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Aborto: esiste un diritto del concepito di non nascere se non sano? Il diritto a non nascere è adespota

Si suole porre l’attenzione sulla tematica inerente la tutela giuridica del concepito che venuto al mondo lamenti la sussistenza di patologie che non gli consentano di condurre una vita normale, adducendo che la sua nascita sia imputabile alla condotta imperita del sanitario, il quale abbia precluso alla madre di esercitare la scelta in ordine alla prosecuzione della gravidanza in modo consapevole. Nella specie è il caso in cui il medico abbia omesso di diagnosticare la presenza di malformazioni presenti nel feto.

Occorre preliminarmente ricordare che la Legge del 22 maggio 1987, n. 194 disciplina il diritto della donna in stato interessante, nella ricorrenza di presupposti puntuali, di interrompere la gravidanza. Esso non si connota quale mezzo di controllo delle nascite, non essendo ammesso il cosiddetto aborto eugenetico, ma come esplicazione del più ampio diritto alla procreazione cosciente e responsabile. Non è possibile, difatti, accordare alla donna gravida, per l’importanza degli interessi sottesi, la facoltà di rivedere in ogni momento, sino al parto, la propria scelta di divenire madre.

Giova evidenziare che la normativa summenzionata modula diversamente il diritto di abortire a seconda che il medesimo venga esercitato nei primi novanta giorni dal concepimento o successivamente. È fuori dubbio che il diritto ad una procreazione responsabile da cui discende la libera scelta se dare alla luce un figlio e quando, incontra limitazioni più severe dopo il decorso dei novanta giorni dal concepimento, in quanto la tutela del concepito giunge ad uno stadio ulteriore, tanto da prevalere rispetto alla volontà della madre di non condurre a termine la gravidanza.

È evidente che l’interesse principalmente tutelato, è il diritto di ogni donna ad una procreazione responsabile il quale costituisce un’esplicazione dell’inviolabile libertà personale ex articolo 13 della Carta Fondamentale. In via gradata rispetto alla tutela della donna, in quanto non ancora persona, assume rilievo costituzionale anche la salute del concepito[1].

Ai fini di un esercizio consapevole del diritto alla procreazione responsabile è necessario che la gestante sia informata di ogni circostanza idonea ad influire sulla decisione di interrompere o proseguire la gravidanza[2]. Al riguardo si rammenta che alla base dell’esercizio del diritto alla procreazione vi sono delle conoscenze di tipo medico specialistico, che attengano allo stato di salute attuale o futuro della donna e del feto[3]. Tali informazioni risultano necessarie in quanto idonee a rilevare la sussistenza di pericoli per l’una o per l’altro, con precipuo riferimento alla possibile presenza nel concepito di malformazioni o anomalie che possano pregiudicare l’integrità psicofisica della gestante.

La condotta del sanitario, quindi, assume un preminente rilievo, qualora pur in presenza di un quadro diagnostico sufficientemente chiaro, ometta di informare la donna in ordine alla sussistenza di anomalie o malformazioni[4]. Dal canto suo, la donna per motivi etici, religioni e culturali, ben può decidere di portare a termine una gravidanza anche in presenza delle rilevate patologie del concepito. Questa, però, è solo una delle possibilità, essendo invece probabile che la stessa, posta di fronte all’eventualità di dover accudire un disabile, di dover sacrificare tempo, energie ed attenzioni ulteriori rispetto a quelli richiesti da un bambino sano e ancora di dover sopperire alle ingenti spese di cura e di assistenza, possa optare per l’aborto.

Alla luce delle argomentazioni ora svolte, è evidente come una puntuale informazione in ordine allo stato di salute del feto, con particolare riguardo alla circostanza che il medesimo presenti malattie genetiche, o la mancanza di arti inferiori o superiori, o altre anomalie, rientri tra i contenuti principali del dovere del ginecologo di eseguire correttamente la prestazione richiesta.

