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Aborto procurato

Diritti civili, contraddizioni diffuse
libertà di scegliere
libertà di scegliere

 La questione è tornata di particolare attualità negli ultimi mesi.

Hanno contribuito a riaprirla principalmente tre fattori: 1) Una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d'America (la Sentenza Dobbs versus Jackson del 24 giugno 2022); 2) la campagna elettorale in Italia, nella quale i temi etici sono entrati prepotentemente. Il loro inserimento ha contribuito a delineare sostanzialmente due schieramenti (apparentemente) opposti: quello erettosi a difesa dei cosiddetti «diritti civili» (tra i quali viene fatto rientrare il «diritto» all'aborto procurato) e quello favorevole alla revisione della Legge n. 194/1978 – la cosiddetta legge dell'aborto -, mantenendo, però, la sua prima parte; 3) la diffusione, favorita anche da ragioni elettorali ma che va «oltre» le contingenze elettorali, della tesi secondo la quale «non abortire è un diritto».

Andiamo per gradi.

Sul primo fattore – la Sentenza Dobbs versus Jackson della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America del 24 giugno 2022 – l’«Osservatorio tre Bio» si è già soffermato sia con un primo commento di Rudi Di Marco, dd. 11 luglio 2022, sia con la nota del sottoscritto, dd. 25 luglio 2022. (Sulla questione vi ritornerà).

È bene richiamare e sottolineare, comunque, che la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America non ha stabilito che l’aborto procurato è un reato; si è limitata a dire che esso non è un diritto costituzionalmente garantito (ovviamente dalla Costituzione degli U.S.A.), ma che può essere «conferito» (vale a dire «riconosciuto», cioè «posto») dai singoli Stati.

L’aborto procurato, se riconosciuto legalmente, sarebbe consentito e la sua pratica sarebbe «neutrale» per il diritto in sé e per sé; esso, cioè, sarebbe un diritto soggettivo, rectius un diritto generato da una facoltà riconosciuta al soggetto dalla norma positiva, una facultas agendi ex norma agendi. Il che equivale a dire che il diritto sarebbe creato con la norma; dipenderebbe dal suo «riconoscimento».

Può, al contrario, non essere un diritto se la norma positiva lo ignora o lo proibisce. Condizione del diritto, perciò, sarebbe l’ordinamento «giuridico» positivo. In altre parole ancora il diritto verrebbe a dipendere dalla volontà (arbitraria) dello Stato o dall’arbitraria volontà di una maggioranza. L’ordinamento nazista, pertanto, rendendo vigente la volontà del Reich, alla luce di questa teoria, avrebbe posto «diritti» al pari di ogni altro ordinamento.

Alla luce di questa teoria il Tribunale di Norimberga, per esempio, avrebbe applicato un «diritto» contrario a quello nazista la cui legittimità, però, andrebbe cercata al pari del «diritto» nazista, nel potere, nel potere della Potenza (il linguaggio rousseauiano rivela l’assolutismo della democrazia moderna) che l’ha imposto, avendo vinto la guerra. Se la guerra fosse stata vinta da Hitler, diritto sarebbe stato quello reso vigente dalla Germania nazista. Come si vede anche la Sentenza Dobbs versus Jackson della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America poggia sul nichilismo «giuridico».

Non è né a favore né contro l’aborto procurato. La legalità dell’aborto procurato (e conseguentemente il diritto soggettivo ad esercitarlo) dipende dalla volontà degli Stati, da chi ha il potere (formale) di porre le norme, accompagnato dal potere sostanziale di renderle effettive. De hoc satis, per ora.

Per quel che attiene al secondo fattore che ha contribuito a «riaprire» la questione circa la legittimità dell’aborto procurato, si deve osservare che coloro che sostengono che la revisione o l’abrogazione della Legge n. 194/1978 rappresenterebbe la violazione dei «diritti civili», condividono, innanzitutto, la teoria nichilistica del diritto cui si è appena accennato.

Essi, cioè, sostengono che l’aborto procurato sarebbe un «diritto civile» perché una norma positiva dello Stato lo riconosce come diritto soggettivo.

