x

x

Violazione dell’ordine di lasciare il territorio nazionale

Estratto del volume a cura di Serafino Ruscica, Concorso in magistratura 2010. Temi svolti per la preparazione alle prove scritte, Edizioni CieRre, 2010
[Per informazioni sul volume si rinvia al sito della casa editrice: http://www.edizionicierre.it]

Premessi cenni sul principio di tassatività e sufficiente determinatezza della fattispecie penale, il candidato si soffermi sulle problematiche che in argomento reca la disposizione di cui all’articolo 14 comma 5-ter D.Lgs. n. 286/1998

Schema preliminare di svolgimento della traccia

– Il principio di tassatività alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza della Corte Costituzionale.

– Peculiarità del reato previsto dall’art. 14, co. 5-ter, D.Lgs. n. 286/1998.

– Compatibilità della clausola “senza giustificato motivo” con il principio costituzionale di tassatività.

Dottrina

DIDEDDA, Permanenza illegale dello straniero e direttissimo atipico nella legge Bossi-Fini: disobbedienza, disapplicazione e nuovi passi verso un processo penale “simbolico”, in Ind. pen., 2003, p. 759 ss.

FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2007.

FORTE, Osservazioni in tema di “giustificato motivo” nel nuovo delitto di permanenza illegale dello straniero nel territorio dello stato, in Cass. pen. 2008, 3, 1207.

MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 2009.

Giurisprudenza

Corte Cost., sent. n. 5/2004

La clausola di eccezione, concernente l’ipotesi in cui esista un giustificato motivo per non ottemperare, non viola l’esigenza di determinatezza della fattispecie penale, posta dall’art. 25 Cost., poiché tale clausola ha riguardo a situazioni ostative di particolare pregnanza, che incidono sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa”… “Una fattispecie incriminatrice che contenga clausole elastiche, come ad esempio ‘senza giustificato motivo’ o ‘senza giusta causa’ non è di per sé contraria al principio di determinatezza della norma penale, ma può diventarlo soltanto quando non consenta al destinatario di comprendere in modo chiaro ed inequivoco quale sia la condotta vietata”.

Corte Cost., sent. n. 34/1995

È costituzionalmente illegittimo, perché in contrasto con il principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale a norma dell’art. 25 Cost., l’art. 7-bis, comma 1, del d.L. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, nella parte in cui punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che non si adopera per ottenere dalla competente autorità diplomatica o consolare il rilascio del documento di viaggio occorrente”.

Corte Cost., sent. n. 11/1989

Le fattispecie previste dalla norma impugnata risultano precisamente individuate e l’interpretazione che di esse il diritto vivente offre non da luogo a dubbi di sorta; sì che la sollevata questione va dichiarata manifestamente infondata”.

Corte Cost. n. 6/1981

Il principio di tassatività implica che onere della legge penale sia quello di determinare la fattispecie criminosa con connotati precisi in modo che l’interprete, nel ricondurre un’ipotesi concreta alla norma di legge, possa esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da fondamento controllabile … tale onere risulta soddisfatto fintantoché nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili”.

Corte Cost. n. 188/1975

Non sono di per sé in contrasto con il principio della legalità dei reati e delle pene, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., le fattispecie criminose c.d. a forma libera, che richiamano, cioè, con locuzioni generiche, ma di ovvia comprensione, concetti di comune esperienza o valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall’interprete. Com’è stato rilevato in dottrina, la (necessaria) “tassatività” della fattispecie non si risolve né si identifica nella (più o meno completa) “descrittività” della stessa. Limiti ben precisi al potere, rimesso al giudice, di puntualizzare specificamente il contenuto di riferimenti in apparenza indeterminati contenuti nelle fattispecie criminose c.d. a forma libera, derivano dalla stessa correlazione, interna alla norma incriminatrice, tra la condotta vietata e il bene protetto: da rapportarsi, a sua volta, ai principi costituzionali che, garantendo l’esercizio di determinati diritti di libertà, si traducono necessariamente in altrettanti limiti (esterni alla norma, ma sempre interni al sistema) alla individuazione di quel bene e pertanto alla configurabilità dell’illecito consistente nella sua violazione”.

Corte Cost., sent. n. 15/1973

È infondata la denuncia d’incostituzionalità in riferimento all’art. 25 della Costituzione. La nozione di sedizione penalmente rilevante – nei termini in cui é stata precisata – consente di escludere che ci si trovi di fronte a norme che prevedano fattispecie penali generiche e imprecise e che sussista violazione del principio di legalità enunciato dal citato precetto costituzionale.

Legislazione correlata

Costituzione, art. 25, co. 2.

D.Lgs. n. 286/1998, art. 14, co. 5-ter.

SVOLGIMENTO

L’art. 25, co. 2, della Costituzione prevede che “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, codificando il principio di tassatività della norma penale incriminatrice.

La norma esprime un’esigenza di chiarezza, di certezza e dunque di garanzia per il cittadino, e contiene un comando rivolto al Legislatore affinché l’opera di codificazione avalli i contenuti postulati dal principio di tassatività, il quale richiede che le fattispecie penali siano formulate in termini precisi e dettagliati.

È di tutta evidenza che il monito contenuto nella disposizione costituzionale si rivolge in prima battuta al Legislatore, ed in seconda battuta alla magistratura, la quale non può attribuire alle disposizioni incriminatrici una portata più vasta di quella loro propria, trascendendone il dato letterale.

Lo studio del principio di tassatività deve transitare attraverso la questione attinente all’individuazione del “grado di determinatezza della fattispecie necessario e sufficiente perché tale principio possa dirsi soddisfatto” e, per converso, del grado di indeterminatezza della fattispecie tale da condurre ad una censura della stessa in termini di illegittimità costituzionale.

Sul punto, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il principio di tassatività possa ritenersi rispettato allorquando si realizzi la “maggior certezza possibile” in ordine a ciò che la fattispecie stigmatizza come penalmente illecito e a ciò che, invece, consente in quanto penalmente lecito. In tal senso si sottolinea come il principio di tassatività vieti non già quella indeterminatezza che la legge presenta rispetto al caso concreto quale conseguenza insopprimibile dei suoi caratteri di ‘generalità’ ed ‘astrattezza’, ma la indeterminatezza che si manifesta già al livello del precetto generale ed astratto, precludendo di individuare, a monte, ciò che è comandato, vietato, consentito o tollerato.

La giurisprudenza costituzionale ha precisato che l’indagine circa il sufficiente grado di determinatezza della fattispecie penale e la conseguente verifica del rispetto del principio di tassatività, vanno condotte non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.

L’inclusione nella disposizione incriminatrice di vocaboli polisensi o di clausole generali o concetti “elastici” non comporta un vulnus del parametro costituzionale quante volte la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice, avuto riguardo anche alle finalità perseguite dall’incriminazione e al contesto ordinamentale in cui essa si colloca, di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara e immediata del relativo valore precettivo.

Quest’ultimo aspetto è oltremodo appalesato dal noto brocardo latino “nullum crimen sine lege poenali scripta et stricta”, non essendo al giudice penale consentito di estendere l’ambito applicativo delle norme a casi non contemplati dalle medesime quand’anche essi risultino sorretti da un’identica ratio, non essendo valevole il principio operante negli altri settori dell’ordinamento giuridico e codificato dall’art. 12 delle preleggi, in virtù del quale “ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio”.

Il carattere garantista del principio de quo emerge dunque per l’attitudine che il medesimo spiega ad incanalare l’attività esegetica dell’interprete entro rigorosi parametri, e dunque a consentire al consociato di far affidamento sulla legis littera, potendo egli confidare nella capacità della norma di orientarne i comportamenti e dunque di assurgere a discrimen tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, sottraendo tale distinzione all’arbitrio dell’organo giudicante.

Nel nostro sistema legislativo il fondamento ermeneutico del postulato in commento è agevolmente rinvenibile nel combinato disposto degli artt. 1 e 199 del codice penale, i quali imprimono alla potestà punitiva dello Stato un limite derivante dalla necessità che la fattispecie incriminatrice, nonché le sanzioni per la medesima configurate, siano state previamente ed espressamente sancite dal legislatore.