Ciò posto, giova rammentare che il contratto tra il medico e la gestante ha effetti protettivi verso terzi: il padre e il nascituro. È proprio sulla tutela del nascituro che si vuole porre maggiore attenzione, discernendo il diritto del feto a nascere sano, salvaguardato dall’articolo 32 della Costituzione e il diritto a non nascere che non trova fondamento alcuno.

Tuttavia, stante il profilo privatistico della responsabilità contrattuale, extra contrattuale e da contatto sociale, il “diritto a nascere sani” impone che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie. Parimenti il profilo pubblicistico richiede che siano predisposti quegli istituti normativi o quelle strutture di tutela, di cura ed assistenza della maternità, idonei a garantire nell’ambito delle umane possibilità, la nascita sana.

Non è concepibile un diritto di non nascere se malformati, in quanto la stessa Legge n. 184/1978, la quale riconosce, in presenza di presupposti puntuali, il diritto di interrompere la gravidanza, chiarisce nel suo incipit che l’aborto non costituisce mezzo di controllo delle nascite. Viene, così, vietato il cosiddetto aborto eugenetico, al quale non può ricorrere né la gestante né il nascituro, una volta nato, al fine di conseguire il risarcimento del danno derivante dalla mancata possibilità della madre di farvi ricorso.

Il diritto della donna di non condurre a termine la gravidanza è infatti posto a tutela della salute, anche psichica, della stessa, onde evitare che la sua integrità psicofisica sia compromessa, anche a causa della conoscenza di malformazioni del nascituro. La conoscenza della sussistenza di anomalie nel feto viene dunque in rilievo solo ove sia in grado di compromettere l’equilibrio biopsichico della gestante, e non al fine di evitare a chi nasce di intraprendere un’esistenza difficile, ingiusta, dolorosa, non voluta, o ancora alla donna una gravidanza indesiderata[5].

Alla luce delle superiori considerazioni il diritto del neonato ad evitare una vita non voluta non riceve alcuna tutela dalla normativa vigente. L’articolo 1 del codice civile subordina l’acquisto della capacità giuridica al momento della nascita, ne deriva che fino a quell’evento, il concepito non può vantare diritti. Anche dopo la nascita, in capo al medesimo non può sorgere il diritto di non nascere perché è fortemente contraddittorio ammettere che il diritto di non esistere nasca contestualmente all’evento che lo pregiudica.

Il diritto di non nascere non può mai essere esercitato, in quanto è un diritto che solo se viene violato ha, per quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è, non esisterebbe mai un titolare[6]. A tali considerazioni giunge anche la Sentenza della Cassazione Civile n. 14488/2004 secondo cui “il nostro ordinamento positivo tutela il concepito e quindi l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui se di diritto vuol parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere.

Vi è di più, la sussistenza di un diritto di non nascere se non sani esporrebbe, la madre, a conoscenza delle anomalie del concepito, alla scomoda alternativa di scegliere tra l’aborto e il risarcimento dei danni nei riguardi del nascituro, una volta nato malato. Invero la sua scelta di non interrompere la gravidanza non sarebbe libera, ma andrebbe incontro ad un’eventuale responsabilità che sotto il profilo civilistico, si tradurrebbe nell’obbligo di ristorare i pregiudizi patrimoniali e non che al figlio deriverebbero da una vita scandita dalla malattia.

 

[1] G. CRICENTI, Il concepito soggetto di diritto ed i limiti dell’interpretazione, in Nuov. Giur. Civ. Comm, p. 1268 e ss.; ID, Breve critica della soggettività del concepito, italsi diritti del nascituro, in Dir. Fam. Pers, 2010 p.465 ss;

[2] Cass. Civ. sez. III, 4 gennaio 2010 n.13;

[3] Cass. civ. 11 maggio 2009 n. 10741, cit.

