Università in transizione: come l’educazione digitale e l’ia ridisegnano l’offerta formativa

Sfide e opportunità dell’anno accademico 2025/26 tra nuovi corsi, innovazione didattica e trasformazioni culturali

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Università in transizione: come l’educazione digitale e l’ia ridisegnano l’offerta formativa

 

Sfide e opportunità dell’anno accademico 2025/26 tra nuovi corsi, innovazione didattica e trasformazioni culturali

 

L’anno accademico 2025/26 si apre con la sensazione che il sistema universitario stia entrando in una fase nuova. La sensazione diffusa è quella di trovarsi davanti a una cesura piuttosto che a una semplice continuità. Probabilmente non si sta scrivendo una nota a piè di pagina, ma un nuovo capitolo. Non è solo una questione legata ai numerosi corsi in fase di avvio (https://www.anvur.it/it/assicurazione-della-qualita/corsi-di-studio/universita/accreditamento-iniziale/rapporti-di-2) – molti dei quali dedicati a temi oggi centrali come salute, sostenibilità e trasformazione digitale – ma di un ripensamento complessivo del ruolo dell’università. L’offerta formativa non appare più come un insieme di discipline stabili, bensì come un organismo in movimento che prova a intercettare i cambiamenti di una società sempre più veloce e interconnessa. L’obiettivo dichiarato è quello di mettere in dialogo saperi tecnico-scientifici e prospettive critiche, superando divisioni nette tra le aree del sapere.

Guardando ai nuovi corsi, emerge con chiarezza l’attenzione alla sostenibilità, intesa non solo in senso ambientale, che non rappresenta più uno slogan vuoto. Il concetto si estende all’economia, alla gestione delle risorse, alle relazioni sociali. Percorsi dedicati alla transizione ecologica, all’economia circolare o alla gestione del territorio hanno un significato che va oltre la formazione professionale: esprimono la scelta di un’università che vuole preparare cittadini e professionisti consapevoli, capaci di coniugare sviluppo e responsabilità. Parallelamente cresce l’area della salute, con profili che fino ad un decennio fa non esistevano: bioinformatica, ingegneria biomedica, tecnologie per il benessere, psicologia digitale. Offrono risposte all’invecchiamento della popolazione, ma anche all’integrazione sempre più stretta fra cura, dati e tecnologia.

La stessa cosa vale per il digitale. Analisi dei dati, cybersecurity, applicazioni dell’intelligenza artificiale non sono più relegate ai percorsi tecnico-scientifici, ma cominciano a entrare anche in giurisprudenza, scienze sociali e studi umanistici. È la direzione giusta: o il digitale si legge anche con lenti etiche e culturali, oppure resta solo un insieme di competenze tecniche che rischiano di diventare obsolete in pochi anni.

C’è poi la spinta verso l’internazionalizzazione. Molti corsi nascono già in inglese, con programmi di doppio titolo e formule pensate per attrarre studenti stranieri. Non si tratta semplicemente di marketing accademico: da un lato aumenta la competitività del sistema universitario italiano, dall’altro si offrono agli studenti italiani competenze necessarie a muoversi in contesti multiculturali, rispondendo ad un’esigenza strutturale di adattamento a un mondo in cui le frontiere, almeno sul piano del sapere, sono sempre più porose.

Accanto ai grandi trend, non mancano i percorsi più sperimentali: corsi su patrimonio culturale e digitale, comunicazione interculturale, sport e tecnologie del movimento, servizi per comunità inclusive. Sono iniziative ancora minoritarie, ma dimostrano la volontà di innovare e di immaginare professioni nuove, “rompendo” la prevedibilità dei cataloghi accademici.

Su questo sfondo, la didattica digitale rimane una questione cruciale. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che la contrapposizione tra lezioni in presenza e online non ha più senso. La blended learning non è più una scelta emergenziale, ma un’opportunità per rendere l’apprendimento più accessibile, personalizzato e flessibile. Non si tratta, tuttavia, di un processo automatico: occorrono docenti formati, metodologie progettate con cura, ambienti digitali sicuri e inclusivi. La lezione è chiara: la tecnologia da sola non basta, è l’uso consapevole e pedagogicamente orientato a determinare la qualità.

In tale scenario, l’intelligenza artificiale è la variabile più dirompente. Potrà trasformare ricerca, didattica e gestione universitaria, ma solleva anche interrogativi profondi: che ruolo rimane al docente? Come preservare la qualità della relazione educativa? Quanto possiamo delegare a sistemi che restano in parte opachi? La sfida per le università è governare l’innovazione senza lasciarsene travolgere, mantenendo al centro la dimensione critica e relazionale del sapere.

In definitiva, la missione dell’università viene rimessa in discussione. Gli studenti chiedono percorsi più flessibili e internazionali, vicini al mondo del lavoro ma anche capaci di offrire spazi di crescita personale e comunitaria. Digitalizzazione e mobilità diventano strumenti identitari e non sono più dettagli organizzativi: ridisegnano l’identità dell’università, che non può più essere una torre d’avorio ma un nodo vivo di una rete globale.

Per questo l’anno accademico 2025/26 rischia di essere ricordato come un anno di svolta, non per l’elenco dei corsi nuovi ma per il cambio di mentalità. Si passa da un modello in cui il sapere si trasmetteva dall’alto a uno più aperto, partecipativo, in dialogo con la società. Certo, la sfida non è semplice: conciliare tradizione e innovazione senza snaturare la funzione di fondo, quella di formare cittadini liberi e consapevoli. Ma se le università sapranno reggere questo equilibrio, allora sì, potranno davvero incidere sulle coordinate del nostro futuro collettivo.