Tale dato normativo è recepito dal dettato costituzionale il quale postula, in difesa della libertà individuale, non solo il doveroso rispetto del principio di riserva di legge e di irretroattività della legge in materia penale ma anche, ancorché in modo implicito, del principio della sufficiente determinatezza della disposizione contra reum, il quale ultimo opera come completamento logico dei due precedenti enunciati.

È infatti evidente che la stessa ratio ispiratrice del principio di legalità verrebbe frustrata dalla vaghezza contenutistica di una norma penale, e tanto vale vieppiù a supportare la portata costituzionale della predetta garanzia, peraltro riconosciuta dalla Consulta in svariate pronunce; la necessaria determinatezza della norma penale agisce inoltre in qualità di corollario della frammentarietà del sistema sanzionatorio penalistico, il quale seleziona attentamente come condotte punibili solo le tipizzate modalità di aggressione ai beni giuridici fondamentali.

Per ubbidire al canone in commento, il precetto deve dunque essere univoco e chiaro nei suoi contenuti, nonché esprimere una fattispecie i cui elementi costitutivi appaiano suscettibili di un riscontro empirico nella multiforme e complessa realtà operativa, come peraltro evidenziato dalla Corte Sovrana nella nota decisione in cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del disposto di cui all’art. 603 c.p., sanzionante il reato di plagio, per l’assoluta impossibilità di verificazione concreta “nella sua effettuazione e nel suo risultato” della riduzione di una persona in stato di totale soggezione psichica.

Ed invero, la legislazione penale utilizza a volte elementi vaghi o indeterminati, non sempre di tipo normativo ma spesso afferenti alla sfera emozionale, ai fini della individuazione della condotta sanzionata, con evidenti ripercussioni in termini di vulnus del principio di personalità della responsabilità penale e di responsabilità per fatto proprio, non ottemperando la norma alla funzione sua propria di orientare il comportamento dell’individuo in modo pacifico e chiaro di modo che il medesimo sia posto in condizione di uniformarvisi o meno in base alle conseguenze che di tal guisa gli si prospettano.

Compatibili con il dettato di cui all’art. 25 della Gründnorm risultano invece i concetti elastici, i quali, pur concedendo un sensibile margine ermeneutico all’apprezzamento giudiziale, appaiono non di meno ineliminabili, fungendo da valvole respiratorie di un sistema sempre costretto ad arrancare rispetto al dinamismo endemico della società contemporanea. Trattasi di quei richiami, contenuti nelle disposizioni incriminatrici, a regole metagiuridiche e precipuamente etiche, sociali, tecniche o scientifiche di agevole individuazione, oppure quei concetti che si riferiscono ad una realtà quantitativa o temporale sufficientemente delimitata.

Residuano poi gli elementi rigidi, nei quali lo spazio intercorrente tra il momento percettivo e quello esegetico si assottiglia sino a scomparire, per l’evidenza con cui i medesimi richiamano un determinato aspetto della realtà fattuale o normativa; è chiaro che i medesimi, in virtù della nitidezza con cui esprimono i concetti ad essi sottesi, non pongono problemi di contrasto con il principio di tassatività.

Il principio in esame ha nondimeno conosciuto vicende applicative tormentate nella ricostruzione della giurisprudenza costituzionale, non essendo sempre la Consulta addivenuta ad indicazioni univoche come è invece avvenuto nel caso, testè enunciato, dell’arresto del 1981 in tema di plagio. È d’uopo allora soffermarsi, seppur sinteticamente, sulle quattro fasi che hanno accompagnato l’affermazione del predetto canone quale parametro alla cui stregua vagliare la legittimità costituzionale di una determinata disposizione incriminatrice.

Ed invero, in un primo momento, la Corte Sovrana si è chiusa in un atteggiamento di self-restraint, non facendo seguire alle pur proclamate affermazioni di principio del postulato in commento l’operatività pratica del medesimo quale veicolo per una pronuncia di accoglimento: così opinando, il Giudice delle Leggi si limitava a registrare la sussistenza di prassi legislative poco attente al precipitato di una descrizione dettagliata delle fattispecie criminose piuttosto che a sanzionare l’incostituzionalità delle stesse. È quanto si legge in una pronuncia risalente, ove si asseriva che “spesso le norme penali si limitano a una descrizione sommaria, o all’uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato”, così fotografando una carenza che restava però tale sul piano normativo.

Attese le obiezioni cui il suddetto argomentare prestava il fianco, la Corte Costituzionale è addivenuta in seconda battuta ad un’impostazione più evolutiva, anche se in realtà ancora avulsa da risvolti pratici effettivi, stante il prevalente tentativo di salvaguardare la legittimità delle norme penali: trattasi di quella fase esegetica in cui il Giudice delle Leggi utilizza quale parametro di integrazione di disposizioni dal contenuto vago il diritto vivente, attraverso il quale si può selezionare l’opzione esegetica preferibile atta ad orientare i comportamenti dei consociati. Tanto risulta dalla decisione n. 11/1989, in cui si evidenzia che l’esegesi che della norma tacciata di incostituzionalità offre il diritto vivente “non dà luogo a dubbi di sorta”, di tal guisa pretermettendosi l’esame diretto del grado di determinatezza del dato testuale della stessa.

Un ulteriore gruppo di pronunce, pur rigettando le questioni di costituzionalità sollevate dai giudici a quibus, individua in via ermeneutica l’interpretazione della norma che si appalesa conforme ai dettami del precipitato di tassatività, secondo l’assunto per cui è incostituzionale solo la disposizione che non presenta al suo interno contenuti compatibili con la Carta Fondamentale e non quella che reca anche un’opzione interpretativa contrastante con il medesimo.

Ed infatti, spetterebbe ai giudici ricercare, nell’ambito delle possibili scelte esegetiche astrattamente prospettabili, quella la cui portata non entri in contraddizione con la Costituzione, non potendo l’organo giudicante, attraverso una semplice ordinanza di rimessione alla Consulta, spogliarsi sic et simpliciter del suo compito tipico che è quello di interpretare ed applicare le norme, con l’unica eccezione di una disposizione tanto vaga da precludere interpretazioni univoche ed agevoli della propria valenza precettiva (ex multis, Corte Cost. n. 15/1973).

Sulla base di queste considerazioni, si è discusso molto circa la conformità al principio di tassativita, della fattispecie penale di guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti (art. 187, D.Lgs. n. 285/1992). Segnatamente, si è evidenziato che mentre la disposizione relativa alla “guida sotto l’influenza di alcool” (art. 186, D.Lgs. n. 285/1192) prevede tassi soglia ben precisi e determinati, altrettanto non avviene con riferimento al reato di cui all’art. 187 D.Lgs. n. 285/1992. Sul punto si è rinunciata la Corte costituzionale, la quale con sentenza 27 luglio 2004, n. 277 ha ritenuto che la fattispecie incriminatrice è “sufficientemente determinata, risultando essa integrata dalla concorrenza di due elementi, l’uno obiettivamente rilevabile dagli agenti di polizia giudiziaria (lo stato di alterazione), e per il quale possono valere indici sintomatici, l’altro, consistente nell’accertamento della presenza, nei liquidi fisiologici del conducente, di tracce di sostanze stupefacenti o psicotrope, a prescindere dalla quantità delle stesse, essendo rilevante non il dato quantitativo, ma gli effetti che l’assunzione di quelle sostanze può provocare in concreto nei singoli soggetti”.

Devesi nondimeno constatare una nuova sensibilità verso le istanze garantiste sottese ad un’applicazione rigorosa del principio de quo rivelata dagli ultimi arresti giurisprudenziali della Corte Sovrana, che è più volte intervenuta a sanzionare disposizioni incriminatrici contrastanti con l’ineliminabile esigenza di precisione del dictum legis, non sempre garantita dalle opzioni ermeneutiche avallate dalle pronunce di rigetto; viene al riguardo in rilievo, ex plurimis, la sentenza n. 34/1995 che ha interessato, con una declaratoria di incostituzionalità, il disposto di cui all’art. 7-bis, co. 1, del D.L. n. 416/1989 concernente un’ipotesi di reato in materia di immigrazione.

