Arte: il tempo dei Nabis
Arte: il tempo dei Nabis
Aveva cominciato Paul Gauguin, il sognatore fuggito dall’Europa alla ricerca di una società incorrotta che penserà di aver trovato a Tahiti, a raccomandare di non copiare troppo la natura ma di tornare a dar corso all’immaginazione. Era il momento giusto per una nuova svolta, lo compresero un gruppo di giovani pittori che accettarono la denominazione di “Profeti” per caso tradotta in lingua ebraica: “Nabis”. Non solo questi entusiasti pensarono ragionevolmente di poter occupare lo spazio che a poco a poco, se non altro per ragioni anagrafiche, avrebbero lasciato libero gl’Impressionisti, ma compresero che si trattava di fare un percorso inverso: tornare in città. Tornare in città per ricondurre nuovamente l’arte e gli artisti tra la gente; un impegno non facile se pure in quel momento sembrò recepito dal mondo intero.
L’arte non poteva essere unicamente rappresentata dal quadro attaccato sulle pareti del salotto borghese ma doveva far parte della vita riportando la poesia in tutto ciò che gli uomini usano nella loro giornata. Senza almeno una parvenza di mito, si dissero i Nabis, la società conduce una vita asfittica, limitata, assurda. Il mito è gioia e ragione di vivere, essenza della poesia e giustificazione dell’arte. Proprio per ritrovare tutto questo occorreva riscoprire la città, la vita sociale in tutti i suoi aspetti che bisognava rivalutare nel segno della bellezza.
Non più, o non soltanto, affidare tutto al quadro eseguito en-plein-air che rappresentava una fuga dall’indifferenza e una ricerca individualistica, ma ripensare nelle forme dell’arte l’intera vita degli uomini, all’interno delle abitazioni come all’esterno, tra le mura delle città. Per questo, oltre al tentativo di riportare la pittura alla grande decorazione, cercarono di recuperare all’arte gli oggetti di uso quotidiano e ogni possibile arredo della casa progettando le carte da parati, i mobili, le vetrate, i vasi, i paraventi, i ventagli, i manifesti. Quello che venne definito il Liberty internazionale dava le dritte; ovunque e a modo proprio si partecipava al grande sogno; i Nabis fecero egregiamente la loro parte.
Avevano dato vita a un gruppo affiatatissimo pur nelle diversità di caratteri, di vedute e realizzazioni, l’anarchico, il cattolico e magari il fascista potevano lavorare assieme e con convinzione alla stessa opera, era la poesia a unificare il tutto in quest’impegno di generosa utopia che pure dette i suoi frutti. Si ritrovavano una volta al mese per mettere a punto programmi, scambiarsi idee, accettare o meno commissioni di lavoro che potevano essere eseguite serenamente a più mani. Arrivarono al punto di reinventare le feste e relative cerimonie, come quella particolare messa in atto per festeggiare il fidanzamento di Maurice Denis.
Gauguin restava il nume tutelare, riconoscenti ne avevano acquistato un’opera che custodivano a turno per goderne la bellezza e trarne lezione. Non conobbero la povertà, i Nabis, e non sognarono la grandezza, ma pensarono a un mondo ordinato in purezza di forme e di colori. I pericoli che potevano correre, che corsero e a volte subirono, erano la “maniera”, il cerebralismo, l’accademia, l’eccessiva astrazione; quando non vi caddero produssero capolavori.
In certi casi può apparire perfino maggiore ciò che acquisirono, da autori, opere e tendenze (Puvis de Chevannes, Odilon Redon, le stampe giapponesi, i “primitivi” e i quattrocentisti italiani) di ciò che seppero restituire, ma l’impegno fu e resta comunque generoso, nobile, necessario. Poteva capitare che un bosco in autunno venisse letto e rappresentato da loro come un tranquillo salotto nel quale la scontata definizione letteraria del “tappeto di foglie” risultava veramente un tappeto rosso che il tempo non avrebbe potuto scomporre o degradare, un tappeto steso al passaggio d’invisibili fate, elfi, gnomi.
Anche i Mesi dipinti da Denis rappresentano una riscoperta, composizioni che variano appena nei colori pastello, freddi, dorati, sfumati. Le figure sono apparizioni, sacre o profane poco importa, mentre la luce è spesso un lucore riposante. Nella Processione sotto gli alberi perfino le ombre, insolitamente blu, corrono sul terreno e si arrampicano sulle figure come arabeschi intenti a legare ogni parte della composizione.
Quando Denis conoscerà una realtà meno sognante avremo dipinti quali il Ritratto di Eva Maurier nel quale i volumi sono ritrovati attraverso il motivo a righe dell’abito. Del viaggio in Italia resta invece la testimonianza di un entusiasmo e il tentativo di un’appropriazione, il Ritratto di Madame Chausson ha una veste antica su un panneggio quattrocentesco che fa di Denis quasi un precursore degli autoritratti in costume del nostro de Chirico.
Ker-Xavier Roussel rincorse il mito in un tripudio d’erbe, di cieli e di piacevolezze diverse, c’è, nei suoi dipinti allegorici, un cromatismo avvincente, un gestire festoso di figure apparizione che creano un curioso contrasto con le stancanti decorazioni per tappezzerie, variamente ripetute da Ranson.
Eppoi Vuillard, pittore di soggetti familiari divisi dai colori e uniti da atmosfere sognanti, struggenti nei toni anche sensuali, percorsi da un disegno sciolto, guizzante, carezzevole.
Anche il più noto Bonnard con il suo mondo di sensazioni evocate da un colore molle, succoso, a volte acerbo. Più che distinguere gli oggetti a sé stanti, la cura che mette nel rendere tutto fresco come appena colto, fa sì che ogni particolare contribuisca al tutto in una sorta di antica struggente vetrata senza precisi punti di vista, di fuga, di centri focali o di direttrici alle quali affidare lo sguardo. L’occhio può così vagare in lungo e in largo incontrando un costante tessuto pittorico che sembra preludere a Matisse pur senza rinunciare ad atmosfere umide, dal sapore sottile e dal disegno smarrito e ritrovato tra un colore e una forma.
Il gruppo dei Nabis: Bonnard, Vuillard, Denis, Vallotton, Serusier, Ranson, Roussel, resta un esempio forse irripetibile di come anche i sogni sappiano qualche volta imporre le loro felici utopie alla realtà, almeno quanto basta per recuperare la speranza. Il travolgente e duraturo successo mondiale degli Impressionisti ha lasciato poco spazio ai Nabis, il grande pubblico ne ricorda forse alcuni, e magari solo di nome.
“Il Giornale”, Milano 3 maggio 1998