Non si pongono il problema del fondamento della norma e, quindi, della sua legittimità. Basta loro la norma dello Stato, resa effettiva. La vigenza, però, pone almeno due questioni: la prima riguarda il potere di fare osservare la norma (considerata valida solo perché posta); la seconda il potere di porla. È chiaro che per quanto riguarda la seconda questione, essi ritengono (nella migliore delle ipotesi) che basti un’opzione ideologica, sostenuta nei regimi democratici dal consenso numerico, a legittimarla. Non ci sarebbero altri punti di riferimento per la legittimazione della norma. Anzi, questi non sarebbero nemmeno da cercare, perché il diritto puro è mera forma e il suo punto archimedeo sarebbe il potere, quello che Kelsen credette di poter individuare nel volto di Gorgone. Trattasi di una posizione che non può essere condivisa per la sua brutalità, per il suo essenziale anti-umanesimo, per la sua intrinseca ed ineliminabile irrazionalità. Nessun potere, infatti, trova la sua legittimazione nel potere stesso. Il potere è legittimamente esercitabile solamente se è potestas, vale a dire potere qualificato e intrinsecamente regolamentato. Il che postula l’esistenza di un ordine naturale e la conoscenza delle finalità non arbitrarie da conseguire. La potestas è servizio, il potere puro è arbitrio. Ciò è evidenziato dalle norme palesemente inique. Contrariamente, infatti, a quanto sostengono i giuspositivisti (i quali affermano che le norme in vigore non possono essere ingiuste), si deve rilevare che molte norme positive sono un’iniuria al diritto, alla giustizia. Basteranno alcuni esempi. Innanzitutto si può citare la nazistica Aktion T4, la quale stabiliva, in presenza di alcuni casi, la soppressione della vita di esseri umani per ragioni di igiene razziale. La decisione era presa dallo Stato nazista, il quale applicò poi la norma in senso estensivo. L’applicazione durante la Seconda Guerra mondiale fu estesa, infatti, ai feriti sui campi di battaglia. Lo Stato si arrogava, così, il diritto di disporre assolutamente della vita umana.

Si può citare, poi, come esempio di norma iniqua la normativa cinese relativa alla politica del «figlio unico», introdotta nel 1979 e abolita dalla Corte Suprema di quel Paese nel 2013. La norma faceva divieto alle coppie di procreare più di un figlio. Lo Stato, stabilendo questo limite, imponeva contemporaneamente l’aborto procurato di Stato, violando così i diritti delle coppie e calpestando il diritto alla vita del nascituro. In Cina furono introdotte norme positive che violano il diritto sia prima del 1979 sia dopo il 2013. Quell’ordinamento, infatti, prescrive talvolta gli intervalli di tempo che devono intercorrere tra figlio e figlio. L’ordinamento della Repubblica Popolare Cinese ha introdotto, inoltre, l’eugenetica di massa, vale a dire la politica dei «bambini sani» che è una vecchia tentazione umana e una pratica diffusa sin dall’antichità. Basterebbe pensare alla normativa e al costume della Sparta classica (oggi messa in dubbio da alcuni studiosi). Nella Cina contemporanea, comunque, dopo l’abrogazione della norma che proibiva di avere più figli, si applica la Pgd (Pre-implantation genetic diagnosis) al fine di avere nascite esclusivamente di figli sani.

Norma iniqua è anche quella – passiamo, così, in un campo diverso da quello riguardante il diritto alla vita – che va sotto il nome di Bail in, imposta da una Direttiva europea, dalla Direttiva 2014/59/UE, e recepita nell’ordinamento giuridico italiano con i Decreti Legislativi n. 180 e n. 181 del 16 novembre 2015. Che un creditore possa essere trasformato ope legis in debitore è cosa assurda. Solo l’irrazionalismo dell’Illuminismo (Portalis che condivise quella Weltanschauung, lo disse apertis verbis) può avere la pretesa di sopprimere con la norma positiva dello Stato la realtà e praticare l’arroganza di istituirne una nuova con la medesima legge statale. Il Bail in mantiene questa pretesa.

Gli esempi portati – almeno così ci sembra – dimostrano chiaramente l’irrazionalità di diverse norme positive e la violazione dell’ordine naturale.

L’appello alla norma positiva vigente è, dunque, quanto meno insufficiente per poter definire diritto ciò che che la norma positiva medesima qualifica tale, ovvero ciò che l’ordinamento giuridico prescrive, consente o vieta. Ciò non significa – sia chiaro! – che tutte le norme positive vadano viste con sospetto: la legge (positiva) è nella maggioranza dei casi (dovrebbe esserlo sempre, in verità) determinazione del diritto in circostanze particolari e contingenti. Tutte le norme positive, però, vanno sottoposte al vaglio della ragione. Particolarmente quelle che incidono sui diritti fondamentali, come quello alla vita.