Con la modifica al t.u. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e sulla condizione dello straniero (legge n. 286 del 1998) ad opera della c.d. legge Bossi-Fini (legge n. 189 del 2002), è sicuramente iniziata una stagione difficile per gli extracomunitari irregolari o clandestini. Lo straniero irregolare o clandestino può infatti trovarsi sottoposto a procedimento penale con rito direttissimo in stato di arresto nel caso in cui non abbia ottemperato entro il termine di 5 giorni all’ordine del questore di lasciare il territorio italiano. Siffatto ordine è disciplinato dall’art. 14 comma 5-bis del t.u. anche nei suoi requisiti formali: esso deve essere dato con provvedimento scritto, recante l’indicazione delle conseguenze penali della sua trasgressione. Benché la norma indichi anche i presupposti sostanziali che lo giustificano – ovvero la impossibilità di trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, ovvero il trascorrere dei termini di permanenza senza che sia stato eseguito l’espulsione o il respingimento – essa non fa alcun riferimento, quale requisito formale del provvedimento, all’indicazione dei motivi che giustificano l’emissione dell’ordine. Tale requisito viene comunque ricavato dalla disposizione generale di cui all’art. 3 legge n. 241 del 1990.

La legge Bossi-Fini ha introdotto nel t.u. l’art. 14, co. 5-ter, che punisce lo straniero che, senza giustificato motivo, si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis del medesimo articolo. Trattasi questa di modalità di espulsione alternativa rispetto all’accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera, prevedendone l’arresto obbligatorio.

Lo straniero nei cui confronti lo Stato non è in grado di realizzare l’espulsione o il respingimento, a fronte dell’ordine del questore di allontanarsi, non ha dunque altra alternativa che adempiere allo stesso ricorrendo alle proprie “forze”, salvo ricorra una ipotesi di “giustificato motivo “.

A fronte della scelta politico-criminale, forse eccessivamente “oppressiva”, che ha spinto il legislatore a “delegare” all’iniziativa dello straniero il proprio allontanamento dal territorio dello Stato italiano con la minaccia della privazione “immediata” della libertà personale, non stupisce come mai l’applicazione di tale ipotesi criminosa sia stata contrastata, non solo a causa dei dubbi esegetici che hanno non poco impegnato gli interpreti, ma sotto il profilo della compatibilità rispetto alle norme internazionali che regolano la condizione dello straniero e, soprattutto, con i fondamentali principi costituzionali che garantiscono le libertà del singolo a prescindere dalla sua condizione di cittadino.

Si registra peraltro una recente decisione del Giudice delle Leggi che analizza funditus il problema della compatibilità delle c.d. clausole elastiche con il dettato di cui all’art. 25 della Gründnorm, con particolare riferimento all’espressione “senza giustificato motivo” rinvenibile all’interno della descrizione normativa del reato de quo.

La questione è stata sottoposta al vaglio di costituzionalità da alcuni Tribunali di prime cure, i quali hanno ritenuto che la citata clausola, atta ad escludere la punibilità dello straniero laddove ricorra un giustificato motivo, risultasse talmente indeterminata da rimettere all’arbitrio dell’interprete l’identificazione, anche in negativo, del comportamento incriminato. Come visto, l’art. 14, co. 5-ter, richiede per la punibilità dello straniero che non ottempera all’ordine del questore che il suo trattenimento nel territorio dello Stato avvenga «senza giustificato motivo». Trattasi di clausola normativa che compare anche in altre figure criminose, e che esprime la chiara volontà del legislatore di non rendere assoluto il comando penalmente sanzionato ma di condizionarlo alla mancanza di una situazione che rende lecita la violazione dello stesso.

Se dunque non sussistono dubbi in ordine alla funzione che il giustificato motivo assolve nell’economia della fattispecie, dibattuta è invece la sua qualificazione dogmatica.

Alcuni interpreti, prendendo le mosse dalla collocazione di tale elemento all’interno del fatto tipico, ritengono che il giustificato motivo costituisca un presupposto negativo del fatto.

Una diversa tesi afferma invece che il giustificato motivo deve essere valutato alla stregua di una causa di giustificazione, facendo riferimento a quelle situazioni che sarebbero comunque riconducibili agli artt. 51 ss. c.p.: si pensi ad es. alla tutela della salute dello straniero, della sua dignità, della famiglia e della prole, della persona, ecc., situazioni che certamente sono riconducibili nell’ambito dell’esercizio di un diritto. Sembra cogliere maggiormente nel segno la tesi che nega che il giustificato motivo si collochi all’interno del fatto tipico. Infatti, non si vede in che modo il giustificato motivo incida sull’individuazione del contenuto del disvalore della fattispecie: tale formula fa riferimento a situazioni esterne ed estranee al nucleo offensivo del fatto cui il legislatore decide di dare rilevanza per ragioni estrinseche allo stesso.

Ove si accedesse a questa tesi, spetterebbe necessariamente all’accusa l’onere assolutamente diabolico di provare l’assenza di tutte quelle innumerevoli situazioni che giustificherebbero la permanenza nel territorio, in tal modo realizzando la pratica inattuabilità della norma in oggetto. In quest’ottica, il recupero del c.d. onere di allegazione suggerito dalla stessa Corte costituzionale nell’ottica di una piena realizzazione dell’effettività del precetto penale, non si pone in contrasto con la presunzione di non colpevolezza solo laddove si escluda che il “giustificato motivo “ rappresenti un elemento del fatto. A ben vedere, un corretto inquadramento della nozione di “giustificato motivo “ non può che effettuarsi tenendo conto del contenuto semantico del termine.

Il riferimento ai “motivi” operato dal legislatore legittima, anzi impone, una lettura certamente soggettiva della clausola in oggetto. Il concetto di motivo richiama infatti – secondo la dottrina tradizionale – necessariamente un “fatto psichico”: se in generale il motivo rappresenta la causa psichica, lo stimolo, l’impulso, il sentimento, l’istinto che ha indotto il soggetto a porre in essere la condotta e che fonda la sua decisione di delinquere, la clausola in esame costituisce una formula con cui il legislatore, attraverso il parametro della “giustificabilità”, ha deciso di dare rilevanza escludente la punibilità proprio alle motivazioni dell’agente, espressive di una situazione da cui trae genesi la condotta.

La giusta dimensione psicologica che viene così riconosciuta alla clausola ne comporta la collocazione nell’ambito della colpevolezza (intesa in senso normativo), quale ipotesi di scusante. Il giustificato motivo rappresenta, in altre parole, una formula normativa con cui il legislatore dà rilevanza alle situazioni concrete in cui il soggetto si è trovato ad operare e dalle quali è derivata l’impossibilità di pretendere dallo stesso il comportamento richiesto dalla norma e, conseguentemente, l’impossibilità di muovergli un rimprovero.

In sintesi, il “giustificato motivo” rappresenta una formula attraverso cui il legislatore, nell’intento politico-criminale di dare rilevanza a specifiche situazioni che impediscono al soggetto di conformarsi al precetto penale, tipizza una vera e propria ipotesi di inesigibilità. In quest’ottica, il “giustificato motivo” assume la natura di elemento di esclusione della colpevolezza che, come tale, segue la disciplina dell’onere di allegazione da parte dell’imputato.

Una volta riconosciuto al “giustificato motivo” il valore di ipotesi legale di “inesigibilità” della condotta conforme al precetto, deve escludersi a fortiori che lo stesso entri nell’oggetto del dolo: la “giustificabilità”, lungi dal dare contenuto all’oggetto del dolo, rappresenta il parametro attraverso cui il giudice deve valutare in che termini la situazione concreta eventualmente allegata incida sulla effettiva rimproverabilità della condotta.

