere di capire, prima ancora che di far capire, la sua importanza, con un chiaro ritorno al passato, cartaceo, e ai suoi insegnamenti.

Nell’èra del documento informatico e della firma digitale, quando ancora si dibatte sull’effettivo valore legale delle posta elettronica certificata (PEC), cattura l’attenzione la circolare emanata dall’ateneo triestino recante “Indicazioni sulla redazione dei documenti amministrativi dell’Amministrazione centrale a seguito dell’introduzione del nuovo Statuto. Modelli aggiornati di carta intestata” [Rinvenibile al link http://www-amm.units.it/bachecac.nsf/0/4A64B7C92FCE23E4C12579E5003CA9DD/$FILE/UniTS%20-%20Circolare%20DA%2034%20Modelli%20carta%20intestata%2019%20apr%202012.pdf].

L’occasio juris è data dall’entrata in vigore del nuovo Statuto dell’ateneo; è con questa iniziativa che il “vento di rinnovamento” sostanziale si accorda ad una nuova veste grafica per l’impostazione di un nuovo modello di formalità, mettendo ordine nell’organizzazione testuale del documento pubblico.

Il primo risultato è l’immediata riconoscibilità della provenienza del documento; pochi elementi grafici distintivi e facilmente coglibili che rendano immediata la fonte istituzionale: un nuovo sigillo e un’impostazione testuale univoca e corretta.

E non è un aspetto scontato: spesso accade di rinvenire all’interno di uno stesso Ente provvedimenti che, al di là del contenuto, si presentano graficamente diversi, disarmonici, disarticolati, e questo inevitabilmente non può che produrre un certo senso di sciatteria, di scarsa attenzione ai dettagli che, talvolta anche erroneamente, mal dispone il lettore o il destinatario dell’atto.

Purtroppo va anche riconosciuto che, ancora, scarsissima attenzione è data sia allo studio formale del documento che alla corretta redazione dell’atto pubblico. Lo studio e la conoscenza della diplomatica, disciplina regina di questi temi, e ancor più della diplomatica del documento contemporaneo, rimane ancora appannaggio di pochi, considerata forse più un retaggio culturale che una “scienza” che, all’inverso, dovrebbe essere posta alla base delle conoscenze richieste sia agli operatori dell’amministrazione pubblica, che agli operatori del diritto, i quali, per poter censurare gli aspetti viziati di un provvedimento, dovrebbero conoscere almeno i rudimenti di una corretta redazione formale.

La realtà è che per accedere al pubblico impiego non è richiesto di saper redigere formalmente un atto, non si ritiene necessario saperlo impostare; poca attenzione è data a quest’aspetto la cui conoscenza viene supplita spesso solo con “formulari” ripetitivi e decontestualizzati.

E, una volta divenuti impiegati, e funzionari, e dirigenti, la redazione di un atto è lasciata spesso alla libera interpretazione e fantasia dell’autore. Ben venga quindi una direttiva all’interno di un “centro del sapere” che ci richiami a riflettere su questo aspetto.

Il metodo utilizzato è un chiaro richiamo, come detto, all’applicazione della diplomatica, nei suoi elementi estrinseci ed intrinseci, alla normativa vigente.

Si inizia richiamando il nuovo sigillo, e non, come comunemente viene maldestramente detto, il logo dell’Ente.

Si prosegue gerarchicamente richiedendo l’indicazione dell’Area Organizzativa Omogenea (AOO) e dell’Unità Organizzativa Responsabile (UOR), un richiamo al TUDA (DPR 445/2000) e uno alla legge 241/90, ai “testi sacri” sul documento e sul procedimento amministrativo, correttezza formale e correttezza giuridica nell’individuazione dell’autore.

Si descrive poi l’esatta e quasi pedissequa serie di atti necessari alla protocollazione, con precisazioni mai troppo scontate (la protocollazione deve essere sempre successiva alla sottoscrizione del documento e mai antecedente, numero, quindi, deve essere scritto a penna dopo tale operazione). Prezioso il tecnicismo nella definizione attinente al caso in cui la data cronica va apposta unitamente al numero di protocollo.

Si parla quindi di classificazione e fascicolatura: autorevole dottrina è solita affermare che “il fascicolo è il cuore dell’archivio” e in questo caso, forse per evitare autoreferenzialità, la circolare si limita a richiamare precetti normativi senza dilungarsi o soffermarsi sulla reale necessità che adeguata attenzione venga data all’elemento “fascicolo” al fine di non interrompere “la linea dell’arco”.

Fin qui indicazioni precise e testuali, ma la circolare affronta anche due temi a lungo, ma mai sufficientemente, dibattuti e studiati, vale a dire la redazione dell’oggetto e del testo.

Senza richiamare palesemente i “regesti”, si affronta un argomento scivolosissimo per i più: la corretta redazione dell’oggetto, sia esso documentale o proprio della compilazione dell’apposito campo nel registro di protocollo. Sul punto sono richiamate le raccomandazioni, si badi al termine trattandosi solo di suggerimenti così come nell’intento del gruppo di lavoro, elaborate nel corso del progetto AURORA [http://www.unipd.it/archivio/progetti/aurora/].

La redazione dell’oggetto di un documento non è cosa facile: richiede intelligenza, sagacia, coerenza e lucidità.

Intelligenza perché il redattore deve aver ben presente il messaggio primario che vuole dare, deve essere in grado di compiere un’analisi-sintesi tale da renderlo intellegibile quasi universalmente; sagacia perché lo stesso deve porsi nella posizione di un terzo estraneo che in là nel tempo cercherà quel documento, avendo quindi ben chiaro l’”iter logico medio” che permetterà di richiamare alla mente l’oggetto del documento; coerenza lucidità perché nel corso di quest’operazione di analisi-sintesi dovrà essere in grado, redigendo l’oggetto di individuare semplici parole chiave, peculiari nell’individuazione del documento, tali da facilitare una ricerca informatica.