Coloro che sostengono che la revisione o l’abrogazione della Legge n. 194/1978 sarebbero un attentato ai «diritti civili», vanno spesso «oltre» la registrazione passiva ed acritica di quanto consentito dall’ordinamento giuridico positivo. Essi, infatti, invocano il cosiddetto «diritto all’autodeterminazione» per legittimare le loro tesi. Intendiamoci: c’è autodeterminazione e autodeterminazione. L’interpretazione dell’autodeterminazione che l’egemone cultura giuridica, politica e morale dell’Occidente contemporaneo offre, considera l’autodeterminazione come autodeterminazione assoluta della volontà, di una volontà non guidata dalla ragione (sulla questione si veda R. DI MARCO, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017). Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana conferma – e non avrebbe potuto non farlo – questa «lettura», imposta dall’ermeneutica della Costituzione.

Il problema, però, è rappresentato dal fatto che l’autodeterminazione così intesa è una minaccia per lo stesso ordinamento giuridico: se l’individuo ha diritto all’autodeterminazione assoluta della sua volontà, le norme – anche quelle costituzionali – sono un limite al suo esercizio. Tanto è vero che la stessa Corte costituzionale ha sentenziato che, per ragioni di «coscienza», si può derogare anche a doveri e obblighi che la Costituzione prescrive come inderogabili (cfr. Sentenza della Corte costituzionale n. 467/1991).

C’è di più. L’autodeterminazione così intesa porta coerentemente al riconoscimento di diritti che il senso comune, il legislatore pre-costituzionale (cfr., per esempio, art. 5 CC, art. 50 CP) e, talvolta, anche il legislatore post-costituzionale (D. Lgs. n. 211/2003, attuativo della Direttiva europea 2001/20/CE, DL n. 73/2017, Legge n. 119/2017, per esempio) non considerano tali: suicidio assistito, omicidio del consenziente, sperimentazione farmacologica e clinica a fine di lucro personale, etc. Contraddizioni, si dirà superabili con un’interpretazione coerente dell’ordinamento, gerarchicamente ordinata, la quale non può che concludere con il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione (messa, in parte, recentemente in discussione – ulteriore contraddizione – dalla normativa relativa alla pandemia da Covid-19).

Il problema presenta, inoltre, altri aspetti. Il diritto all’autodeterminazione assoluta della volontà impedisce a chiunque: legislatore, forze dell’ordine, privati cittadini di ostacolare o di impedire la realizzazione di qualsiasi progetto o proposito personale. Sarebbe, per esempio, violenza privata (art. 610  CP) ogni intervento teso a non consentire la realizzazione di un proposito suicidario di una persona. In altre parole, ognuno avrebbe il diritto alla «libertà negativa» e al suo esercizio come teorizzato, per esempio, da Locke il quale nel II Trattato (2,4) sostenne che la perfetta libertà è quella che consente agli uomini di regolare le proprie azioni e di disporre dei proprî possessi e della propria persona come meglio credono, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro.

Nel caso della Legge n. 194/1978 va osservato, però, che non si tratta solamente dell’autodeterminazione del soggetto, più precisamente della donna. Anche omettendo altre osservazioni (diritti del padre del nascituro, per esempio), si deve rilevare che l’autodeterminazione della donna, che pratica l’aborto procurato, ha «ricadute» su un terzo, il nascituro. Al nascituro – necessariamente innocente – si procura la morte per decisione di chi avrebbe l’obbligazione di farlo nascere e di farlo crescere. In altre parole l’esercizio dell’aborto procurato non resta entro i limiti della sfera strettamente personale. Va «oltre». L’autodeterminazione in questo caso non ha per confine il cosiddetto recinto «privato». Investe necessariamente la sfera «pubblica».

Si può, perciò, parlare in questo caso di «diritti civili»?. La risposta, ovvia, la lasciamo al lettore.

Il terzo fattore che ha reso nuovamente attuale la questione dell’aborto procurato riguarda, da una parte, la proposta di modificare la Legge n. 194/1978 e, dall’altra, il cosiddetto «diritto di non abortire».