Nella specifica dimensione del delitto di illecito trattenimento nel territorio dello Stato, la consapevolezza da parte del cittadino straniero della non giustificabilità del suo mancato trattenimento non può dirsi che entri nel contenuto del dolo, posto che il giustificato motivo rappresenta una valvola di sfogo con cui il legislatore ha deciso di dare rilevanza a situazioni che rendono impossibile o assolutamente difficile da parte sua il rispetto dell’ordine del questore e la cui sussistenza esclude la possibilità di muovergli un rimprovero.

Muovendosi nel percorso indicato dalla giurisprudenza, assumeranno così rilevanza scusante tutte quelle “situazioni ostative di particolare pregnanza” incidenti “sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa” con esclusione, dunque, di quelle “situazioni riconducibili alle scriminanti previste dall’ordinamento” che rilevano già di per sé a livello di antigiuridicità secondo i parametri dettati dall’art. 59 c.p. Si pensi, in particolare, alle difficoltà di ottenimento dei documenti di viaggio, alla indisponibilità di mezzi per lasciare il territorio, alla assoluta impossidenza, al mancato rilascio dei documenti validi per l’espatrio.

Viceversa, non potranno assurgere al ruolo di scusante, in quanto non rappresentano un “giustificato motivo “, quelle situazioni che “riflettono la condizione tipica del migrante economico, sebbene espressive di istanze in sé e per sé pienamente legittime”.

Va tuttavia precisato che il fulcro su cui si incentra la valutazione della sussistenza del giustificato motivo, per la sua collocazione nell’ambito della colpevolezza e non nell’ambito del dolo è costituito dalla possibilità di muovere un rimprovero allo straniero, con la conseguente necessità di appurare, da parte del giudice, che le situazioni allegate dall’imputato quale “giustificato motivo” non siano invece inquadrabili nella sua libera volontà di non adempiere in ogni caso all’ordine di allontanamento dal territorio.

Si pensi a tale ultimo proposito al caso dello straniero che, a fronte dell’ordine del questore di allontanamento, non si sia attivato in alcun modo per porre in essere le condizioni dell’adempimento, ad es. attivandosi per procurarsi i mezzi economici per far fronte alle spese del viaggio di rientro o rivolgendosi agli organi diplomatici che rappresentano il suo Paese in Italia.

Non si comprenderebbe quale condotta dovrebbe tenere nei cinque giorni successivi il destinatario dell’ordine, il quale versa nella stessa situazione di grave difficoltà presupposta dalla norma (per mancanza di documenti di riconoscimento o di viaggio, di denaro, o per analoghe ragioni), onde evitare di incorrere nella sanzione penale.

Alla denunciata incapacità della disposizione criminosa di fungere da discrimen in grado di selezionare le condotte penalmente rilevanti, non corrisponde tuttavia una pronuncia di accoglimento della Corte Sovrana, la quale con un argomentare puntuale e attento ribadisce l’ineliminabilità dall’ordinamento giuridico degli elementi elastici della fattispecie, idonei a fungere da valvole respiratorie del sistema rendendolo duttile nei confronti di quella realtà sociale che pur dovrebbe disciplinare, senza nondimeno consentire il totale sopravvento di quest’ultima, che invece si verifica nell’ipotesi di tipizzazione di parametri vaghi e indefiniti, spesso emotivi e perciò solo odiosi.

Nella norma in esame la duttilità della clausola “senza giustificato motivo” opera a favore dell’imputato, il quale può sottrarsi all’applicazione del precetto nell’eventualità che il medesimo postuli un comportamento inesigibile in riferimento alla realtà fattuale concretamente determinatasi, che per la sua molteplicità rifugge ad una rigorosa tipizzazione che, giova ribadirlo, nocerebbe all’extracomunitario.

Una simile elencazione sconterebbe immancabilmente – a fronte della varietà delle contingenze di vita e della complessità delle interferenze dei sistemi normativi – il rischio di lacune che determinerebbero l’inverarsi di una sanzione penale anche laddove la medesima si riconnetta ad una condotta che non avrebbe comunque potuto esplicarsi differentemente da come si è manifestata nel caso concreto.

Trattasi di “situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi configgenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori”: così opinando, la Corte sancisce che la clausola elastica allarga le maglie della non punibilità oltre le scriminanti tipizzate, l’esclusivo riferimento alle quali renderebbe pleonastica la medesima annientandone la portata attraverso una non condivisibile interpretatio abrogans.

Tanto premesso in via di principio, la Consulta non si spinge fino a legittimare aprioristicamente ogni clausola generale, asserendo anzi che la stessa consente una valutazione in termini di costituzionalità solo qualora all’esito di un’esegesi sistematica che abbia riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione e al contesto ordinamentale in cui quest’ultima si inserisce l’organo giudicante possa stabilire il significato che l’espressione esprime e dunque sussumere il comportamento concreto nella fattispecie astratta con un sufficiente grado di sicurezza; si richiede, in altri termini, che il concetto elastico di volta in volta in rilievo, operi quale “fondamento ermeneutico controllabile” nei suoi risvolti applicativi.

Ed è di tutta evidenza che quanto asserito vale a fortiori per il destinatario della disposizione incriminatrice, il quale deve poterne comprendere la portata attraverso “una percezione chiara ed immediata del relativo valore precettivo”, atta a consentirgli con piena cognizione di ubbidire o di disattendere il divieto o il comando in essa recato.

Occorre allora soffermarsi sugli interessi alla cui protezione mira il disposto normativo, nonché sulle disposizioni al medesimo correlate e comunque tali da consentirne un’interpretazione sistematica alla luce del sistema legislativo di riferimento.

I beni giuridici protetti dalla norma sono l’ordine e, di riflesso, la sicurezza pubblica i quali subirebbero un vulnus da comportamenti tenuti dagli extracomunitari in contrasto con la disciplina imperativa predisposta dal legislatore italiano in tema di immigrazione; ed invero, si evidenzia al riguardo un diverso trattamento per lo straniero richiedente il diritto di asilo o rifugiato e il migrante economico, la cui ultima condizione non spiega efficacia paralizzante nei confronti di un eventuale espulsione dal territorio dello Stato.

Ed allora, ad agire quali cause di non punibilità non potranno essere mere condizioni di difficoltà economica, che consentirebbero una più agevole stabilità reddituale rispetto al paese di origine; rileveranno invece, a titolo esemplificativo, quelle giustificazioni che inducono già l’Amministrazione dello Stato a trattenere l’extracomunitario presso un Centro di permanenza temporanea e che sono codificate dall’art. 14 primo comma del D.Lgs. n. 286/1998, con esclusione, ovviamente, dell’esigenza di provvedere ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, che si possono presumere a lui ben note.

È dunque il dialogo tra norme di un medesimo decreto legislativo, in uno con il loro innesto sul piano fattuale, a decretare in via esegetica il riempimento di quella valvola respiratoria che altrimenti resterebbe monca e silente di fronte al fenomeno sociale che interviene a disciplinare.

Non è dato muovere rilievi in termini di incompatibilità con il disposto di cui all’art. 25 della Carta Fondamentale, perché essi trovano soluzione sul piano ermeneutico, modellandosi l’elemento elastico alla stregua dei parametri derivanti da disposizioni in tema di immigrazione che ne condividono la ratio e dunque la finalità ultima.

E tanto non solo per un’insopprimibile istanza di certezza e di chiarezza, che sempre deve accompagnare la formulazione di un precetto, specie di natura penalistica, quanto piuttosto a tutela del diritto inviolabile di difesa, sancito imperativamente dall’art. 24 della Carta Fondamentale, il quale vedrebbe elusa la sua portata qualora l’imputato non potesse conoscere precipuamente il contenuto del divieto o dell’obbligo penalmente sanzionato, la cui precisione sola consente di apprestare un’utile strategia difensiva.

E tuttavia, una non condivisibile e troppo rigorosa rigidità nella formulazione delle norme urterebbe con le caratteristiche che massimamente le connotano: la generalità e l’astrattezza, che appaiono indefettibili attesa l’esigenza cui esse assolvono, che è quella di legiferare su di un uno spettro indeterminato ed indeterminabile di situazioni che solo la creatività e multiformità di una realtà sempre in fieri può, a posteriori, dipingere.