Si passa poi al testo: “è indispensabile scrivere in maniera linguisticamente corretta, priva di complessità non necessarie, evitando frasi apodittiche o involute, così come un numero eccessivo di proposizioni incidentali”: una tale enunciazione sarebbe in grado di intimorire anche i più esperti letterati. La nostra bella lingua italiana, che subisce quotidiani attacchi da azzardati neologismi anglofoni, e spesso bistrattata, è talvolta così erta d’insidie che già scrivere in maniera linguisticamente corretta potrebbe sembrare non così scontato, figuriamoci poi renderla scorrevole e non astrusa.

Difficile ma necessario, sì perché, si dice, la chiarezza per un dipendente pubblico è “un dovere morale”, oltre ad essere un obbligo giuridico. Ah se questo principio fosse applicato anche a certe leggi finanziarie, o a certi provvedimenti omnibus dove, a stento, si riesce a rinvenire il verbo della principale e dove anche i tecnici hanno spesso difficoltà a comprendere il messaggio meramente testuale! Questo, ad avviso di chi scrive, è il precetto della circolare più difficile da mettere in pratica, la sfida più ambiziosa: semplificare, infatti, non vuol dire svilire il concetto, non vuol dire tradurlo, trasformando il verbo “asserire” con il verbo “dire”, non vuol dire abbandonare il linguaggio proprio di certe discipline, si pensi al linguaggio giuridico, non vuol dire abbrutire la frase, vuol dire utilizzare tutti i mezzi che la lingua italiana offre, e sono tanti, per descrivere un concetto in modo chiaro e preciso.

E ciò non è facile. Non tutti sono abili comunicatori, non tutti sono in grado di trasmettere ciò che sanno perché non riescono a trasferire ad altri le loro cognizioni; non è facile ma, è vero, per un dipendente pubblico è un dovere morale, perché agisce in nome della “res publica”, agisce per la comunità, e come tale dalla comunità deve farsi capire. La circolare offre alcuni spunti quali il diffidare da frasi che contengono più di 40/50 parole e dall’utilizzo di enunciati tacciati di essere “burocratese”.

La circolare fornisce alcuni esempi: “Con la presente si comunica, Spiace comunicare che, Si ha il piacere di comunicare, In relazione all’oggetto si comunica che…”.

Certamente non è facile abbandonare l’utilizzo di certe formule di stile oramai entrate nell’uso quotidiano del “linguaggio pubblico scritto” e che, in fondo, talvolta, vengono usate per edulcorare certi dinieghi, o per ipocrisia si potrebbe ribattere.

In ogni caso abbandonare certe abitudini lessicali non è cosa facile, quindi il fine è davvero ambizioso e lo sforzo richiesto davvero notevole. Al fine di agevolare l’utente però vengono fornite importanti indicazioni di testi sul tema [Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica, Direttiva 8 maggio 2002, Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi (GU 18.06.2002, n. 141); Commissione Europea - Ufficio delle pubblicazioni, Manuale interistituzionale di convenzioni redazionali, http://publications.europa.eu/code/itlit-000500.htm].

Si ritorna poi alle nozioni di diplomatica con i chiarimenti in punto di data cronica e topica e sulla loro corretta funzione identificatrice del momento di perfezione dell’atto. Importante la precisazione circa l’auspicabile coincidenza tra il momento perfettivo e di efficacia dell’atto.

Completano gli elementi la necessaria indicazione, in calce al documento, del nominativo del responsabile del procedimento o responsabile unico del procedimento, che dir si voglia, come da legge 241/90 ed i riferimenti istituzionali (indirizzo, numero di telefono proprio, riferimenti della UOR, indirizzo del sito web di Ateneo e indirizzo di posta elettronica certificata).

Particolare attenzione è dedicata ai saluti. Considerandoli, correttamente, come un elemento non essenziale dell’atto, i saluti vengono lasciati alla discrezionalità dell’autore; qualora vengano apposti, si suggerisce di scriverli a penna per rappresentare la volontà personale e la ponderatezza della loro inclusione nel documento.

Si lasci commentare che in un’epoca in cui i mass-media si distinguono, purtroppo spesso, per maleducazione e volgarità, un richiamo alla più comune e banale educazione deve far riflettere.

La chiosa rammenta la necessaria redazione del documento in duplice esemplare, originale e minuta, con precisa indicazione delle sottoscrizioni (si badi, non firma!) e sigle richieste.

L’intento didattico-operativo è evidente, ma ancorché rimanesse qualche dubbio nel lettore, la circolare espressamente palesa questo intento formativo preannunciando l’organizzazione di incontri di diplomatica accademica giuliana, incentrati sulla genesi, forme e sulle modalità redazionali dei documenti nell’ateneo triestino; tali incontri saranno il naturale prosieguo del cammino intrapreso con l’emanazione di questa circolare.

Era ora, verrebbe da dire, che qualcuno si accorgesse che è necessario insegnare ai dipendenti pubblici a scrivere; e che una buona conoscenza della sostanza non può, rectius non deve, far dimenticare la necessità di una corretta impostazione della forma. Forse, speriamo, sia il primo passo verso la consapevolezza dell’ignoranza e la volontà di colmare questa lacuna, certo è che la sensibilizzazione circa questo aspetto non può che venire dall’alto, dalla classe dirigenziale, su cui grava l’onere di capire, prima ancora che di far capire, la sua importanza, con un chiaro ritorno al passato, cartaceo, e ai suoi insegnamenti.