[4] Cass. civ.2 ottobre 2012 n. 16754,

[5] L.FERRAGOLI, op cit.; Cass. Civ. 11 maggio 2009 n. 10741

[6] GUIDO ALPA e ROBERTO GAROFOLI, manuale di diritto civile 2013, nel diritto editore;

Si suole porre l’attenzione sulla tematica inerente la tutela giuridica del concepito che venuto al mondo lamenti la sussistenza di patologie che non gli consentano di condurre una vita normale, adducendo che la sua nascita sia imputabile alla condotta imperita del sanitario, il quale abbia precluso alla madre di esercitare la scelta in ordine alla prosecuzione della gravidanza in modo consapevole. Nella specie è il caso in cui il medico abbia omesso di diagnosticare la presenza di malformazioni presenti nel feto.

Occorre preliminarmente ricordare che la Legge del 22 maggio 1987, n. 194 disciplina il diritto della donna in stato interessante, nella ricorrenza di presupposti puntuali, di interrompere la gravidanza. Esso non si connota quale mezzo di controllo delle nascite, non essendo ammesso il cosiddetto aborto eugenetico, ma come esplicazione del più ampio diritto alla procreazione cosciente e responsabile. Non è possibile, difatti, accordare alla donna gravida, per l’importanza degli interessi sottesi, la facoltà di rivedere in ogni momento, sino al parto, la propria scelta di divenire madre.

Giova evidenziare che la normativa summenzionata modula diversamente il diritto di abortire a seconda che il medesimo venga esercitato nei primi novanta giorni dal concepimento o successivamente. È fuori dubbio che il diritto ad una procreazione responsabile da cui discende la libera scelta se dare alla luce un figlio e quando, incontra limitazioni più severe dopo il decorso dei novanta giorni dal concepimento, in quanto la tutela del concepito giunge ad uno stadio ulteriore, tanto da prevalere rispetto alla volontà della madre di non condurre a termine la gravidanza.

È evidente che l’interesse principalmente tutelato, è il diritto di ogni donna ad una procreazione responsabile il quale costituisce un’esplicazione dell’inviolabile libertà personale ex articolo 13 della Carta Fondamentale. In via gradata rispetto alla tutela della donna, in quanto non ancora persona, assume rilievo costituzionale anche la salute del concepito[1].

Ai fini di un esercizio consapevole del diritto alla procreazione responsabile è necessario che la gestante sia informata di ogni circostanza idonea ad influire sulla decisione di interrompere o proseguire la gravidanza[2]. Al riguardo si rammenta che alla base dell’esercizio del diritto alla procreazione vi sono delle conoscenze di tipo medico specialistico, che attengano allo stato di salute attuale o futuro della donna e del feto[3]. Tali informazioni risultano necessarie in quanto idonee a rilevare la sussistenza di pericoli per l’una o per l’altro, con precipuo riferimento alla possibile presenza nel concepito di malformazioni o anomalie che possano pregiudicare l’integrità psicofisica della gestante.

La condotta del sanitario, quindi, assume un preminente rilievo, qualora pur in presenza di un quadro diagnostico sufficientemente chiaro, ometta di informare la donna in ordine alla sussistenza di anomalie o malformazioni[4]. Dal canto suo, la donna per motivi etici, religioni e culturali, ben può decidere di portare a termine una gravidanza anche in presenza delle rilevate patologie del concepito. Questa, però, è solo una delle possibilità, essendo invece probabile che la stessa, posta di fronte all’eventualità di dover accudire un disabile, di dover sacrificare tempo, energie ed attenzioni ulteriori rispetto a quelli richiesti da un bambino sano e ancora di dover sopperire alle ingenti spese di cura e di assistenza, possa optare per l’aborto.

Alla luce delle argomentazioni ora svolte, è evidente come una puntuale informazione in ordine allo stato di salute del feto, con particolare riguardo alla circostanza che il medesimo presenti malattie genetiche, o la mancanza di arti inferiori o superiori, o altre anomalie, rientri tra i contenuti principali del dovere del ginecologo di eseguire correttamente la prestazione richiesta.