[Per informazioni sul volume si rinvia al sito della casa editrice: http://www.edizionicierre.it]

Premessi cenni sul principio di tassatività e sufficiente determinatezza della fattispecie penale, il candidato si soffermi sulle problematiche che in argomento reca la disposizione di cui all’articolo 14 comma 5-ter D.Lgs. n. 286/1998

Schema preliminare di svolgimento della traccia

– Il principio di tassatività alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza della Corte Costituzionale.

– Peculiarità del reato previsto dall’art. 14, co. 5-ter, D.Lgs. n. 286/1998.

– Compatibilità della clausola “senza giustificato motivo” con il principio costituzionale di tassatività.

Dottrina

DIDEDDA, Permanenza illegale dello straniero e direttissimo atipico nella legge Bossi-Fini: disobbedienza, disapplicazione e nuovi passi verso un processo penale “simbolico”, in Ind. pen., 2003, p. 759 ss.

FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2007.

FORTE, Osservazioni in tema di “giustificato motivo” nel nuovo delitto di permanenza illegale dello straniero nel territorio dello stato, in Cass. pen. 2008, 3, 1207.

MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 2009.

Giurisprudenza

Corte Cost., sent. n. 5/2004

La clausola di eccezione, concernente l’ipotesi in cui esista un giustificato motivo per non ottemperare, non viola l’esigenza di determinatezza della fattispecie penale, posta dall’art. 25 Cost., poiché tale clausola ha riguardo a situazioni ostative di particolare pregnanza, che incidono sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa”… “Una fattispecie incriminatrice che contenga clausole elastiche, come ad esempio ‘senza giustificato motivo’ o ‘senza giusta causa’ non è di per sé contraria al principio di determinatezza della norma penale, ma può diventarlo soltanto quando non consenta al destinatario di comprendere in modo chiaro ed inequivoco quale sia la condotta vietata”.

Corte Cost., sent. n. 34/1995

È costituzionalmente illegittimo, perché in contrasto con il principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale a norma dell’art. 25 Cost., l’art. 7-bis, comma 1, del d.L. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, nella parte in cui punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che non si adopera per ottenere dalla competente autorità diplomatica o consolare il rilascio del documento di viaggio occorrente”.

Corte Cost., sent. n. 11/1989

Le fattispecie previste dalla norma impugnata risultano precisamente individuate e l’interpretazione che di esse il diritto vivente offre non da luogo a dubbi di sorta; sì che la sollevata questione va dichiarata manifestamente infondata”.

Corte Cost. n. 6/1981

Il principio di tassatività implica che onere della legge penale sia quello di determinare la fattispecie criminosa con connotati precisi in modo che l’interprete, nel ricondurre un’ipotesi concreta alla norma di legge, possa esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da fondamento controllabile … tale onere risulta soddisfatto fintantoché nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili”.

Corte Cost. n. 188/1975

Non sono di per sé in contrasto con il principio della legalità dei reati e delle pene, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., le fattispecie criminose c.d. a forma libera, che richiamano, cioè, con locuzioni generiche, ma di ovvia comprensione, concetti di comune esperienza o valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall’interprete. Com’è stato rilevato in dottrina, la (necessaria) “tassatività” della fattispecie non si risolve né si identifica nella (più o meno completa) “descrittività” della stessa. Limiti ben precisi al potere, rimesso al giudice, di puntualizzare specificamente il contenuto di riferimenti in apparenza indeterminati contenuti nelle fattispecie criminose c.d. a forma libera, derivano dalla stessa correlazione, interna alla norma incriminatrice, tra la condotta vietata e il bene protetto: da rapportarsi, a sua volta, ai principi costituzionali che, garantendo l’esercizio di determinati diritti di libertà, si traducono necessariamente in altrettanti limiti (esterni alla norma, ma sempre interni al sistema) alla individuazione di quel bene e pertanto alla configurabilità dell’illecito consistente nella sua violazione”.

Corte Cost., sent. n. 15/1973

È infondata la denuncia d’incostituzionalità in riferimento all’art. 25 della Costituzione. La nozione di sedizione penalmente rilevante – nei termini in cui é stata precisata – consente di escludere che ci si trovi di fronte a norme che prevedano fattispecie penali generiche e imprecise e che sussista violazione del principio di legalità enunciato dal citato precetto costituzionale.

Legislazione correlata

Costituzione, art. 25, co. 2.

D.Lgs. n. 286/1998, art. 14, co. 5-ter.

SVOLGIMENTO

L’art. 25, co. 2, della Costituzione prevede che “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, codificando il principio di tassatività della norma penale incriminatrice.

La norma esprime un’esigenza di chiarezza, di certezza e dunque di garanzia per il cittadino, e contiene un comando rivolto al Legislatore affinché l’opera di codificazione avalli i contenuti postulati dal principio di tassatività, il quale richiede che le fattispecie penali siano formulate in termini precisi e dettagliati.

È di tutta evidenza che il monito contenuto nella disposizione costituzionale si rivolge in prima battuta al Legislatore, ed in seconda battuta alla magistratura, la quale non può attribuire alle disposizioni incriminatrici una portata più vasta di quella loro propria, trascendendone il dato letterale.

Lo studio del principio di tassatività deve transitare attraverso la questione attinente all’individuazione del “grado di determinatezza della fattispecie necessario e sufficiente perché tale principio possa dirsi soddisfatto” e, per converso, del grado di indeterminatezza della fattispecie tale da condurre ad una censura della stessa in termini di illegittimità costituzionale.

Sul punto, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il principio di tassatività possa ritenersi rispettato allorquando si realizzi la “maggior certezza possibile” in ordine a ciò che la fattispecie stigmatizza come penalmente illecito e a ciò che, invece, consente in quanto penalmente lecito. In tal senso si sottolinea come il principio di tassatività vieti non già quella indeterminatezza che la legge presenta rispetto al caso concreto quale conseguenza insopprimibile dei suoi caratteri di ‘generalità’ ed ‘astrattezza’, ma la indeterminatezza che si manifesta già al livello del precetto generale ed astratto, precludendo di individuare, a monte, ciò che è comandato, vietato, consentito o tollerato.

La giurisprudenza costituzionale ha precisato che l’indagine circa il sufficiente grado di determinatezza della fattispecie penale e la conseguente verifica del rispetto del principio di tassatività, vanno condotte non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.

L’inclusione nella disposizione incriminatrice di vocaboli polisensi o di clausole generali o concetti “elastici” non comporta un vulnus del parametro costituzionale quante volte la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice, avuto riguardo anche alle finalità perseguite dall’incriminazione e al contesto ordinamentale in cui essa si colloca, di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara e immediata del relativo valore precettivo.

Quest’ultimo aspetto è oltremodo appalesato dal noto brocardo latino “nullum crimen sine lege poenali scripta et stricta”, non essendo al giudice penale consentito di estendere l’ambito applicativo delle norme a casi non contemplati dalle medesime quand’anche essi risultino sorretti da un’identica ratio, non essendo valevole il principio operante negli altri settori dell’ordinamento giuridico e codificato dall’art. 12 delle preleggi, in virtù del quale “ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio”.

Il carattere garantista del principio de quo emerge dunque per l’attitudine che il medesimo spiega ad incanalare l’attività esegetica dell’interprete entro rigorosi parametri, e dunque a consentire al consociato di far affidamento sulla legis littera, potendo egli confidare nella capacità della norma di orientarne i comportamenti e dunque di assurgere a discrimen tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, sottraendo tale distinzione all’arbitrio dell’organo giudicante.

Nel nostro sistema legislativo il fondamento ermeneutico del postulato in commento è agevolmente rinvenibile nel combinato disposto degli artt. 1 e 199 del codice penale, i quali imprimono alla potestà punitiva dello Stato un limite derivante dalla necessità che la fattispecie incriminatrice, nonché le sanzioni per la medesima configurate, siano state previamente ed espressamente sancite dal legislatore.