Per quel che attiene al diritto di non abortire va rilevato che la non soppressione della vita del nascituro è innanzitutto un dovere. Mai come in questo caso il diritto è esercizio di un dovere. Non si tratta, quindi, di opzioni soggettive, di scelte da rispettare. Il soggetto (la donna principalmente in questo caso) è tenuta a non abortire. In altre parole è obbligata a conservare la vita dell’essere umano che porta in seno. Chi parla di diritto di non abortire veicola una tesi errata nel suo contenuto ed accoglie simultaneamente la dottrina liberale della neutralità dell’ordinamento giuridico di fronte alla giustizia ed ai valori oggettivi. L’aborto procurato non può essere una scelta soggettiva. Se tale fosse si finirebbe nel nichilismo giuridico di cui supra pur operando una scelta contraria a quella praticata da coloro che ricorrono all’aborto procurato. La neutralità dell’ordinamento giuridico è un errore, inoltre, sia perché essa – la neutralità – è impossibile (almeno di fatto) sia perché la comunità politica, regolata dalla giustizia, ha il compito di aiutare gli uomini ad essere virtuosi (secondo il significato aristotelico di virtù), cioè a realizzare pienamente la loro essenza e a conseguire le finalità inscritte nella loro natura. Ciò postula l’abbandono di ogni forma di relativismo. L’ordinamento giuridico dello Stato è chiamato a prescrivere il rispetto del diritto come determinazione della giustizia, a prescrivere il bene e a proibire il male (anche se non è suo compito tutto il bene e tutto il male). La «confessionalità» dello Stato – contrariamente a quanto pensano anche diversi cattolici contemporanei, persino alcuni di coloro che occupano posizioni ecclesiali apicali (fra questi Ratzinger e alcuni Vescovi come mons. Andrea Turazzi di San Marino, i quali, comunque, sono decisamente contrari all’aborto procurato – è inevitabile. Non secondo la formulazione elaborata ad Augusta nel 1555 e applicata dopo quella pace, bensì come formula istituzionale che riconosce, poggia, rispetta e costantemente si adegua al diritto naturale (classico). Solo un ordinamento giuridico conforme al diritto naturale classico, cioè all’ordine naturale delle «cose», consente di evitare di scambiare il diritto con la pretesa e di trasformare l’ordinamento in strumento «neutrale» per la realizzazione di qualsiasi progetto o proposito. Certo, non basta l’ordinamento giuridico «giusto» a evitare la pratica dell’aborto procurato. Servono anche altre «cose»: l’autentica cultura non ridotta a erudizione, la formazione spirituale e morale delle persone, un’organizzazione sociale non finalizzata alla sola produzione e al conseguimento del benessere animalesco, e via dicendo. L’ordinamento giuridico «giusto» è, però, fondamentale sia per la positiva funzione pedagogica da esso giuocata sia perché concorre – e concorre in maniera determinante – a indicare le regole da rispettare per agire in maniera corretta, conforme cioè al diritto come determinazione della giustizia.

La tesi, dunque, secondo la quale ci sarebbe un «diritto di non abortire», poggia sulle sabbie mobili del relativismo liberale, condiviso e sostenuto anche dalla dottrina del personalismo contemporaneo. Essa, anziché confutare tale dottrina, la rafforza. La «scelta» di abortire o di non abortire è «giustificata» dall’impossibilità – si dice – di trovare argomenti incontrovertibili per l’una o per l’altra posizione. Questa affermazione segna la sconfitta della ragione. Essa è rinuncia aprioristica alla comprensione della questione. È la dichiarazione di fallimento dell’uomo, vocato per natura alla ricerca della verità e alla conoscenza delle «cose». L’agire, se si assume come vero lo scetticismo (questa assunzione sarebbe in sé una contraddizione), sarebbe abbandonato all’irrazionalismo; verrebbe a dipendere, nell’ipotesi migliore, da «atti di fede» laici. Da una parte, con riferimento alla questione de quo, ci sarebbe un’adesione acritica, ovvero aproblematica, all’autodeterminazione della donna (che potrebbe decidere ad nutum della propria maternità) e al «dogma», condiviso anche dalla Corte costituzionale italiana (cfr. Sentenza n. 27/1975), che «impone» di credere che il feto non è (ancora) persona; dall’altra, ci sarebbe il convincimento contrario, cioè che l’autodeterminazione è riservata alle scelte moralmente e giuridicamente legittime e che il feto è già persona. Se non si riuscisse a superare razionalmente questa contrapposizione, il conflitto sarebbe ineliminabile; ogni ordinamento giuridico sarebbe un’imposizione arbitraria a chi non lo condivide; la società non potrebbe poggiare su «valori non negoziabili»; il destino non solo del feto ma di ogni essere umano sarebbe abbandonato alle contingenti decisioni soggettive o di chi ha il potere di imporle senza validi argomenti.