Ciò posto, giova rammentare che il contratto tra il medico e la gestante ha effetti protettivi verso terzi: il padre e il nascituro. È proprio sulla tutela del nascituro che si vuole porre maggiore attenzione, discernendo il diritto del feto a nascere sano, salvaguardato dall’articolo 32 della Costituzione e il diritto a non nascere che non trova fondamento alcuno.

Tuttavia, stante il profilo privatistico della responsabilità contrattuale, extra contrattuale e da contatto sociale, il “diritto a nascere sani” impone che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie. Parimenti il profilo pubblicistico richiede che siano predisposti quegli istituti normativi o quelle strutture di tutela, di cura ed assistenza della maternità, idonei a garantire nell’ambito delle umane possibilità, la nascita sana.

Non è concepibile un diritto di non nascere se malformati, in quanto la stessa Legge n. 184/1978, la quale riconosce, in presenza di presupposti puntuali, il diritto di interrompere la gravidanza, chiarisce nel suo incipit che l’aborto non costituisce mezzo di controllo delle nascite. Viene, così, vietato il cosiddetto aborto eugenetico, al quale non può ricorrere né la gestante né il nascituro, una volta nato, al fine di conseguire il risarcimento del danno derivante dalla mancata possibilità della madre di farvi ricorso.

Il diritto della donna di non condurre a termine la gravidanza è infatti posto a tutela della salute, anche psichica, della stessa, onde evitare che la sua integrità psicofisica sia compromessa, anche a causa della conoscenza di malformazioni del nascituro. La conoscenza della sussistenza di anomalie nel feto viene dunque in rilievo solo ove sia in grado di compromettere l’equilibrio biopsichico della gestante, e non al fine di evitare a chi nasce di intraprendere un’esistenza difficile, ingiusta, dolorosa, non voluta, o ancora alla donna una gravidanza indesiderata[5].

Alla luce delle superiori considerazioni il diritto del neonato ad evitare una vita non voluta non riceve alcuna tutela dalla normativa vigente. L’articolo 1 del codice civile subordina l’acquisto della capacità giuridica al momento della nascita, ne deriva che fino a quell’evento, il concepito non può vantare diritti. Anche dopo la nascita, in capo al medesimo non può sorgere il diritto di non nascere perché è fortemente contraddittorio ammettere che il diritto di non esistere nasca contestualmente all’evento che lo pregiudica.

Il diritto di non nascere non può mai essere esercitato, in quanto è un diritto che solo se viene violato ha, per quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è, non esisterebbe mai un titolare[6]. A tali considerazioni giunge anche la Sentenza della Cassazione Civile n. 14488/2004 secondo cui “il nostro ordinamento positivo tutela il concepito e quindi l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui se di diritto vuol parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere.

Vi è di più, la sussistenza di un diritto di non nascere se non sani esporrebbe, la madre, a conoscenza delle anomalie del concepito, alla scomoda alternativa di scegliere tra l’aborto e il risarcimento dei danni nei riguardi del nascituro, una volta nato malato. Invero la sua scelta di non interrompere la gravidanza non sarebbe libera, ma andrebbe incontro ad un’eventuale responsabilità che sotto il profilo civilistico, si tradurrebbe nell’obbligo di ristorare i pregiudizi patrimoniali e non che al figlio deriverebbero da una vita scandita dalla malattia.

 

[1] G. CRICENTI, Il concepito soggetto di diritto ed i limiti dell’interpretazione, in Nuov. Giur. Civ. Comm, p. 1268 e ss.; ID, Breve critica della soggettività del concepito, italsi diritti del nascituro, in Dir. Fam. Pers, 2010 p.465 ss;

[2] Cass. Civ. sez. III, 4 gennaio 2010 n.13;

[3] Cass. civ. 11 maggio 2009 n. 10741, cit.

[4] Cass. civ.2 ottobre 2012 n. 16754,

[5] L.FERRAGOLI, op cit.; Cass. Civ. 11 maggio 2009 n. 10741

[6] GUIDO ALPA e ROBERTO GAROFOLI, manuale di diritto civile 2013, nel diritto editore;