Tale dato normativo è recepito dal dettato costituzionale il quale postula, in difesa della libertà individuale, non solo il doveroso rispetto del principio di riserva di legge e di irretroattività della legge in materia penale ma anche, ancorché in modo implicito, del principio della sufficiente determinatezza della disposizione contra reum, il quale ultimo opera come completamento logico dei due precedenti enunciati.

È infatti evidente che la stessa ratio ispiratrice del principio di legalità verrebbe frustrata dalla vaghezza contenutistica di una norma penale, e tanto vale vieppiù a supportare la portata costituzionale della predetta garanzia, peraltro riconosciuta dalla Consulta in svariate pronunce; la necessaria determinatezza della norma penale agisce inoltre in qualità di corollario della frammentarietà del sistema sanzionatorio penalistico, il quale seleziona attentamente come condotte punibili solo le tipizzate modalità di aggressione ai beni giuridici fondamentali.

Per ubbidire al canone in commento, il precetto deve dunque essere univoco e chiaro nei suoi contenuti, nonché esprimere una fattispecie i cui elementi costitutivi appaiano suscettibili di un riscontro empirico nella multiforme e complessa realtà operativa, come peraltro evidenziato dalla Corte Sovrana nella nota decisione in cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del disposto di cui all’art. 603 c.p., sanzionante il reato di plagio, per l’assoluta impossibilità di verificazione concreta “nella sua effettuazione e nel suo risultato” della riduzione di una persona in stato di totale soggezione psichica.

Ed invero, la legislazione penale utilizza a volte elementi vaghi o indeterminati, non sempre di tipo normativo ma spesso afferenti alla sfera emozionale, ai fini della individuazione della condotta sanzionata, con evidenti ripercussioni in termini di vulnus del principio di personalità della responsabilità penale e di responsabilità per fatto proprio, non ottemperando la norma alla funzione sua propria di orientare il comportamento dell’individuo in modo pacifico e chiaro di modo che il medesimo sia posto in condizione di uniformarvisi o meno in base alle conseguenze che di tal guisa gli si prospettano.

Compatibili con il dettato di cui all’art. 25 della Gründnorm risultano invece i concetti elastici, i quali, pur concedendo un sensibile margine ermeneutico all’apprezzamento giudiziale, appaiono non di meno ineliminabili, fungendo da valvole respiratorie di un sistema sempre costretto ad arrancare rispetto al dinamismo endemico della società contemporanea. Trattasi di quei richiami, contenuti nelle disposizioni incriminatrici, a regole metagiuridiche e precipuamente etiche, sociali, tecniche o scientifiche di agevole individuazione, oppure quei concetti che si riferiscono ad una realtà quantitativa o temporale sufficientemente delimitata.

Residuano poi gli elementi rigidi, nei quali lo spazio intercorrente tra il momento percettivo e quello esegetico si assottiglia sino a scomparire, per l’evidenza con cui i medesimi richiamano un determinato aspetto della realtà fattuale o normativa; è chiaro che i medesimi, in virtù della nitidezza con cui esprimono i concetti ad essi sottesi, non pongono problemi di contrasto con il principio di tassatività.

Il principio in esame ha nondimeno conosciuto vicende applicative tormentate nella ricostruzione della giurisprudenza costituzionale, non essendo sempre la Consulta addivenuta ad indicazioni univoche come è invece avvenuto nel caso, testè enunciato, dell’arresto del 1981 in tema di plagio. È d’uopo allora soffermarsi, seppur sinteticamente, sulle quattro fasi che hanno accompagnato l’affermazione del predetto canone quale parametro alla cui stregua vagliare la legittimità costituzionale di una determinata disposizione incriminatrice.

Ed invero, in un primo momento, la Corte Sovrana si è chiusa in un atteggiamento di self-restraint, non facendo seguire alle pur proclamate affermazioni di principio del postulato in commento l’operatività pratica del medesimo quale veicolo per una pronuncia di accoglimento: così opinando, il Giudice delle Leggi si limitava a registrare la sussistenza di prassi legislative poco attente al precipitato di una descrizione dettagliata delle fattispecie criminose piuttosto che a sanzionare l’incostituzionalità delle stesse. È quanto si legge in una pronuncia risalente, ove si asseriva che “spesso le norme penali si limitano a una descrizione sommaria, o all’uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato”, così fotografando una carenza che restava però tale sul piano normativo.

Attese le obiezioni cui il suddetto argomentare prestava il fianco, la Corte Costituzionale è addivenuta in seconda battuta ad un’impostazione più evolutiva, anche se in realtà ancora avulsa da risvolti pratici effettivi, stante il prevalente tentativo di salvaguardare la legittimità delle norme penali: trattasi di quella fase esegetica in cui il Giudice delle Leggi utilizza quale parametro di integrazione di disposizioni dal contenuto vago il diritto vivente, attraverso il quale si può selezionare l’opzione esegetica preferibile atta ad orientare i comportamenti dei consociati. Tanto risulta dalla decisione n. 11/1989, in cui si evidenzia che l’esegesi che della norma tacciata di incostituzionalità offre il diritto vivente “non dà luogo a dubbi di sorta”, di tal guisa pretermettendosi l’esame diretto del grado di determinatezza del dato testuale della stessa.

Un ulteriore gruppo di pronunce, pur rigettando le questioni di costituzionalità sollevate dai giudici a quibus, individua in via ermeneutica l’interpretazione della norma che si appalesa conforme ai dettami del precipitato di tassatività, secondo l’assunto per cui è incostituzionale solo la disposizione che non presenta al suo interno contenuti compatibili con la Carta Fondamentale e non quella che reca anche un’opzione interpretativa contrastante con il medesimo.

Ed infatti, spetterebbe ai giudici ricercare, nell’ambito delle possibili scelte esegetiche astrattamente prospettabili, quella la cui portata non entri in contraddizione con la Costituzione, non potendo l’organo giudicante, attraverso una semplice ordinanza di rimessione alla Consulta, spogliarsi sic et simpliciter del suo compito tipico che è quello di interpretare ed applicare le norme, con l’unica eccezione di una disposizione tanto vaga da precludere interpretazioni univoche ed agevoli della propria valenza precettiva (ex multis, Corte Cost. n. 15/1973).

Sulla base di queste considerazioni, si è discusso molto circa la conformità al principio di tassativita, della fattispecie penale di guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti (art. 187, D.Lgs. n. 285/1992). Segnatamente, si è evidenziato che mentre la disposizione relativa alla “guida sotto l’influenza di alcool” (art. 186, D.Lgs. n. 285/1192) prevede tassi soglia ben precisi e determinati, altrettanto non avviene con riferimento al reato di cui all’art. 187 D.Lgs. n. 285/1992. Sul punto si è rinunciata la Corte costituzionale, la quale con sentenza 27 luglio 2004, n. 277 ha ritenuto che la fattispecie incriminatrice è “sufficientemente determinata, risultando essa integrata dalla concorrenza di due elementi, l’uno obiettivamente rilevabile dagli agenti di polizia giudiziaria (lo stato di alterazione), e per il quale possono valere indici sintomatici, l’altro, consistente nell’accertamento della presenza, nei liquidi fisiologici del conducente, di tracce di sostanze stupefacenti o psicotrope, a prescindere dalla quantità delle stesse, essendo rilevante non il dato quantitativo, ma gli effetti che l’assunzione di quelle sostanze può provocare in concreto nei singoli soggetti”.

Devesi nondimeno constatare una nuova sensibilità verso le istanze garantiste sottese ad un’applicazione rigorosa del principio de quo rivelata dagli ultimi arresti giurisprudenziali della Corte Sovrana, che è più volte intervenuta a sanzionare disposizioni incriminatrici contrastanti con l’ineliminabile esigenza di precisione del dictum legis, non sempre garantita dalle opzioni ermeneutiche avallate dalle pronunce di rigetto; viene al riguardo in rilievo, ex plurimis, la sentenza n. 34/1995 che ha interessato, con una declaratoria di incostituzionalità, il disposto di cui all’art. 7-bis, co. 1, del D.L. n. 416/1989 concernente un’ipotesi di reato in materia di immigrazione.