Passiamo ora a considerare molto brevemente la seconda questione del terzo fattore che ha contribuito alla riattualizzazione della questione «aborto procurato». Si tratta della proposta di revisione della Legge n. 194/1978, formulata da parte di coloro che si dichiarano contrari all’aborto e che hanno insistito ed insistono affinché i partiti dichiarino apertamente il loro (eventuale) impegno per la sua revisione (non si dimentichi che in Italia è attualmente – settembre 2022 – in corso di svolgimento la campagna elettorale per le elezioni politiche). Che cosa sostengono costoro? Che la Legge n. 194/1978 non va abrogata ma semplicemente modificata. La sua prima parte – dicono – va mantenuta in vigore e applicata. Non affermano che essa è un pilastro della società (cosa che avrebbe detto il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, mons. Vincenzo Paglia, il quale sembra non ritenere né necessario né opportuno modificarla). Ritengono, piuttosto, che essa, soprattutto per il suo art. 1, sia una legge da applicare, integrandola magari con provvidenze sociali che facilitino la portata a termine della gravidanza e aiutino le madri ad affrontare le successive difficoltà legate alla nascita del figlio.

La proposta ha incontrato un generale consenso fra gli antiabortisti. Essa, però, non è esente da problemi, come ha evidenziato in un breve articolo Daniele Mattiussi (cfr. «Instaurare», Udine, a. LI, n. 2/2022).

I problemi sono principalmente due.

Il primo riguarda l’interpretazione del garantito diritto alla «procreazione responsabile». Generalmente l’affermazione dell’art. 1 della Legge n. 194/1978 viene «letta» dai favorevoli all’aborto procurato come garanzia della decisione, di qualsiasi decisione, della donna: la Repubblica tutelerebbe lo «spazio» entro il quale essa può liberamente operare sulla base di sue personali valutazioni. L’ordinamento giuridico sarebbe chiamato ad esercitare il ruolo di carabiniere la cui consegna è di impedire la violazione dei confini dello spazio riservato all’autogoverno di se stessi.  Da parte dei contrari all’aborto procurato, invece, la stessa disposizione viene «letta» come una tutela del diritto alla procreazione. Non considerano, però, gli antiabortisti, che la garanzia di questo diritto – da considerarsi parzialmente positiva – non investe la tutela del diritto alla vita: essa riguarda solamente il diritto alla procreazione, se voluta. In altre parole, lo Stato si astiene innanzitutto da interventi praticati legalmente (ma non legittimamente) in alcuni Paesi (si pensi, per esempio, alla Cina) e si fa garante del rispetto del diritto alla procreazione. Ciò, però, non rappresenta la garanzia del diritto alla vita del nascituro. Investe esclusivamente il diritto soggettivo della coppia alla procreazione: è la tutela di una «scelta» (considerata valore), non la tutela del valore della vita. È una tutela che riguarda la libertà di agire secondo le proprie opzioni, qualsiasi opzione soggettiva. È, in sintesi, la tutela «liberale» della libertà liberale.

Il secondo problema riguarda l’interpretazione metalegale della «procreazione responsabile». Daniele Mattiussi nell’articolo citato afferma, giustamente, che riducendo la questione all’osso, ci si può trovare di fronte a due «letture». Secondo la «lettura» classica del problema la procreazione responsabile investe molteplici aspetti, innanzitutto morali: chi ha il diritto/dovere di procreare; le conseguenze etico-giuridiche dell’atto della procreazione; i doveri dei genitori verso il concepito; e via dicendo. La seconda «lettura» dell’enunciato «procreazione responsabile» riguarda solamente la donna e, particolarmente, il suo diritto all’autodeterminazione assoluta. In altre parole – secondo questa seconda «lettura» l’espressione «procreazione responsabile» esclude ogni considerazione etica dell’atto procreativo: la donna non deve rendere conto ad alcuno delle proprie opzioni, nemmeno se unita in matrimonio legittimo.

L’art. 1 della Legge n. 194/1978 accoglie questa ratio. La sua interpretazione, infatti, deve essere «costituzionalmente orientata». E la Corte costituzionale ha ritenuto su questa base che l’aborto volontario è un «diritto» costituzionalmente legittimo. Non si tratta di un errore ermeneutico, come troppi e da troppo tempo vanno ripetendo: l’errore sta, piuttosto, nella Costituzione che pone il diritto all’autodeterminazione assoluta della volontà dell’individuo, salvo alcuni limiti ineliminabili dovuti alla convivenza.

Il diritto di «non abortire» (al pari del «diritto» all’aborto procurato) trova certamente la sua legittimazione (positivistica) nell’ordinamento della Repubblica italiana. Esso, però, non va oltre. Non riesce a tutelare il diritto (naturale) alla vita del nascituro.