Con la modifica al t.u. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e sulla condizione dello straniero (legge n. 286 del 1998) ad opera della c.d. legge Bossi-Fini (legge n. 189 del 2002), è sicuramente iniziata una stagione difficile per gli extracomunitari irregolari o clandestini. Lo straniero irregolare o clandestino può infatti trovarsi sottoposto a procedimento penale con rito direttissimo in stato di arresto nel caso in cui non abbia ottemperato entro il termine di 5 giorni all’ordine del questore di lasciare il territorio italiano. Siffatto ordine è disciplinato dall’art. 14 comma 5-bis del t.u. anche nei suoi requisiti formali: esso deve essere dato con provvedimento scritto, recante l’indicazione delle conseguenze penali della sua trasgressione. Benché la norma indichi anche i presupposti sostanziali che lo giustificano – ovvero la impossibilità di trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, ovvero il trascorrere dei termini di permanenza senza che sia stato eseguito l’espulsione o il respingimento – essa non fa alcun riferimento, quale requisito formale del provvedimento, all’indicazione dei motivi che giustificano l’emissione dell’ordine. Tale requisito viene comunque ricavato dalla disposizione generale di cui all’art. 3 legge n. 241 del 1990.

La legge Bossi-Fini ha introdotto nel t.u. l’art. 14, co. 5-ter, che punisce lo straniero che, senza giustificato motivo, si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis del medesimo articolo. Trattasi questa di modalità di espulsione alternativa rispetto all’accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera, prevedendone l’arresto obbligatorio.

Lo straniero nei cui confronti lo Stato non è in grado di realizzare l’espulsione o il respingimento, a fronte dell’ordine del questore di allontanarsi, non ha dunque altra alternativa che adempiere allo stesso ricorrendo alle proprie “forze”, salvo ricorra una ipotesi di “giustificato motivo “.

A fronte della scelta politico-criminale, forse eccessivamente “oppressiva”, che ha spinto il legislatore a “delegare” all’iniziativa dello straniero il proprio allontanamento dal territorio dello Stato italiano con la minaccia della privazione “immediata” della libertà personale, non stupisce come mai l’applicazione di tale ipotesi criminosa sia stata contrastata, non solo a causa dei dubbi esegetici che hanno non poco impegnato gli interpreti, ma sotto il profilo della compatibilità rispetto alle norme internazionali che regolano la condizione dello straniero e, soprattutto, con i fondamentali principi costituzionali che garantiscono le libertà del singolo a prescindere dalla sua condizione di cittadino.

Si registra peraltro una recente decisione del Giudice delle Leggi che analizza funditus il problema della compatibilità delle c.d. clausole elastiche con il dettato di cui all’art. 25 della Gründnorm, con particolare riferimento all’espressione “senza giustificato motivo” rinvenibile all’interno della descrizione normativa del reato de quo.

La questione è stata sottoposta al vaglio di costituzionalità da alcuni Tribunali di prime cure, i quali hanno ritenuto che la citata clausola, atta ad escludere la punibilità dello straniero laddove ricorra un giustificato motivo, risultasse talmente indeterminata da rimettere all’arbitrio dell’interprete l’identificazione, anche in negativo, del comportamento incriminato. Come visto, l’art. 14, co. 5-ter, richiede per la punibilità dello straniero che non ottempera all’ordine del questore che il suo trattenimento nel territorio dello Stato avvenga «senza giustificato motivo». Trattasi di clausola normativa che compare anche in altre figure criminose, e che esprime la chiara volontà del legislatore di non rendere assoluto il comando penalmente sanzionato ma di condizionarlo alla mancanza di una situazione che rende lecita la violazione dello stesso.

Se dunque non sussistono dubbi in ordine alla funzione che il giustificato motivo assolve nell’economia della fattispecie, dibattuta è invece la sua qualificazione dogmatica.

Alcuni interpreti, prendendo le mosse dalla collocazione di tale elemento all’interno del fatto tipico, ritengono che il giustificato motivo costituisca un presupposto negativo del fatto.

Una diversa tesi afferma invece che il giustificato motivo deve essere valutato alla stregua di una causa di giustificazione, facendo riferimento a quelle situazioni che sarebbero comunque riconducibili agli artt. 51 ss. c.p.: si pensi ad es. alla tutela della salute dello straniero, della sua dignità, della famiglia e della prole, della persona, ecc., situazioni che certamente sono riconducibili nell’ambito dell’esercizio di un diritto. Sembra cogliere maggiormente nel segno la tesi che nega che il giustificato motivo si collochi all’interno del fatto tipico. Infatti, non si vede in che modo il giustificato motivo incida sull’individuazione del contenuto del disvalore della fattispecie: tale formula fa riferimento a situazioni esterne ed estranee al nucleo offensivo del fatto cui il legislatore decide di dare rilevanza per ragioni estrinseche allo stesso.

Ove si accedesse a questa tesi, spetterebbe necessariamente all’accusa l’onere assolutamente diabolico di provare l’assenza di tutte quelle innumerevoli situazioni che giustificherebbero la permanenza nel territorio, in tal modo realizzando la pratica inattuabilità della norma in oggetto. In quest’ottica, il recupero del c.d. onere di allegazione suggerito dalla stessa Corte costituzionale nell’ottica di una piena realizzazione dell’effettività del precetto penale, non si pone in contrasto con la presunzione di non colpevolezza solo laddove si escluda che il “giustificato motivo “ rappresenti un elemento del fatto. A ben vedere, un corretto inquadramento della nozione di “giustificato motivo “ non può che effettuarsi tenendo conto del contenuto semantico del termine.

Il riferimento ai “motivi” operato dal legislatore legittima, anzi impone, una lettura certamente soggettiva della clausola in oggetto. Il concetto di motivo richiama infatti – secondo la dottrina tradizionale – necessariamente un “fatto psichico”: se in generale il motivo rappresenta la causa psichica, lo stimolo, l’impulso, il sentimento, l’istinto che ha indotto il soggetto a porre in essere la condotta e che fonda la sua decisione di delinquere, la clausola in esame costituisce una formula con cui il legislatore, attraverso il parametro della “giustificabilità”, ha deciso di dare rilevanza escludente la punibilità proprio alle motivazioni dell’agente, espressive di una situazione da cui trae genesi la condotta.

La giusta dimensione psicologica che viene così riconosciuta alla clausola ne comporta la collocazione nell’ambito della colpevolezza (intesa in senso normativo), quale ipotesi di scusante. Il giustificato motivo rappresenta, in altre parole, una formula normativa con cui il legislatore dà rilevanza alle situazioni concrete in cui il soggetto si è trovato ad operare e dalle quali è derivata l’impossibilità di pretendere dallo stesso il comportamento richiesto dalla norma e, conseguentemente, l’impossibilità di muovergli un rimprovero.

In sintesi, il “giustificato motivo” rappresenta una formula attraverso cui il legislatore, nell’intento politico-criminale di dare rilevanza a specifiche situazioni che impediscono al soggetto di conformarsi al precetto penale, tipizza una vera e propria ipotesi di inesigibilità. In quest’ottica, il “giustificato motivo” assume la natura di elemento di esclusione della colpevolezza che, come tale, segue la disciplina dell’onere di allegazione da parte dell’imputato.

Una volta riconosciuto al “giustificato motivo” il valore di ipotesi legale di “inesigibilità” della condotta conforme al precetto, deve escludersi a fortiori che lo stesso entri nell’oggetto del dolo: la “giustificabilità”, lungi dal dare contenuto all’oggetto del dolo, rappresenta il parametro attraverso cui il giudice deve valutare in che termini la situazione concreta eventualmente allegata incida sulla effettiva rimproverabilità della condotta.

Nella specifica dimensione del delitto di illecito trattenimento nel territorio dello Stato, la consapevolezza da parte del cittadino straniero della non giustificabilità del suo mancato trattenimento non può dirsi che entri nel contenuto del dolo, posto che il giustificato motivo rappresenta una valvola di sfogo con cui il legislatore ha deciso di dare rilevanza a situazioni che rendono impossibile o assolutamente difficile da parte sua il rispetto dell’ordine del questore e la cui sussistenza esclude la possibilità di muovergli un rimprovero.

Muovendosi nel percorso indicato dalla giurisprudenza, assumeranno così rilevanza scusante tutte quelle “situazioni ostative di particolare pregnanza” incidenti “sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa” con esclusione, dunque, di quelle “situazioni riconducibili alle scriminanti previste dall’ordinamento” che rilevano già di per sé a livello di antigiuridicità secondo i parametri dettati dall’art. 59 c.p. Si pensi, in particolare, alle difficoltà di ottenimento dei documenti di viaggio, alla indisponibilità di mezzi per lasciare il territorio, alla assoluta impossidenza, al mancato rilascio dei documenti validi per l’espatrio.

Viceversa, non potranno assurgere al ruolo di scusante, in quanto non rappresentano un “giustificato motivo “, quelle situazioni che “riflettono la condizione tipica del migrante economico, sebbene espressive di istanze in sé e per sé pienamente legittime”.

Va tuttavia precisato che il fulcro su cui si incentra la valutazione della sussistenza del giustificato motivo, per la sua collocazione nell’ambito della colpevolezza e non nell’ambito del dolo è costituito dalla possibilità di muovere un rimprovero allo straniero, con la conseguente necessità di appurare, da parte del giudice, che le situazioni allegate dall’imputato quale “giustificato motivo” non siano invece inquadrabili nella sua libera volontà di non adempiere in ogni caso all’ordine di allontanamento dal territorio.

Si pensi a tale ultimo proposito al caso dello straniero che, a fronte dell’ordine del questore di allontanamento, non si sia attivato in alcun modo per porre in essere le condizioni dell’adempimento, ad es. attivandosi per procurarsi i mezzi economici per far fronte alle spese del viaggio di rientro o rivolgendosi agli organi diplomatici che rappresentano il suo Paese in Italia.

Non si comprenderebbe quale condotta dovrebbe tenere nei cinque giorni successivi il destinatario dell’ordine, il quale versa nella stessa situazione di grave difficoltà presupposta dalla norma (per mancanza di documenti di riconoscimento o di viaggio, di denaro, o per analoghe ragioni), onde evitare di incorrere nella sanzione penale.

Alla denunciata incapacità della disposizione criminosa di fungere da discrimen in grado di selezionare le condotte penalmente rilevanti, non corrisponde tuttavia una pronuncia di accoglimento della Corte Sovrana, la quale con un argomentare puntuale e attento ribadisce l’ineliminabilità dall’ordinamento giuridico degli elementi elastici della fattispecie, idonei a fungere da valvole respiratorie del sistema rendendolo duttile nei confronti di quella realtà sociale che pur dovrebbe disciplinare, senza nondimeno consentire il totale sopravvento di quest’ultima, che invece si verifica nell’ipotesi di tipizzazione di parametri vaghi e indefiniti, spesso emotivi e perciò solo odiosi.

Nella norma in esame la duttilità della clausola “senza giustificato motivo” opera a favore dell’imputato, il quale può sottrarsi all’applicazione del precetto nell’eventualità che il medesimo postuli un comportamento inesigibile in riferimento alla realtà fattuale concretamente determinatasi, che per la sua molteplicità rifugge ad una rigorosa tipizzazione che, giova ribadirlo, nocerebbe all’extracomunitario.

Una simile elencazione sconterebbe immancabilmente – a fronte della varietà delle contingenze di vita e della complessità delle interferenze dei sistemi normativi – il rischio di lacune che determinerebbero l’inverarsi di una sanzione penale anche laddove la medesima si riconnetta ad una condotta che non avrebbe comunque potuto esplicarsi differentemente da come si è manifestata nel caso concreto.

Trattasi di “situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi configgenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori”: così opinando, la Corte sancisce che la clausola elastica allarga le maglie della non punibilità oltre le scriminanti tipizzate, l’esclusivo riferimento alle quali renderebbe pleonastica la medesima annientandone la portata attraverso una non condivisibile interpretatio abrogans.

Tanto premesso in via di principio, la Consulta non si spinge fino a legittimare aprioristicamente ogni clausola generale, asserendo anzi che la stessa consente una valutazione in termini di costituzionalità solo qualora all’esito di un’esegesi sistematica che abbia riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione e al contesto ordinamentale in cui quest’ultima si inserisce l’organo giudicante possa stabilire il significato che l’espressione esprime e dunque sussumere il comportamento concreto nella fattispecie astratta con un sufficiente grado di sicurezza; si richiede, in altri termini, che il concetto elastico di volta in volta in rilievo, operi quale “fondamento ermeneutico controllabile” nei suoi risvolti applicativi.

Ed è di tutta evidenza che quanto asserito vale a fortiori per il destinatario della disposizione incriminatrice, il quale deve poterne comprendere la portata attraverso “una percezione chiara ed immediata del relativo valore precettivo”, atta a consentirgli con piena cognizione di ubbidire o di disattendere il divieto o il comando in essa recato.

Occorre allora soffermarsi sugli interessi alla cui protezione mira il disposto normativo, nonché sulle disposizioni al medesimo correlate e comunque tali da consentirne un’interpretazione sistematica alla luce del sistema legislativo di riferimento.

I beni giuridici protetti dalla norma sono l’ordine e, di riflesso, la sicurezza pubblica i quali subirebbero un vulnus da comportamenti tenuti dagli extracomunitari in contrasto con la disciplina imperativa predisposta dal legislatore italiano in tema di immigrazione; ed invero, si evidenzia al riguardo un diverso trattamento per lo straniero richiedente il diritto di asilo o rifugiato e il migrante economico, la cui ultima condizione non spiega efficacia paralizzante nei confronti di un eventuale espulsione dal territorio dello Stato.

Ed allora, ad agire quali cause di non punibilità non potranno essere mere condizioni di difficoltà economica, che consentirebbero una più agevole stabilità reddituale rispetto al paese di origine; rileveranno invece, a titolo esemplificativo, quelle giustificazioni che inducono già l’Amministrazione dello Stato a trattenere l’extracomunitario presso un Centro di permanenza temporanea e che sono codificate dall’art. 14 primo comma del D.Lgs. n. 286/1998, con esclusione, ovviamente, dell’esigenza di provvedere ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, che si possono presumere a lui ben note.

È dunque il dialogo tra norme di un medesimo decreto legislativo, in uno con il loro innesto sul piano fattuale, a decretare in via esegetica il riempimento di quella valvola respiratoria che altrimenti resterebbe monca e silente di fronte al fenomeno sociale che interviene a disciplinare.

Non è dato muovere rilievi in termini di incompatibilità con il disposto di cui all’art. 25 della Carta Fondamentale, perché essi trovano soluzione sul piano ermeneutico, modellandosi l’elemento elastico alla stregua dei parametri derivanti da disposizioni in tema di immigrazione che ne condividono la ratio e dunque la finalità ultima.

E tanto non solo per un’insopprimibile istanza di certezza e di chiarezza, che sempre deve accompagnare la formulazione di un precetto, specie di natura penalistica, quanto piuttosto a tutela del diritto inviolabile di difesa, sancito imperativamente dall’art. 24 della Carta Fondamentale, il quale vedrebbe elusa la sua portata qualora l’imputato non potesse conoscere precipuamente il contenuto del divieto o dell’obbligo penalmente sanzionato, la cui precisione sola consente di apprestare un’utile strategia difensiva.

E tuttavia, una non condivisibile e troppo rigorosa rigidità nella formulazione delle norme urterebbe con le caratteristiche che massimamente le connotano: la generalità e l’astrattezza, che appaiono indefettibili attesa l’esigenza cui esse assolvono, che è quella di legiferare su di un uno spettro indeterminato ed indeterminabile di situazioni che solo la creatività e multiformità di una realtà sempre in fieri può, a posteriori, dipingere.