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Percentuali reali sui detenuti coinvolti in attività lavorative utili al reinserimento

Percentuali reali sui detenuti coinvolti in attività lavorative utili al reinserimento
Percentuali reali sui detenuti coinvolti in attività lavorative utili al reinserimento

La Legge n. 354 del 1975, la riforma del sistema penitenziario italiano, prevede che: “L’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato”.

E questo non è un caso, infatti poco prima, la stessa Legge prevede: “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro.”

Perciò la Legge prevede che nelle carceri i detenuti svolgano un lavoro: assicurato e remunerato, elemento fondamentale del trattamento rieducativo del detenuto, al fine di fargli acquisire una preparazione professionale adeguata agli standard reali che troverà all’esterno del carcere, in modo da agevolarne il reinserimento sociale e quindi, abbassando la famosa recidiva di cui tutti parlano, ma di cui nessuno (nemmeno il Ministro della Giustizia) conosce il dato reale.

Tralasciando per ora le considerazioni sulla recidiva, non c’è dubbio che il lavoro è uno dei maggiori, se non il più importante, degli elementi trattamentali, ma allora qual è la situazione del lavoro all’interno delle carceri in Italia?

Gli ultimi dati disponibili li ha forniti, come sempre, la sezione statistica del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e si riferiscono al giorno della fine del primo semestre 2016. Le rilevazioni sono pubblicate semestralmente e quest’ultima, al pari delle precedenti, non è molto rassicurante.

AL 30 giugno 2016, il DAP ha rilevato 15.272 al lavoro che equivalgono al 28,24% rispetto alle 54.072 persone ristrette quello stesso giorno. Quindi, stando ai dati ufficiali del DAP, più o meno un detenuto su tre, lavora, acquisisce un’adeguata preparazione professionale utile al suo reinserimento, è adeguatamente remunerato.

È davvero così? No. La situazione è “leggermente” diversa.

Di quelle 15.272 persone che lavorano nelle carceri, ben 12.903 svolgono lavori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, pari all’84,49% del totale dei lavoratori (23,86% dell’intera popolazione detenuta). I restanti 2.369 detenuti invece, lavorano “non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria”, cioè per cooperative, ditte e società esterne.

Qual è la differenza tra queste due tipologie di datori di lavoro (DAP e Società esterne)?

La differenza sta tutta nella tipologia di lavoro che effettuano i detenuti, nel periodo di tempo in cui sono impiegati e nella remunerazione del lavoro effettuato.

Quelli alle dipendenze del DAP si occupano di lavori essenzialmente riconducibili alla gestione e funzionamento ordinario del carcere: spesino, porta-vitto, pulizie etc. Sono lavori poco qualificanti che di certo non possono essere considerati tra quelli che offrono una “preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative” esterne. A meno che, non vogliamo credere che spingere un carrello con i pentoloni del pranzo su e giù per i corridoi del carcere, sia un lavoro “spendibile” all’esterno, che predispone la persona detenuta ad un sicuro reinserimento nella società …

Ad aggravare questa condizione di lavoro poco professionalizzante, interviene anche il fatto che a questo lavoro non è sempre demandata la stessa persona detenuta, ma, stante la condizione di difficoltà economica in cui versa la maggior parte dei ristretti e anche il diritto di ognuno di loro di guadagnare qualche euro e svolgere un’attività che interrompa la monotonia della vita penitenziaria, è prassi comune che quasi ogni detenuto, a rotazione, è impiegato in questo tipo di attività. Questo significa che ogni detenuto riesce ad essere impiegato in questo tipo di lavori, solo per un periodo limitatissimo di tempo, a volte anche solo una settimana l’anno.

Per il DAP però, anche questo è lavoro e ognuno di queste persone detenute “alimenta” le statistiche del totale dei detenuti che lavorano e che, ad uno sguardo poco attento, possono sembrare persone pronte ad essere reinserite nella società dopo anni ed anni di intenso e professionalizzante lavoro svolto in carcere.

Cosa dire invece degli altri 2.369 detenuti che lavorano “non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria”?

Una prima riflessione va fatta sul numero di persone coinvolte. Rispetto alle 54.072 persone detenute il 30 giugno 2016, quei 2.369 ne rappresentano solo il 4,38%. Sono persone impiegate in lavori da assemblatore di componenti, call center, falegnameria, ristorazione/pasticceria, sartoria … lavori che possono essere utili a trovare un impiego vero e sufficientemente remunerato, per ricostruirsi una vita all’esterno del carcere, ma che riguardano solo il 4,38% di tutte le persone detenute. Un po’ pochino …

Un’altra riflessione va fatta sul perché solo il 4,38% dei detenuti (meno di uno ogni duecento) svolge un lavoro che abbia la minima possibilità di consentirgli un reinserimento nella società. Dipende forse dai detenuti che non hanno voglia di lavorare? Dalle leggi finanziarie che tagliano i fondi per il lavoro nelle carceri? Dal mondo imprenditoriale che non è capace a sfruttare le vantaggiose opportunità fiscali offerte a chi impiega manodopera detenuta? Oppure dipende dalla mancanza di capacità manageriali di chi dirige le carceri e dalla inutilità dei tanti progetti e progettini che un ormai sparuto gruppo di funzionari e impiegati civili riescono a “spacciare” come attività lavorative trattamentali?

Provate ad immaginare un’istituzione dello Stato come la Scuola che alla fine dell’anno scolastico, su 100 bambini della prima elementare, riuscisse ad insegnare a leggere e scrivere solo a cinque di loro: partirebbero delle indagini da parte della magistratura o no?

E cosa dire delle decine di strutture, capannoni, officine, sparse in tutte le carceri italiane e abbandonate da decenni oppure utilizzate come magazzini della MOF o come archivi cartacei? Qualcuno del DAP o del Ministero della Giustizia, ha mai fatto una ricognizione di quante e dove sono, comparandole con i progetti e le proposte che l’imprenditoria esterna ha presentato in questi ultimi anni?

E che dire allora di quelle due o tre realtà imprenditoriali che nelle carceri offrono davvero un’opportunità di imparare una professione, un mestiere realmente “spendibile” all’esterno una volta concluso il periodo di detenzione? Sono guidate da dei geni della finanza e premi Nobel dell’economia? Oppure hanno semplicemente messo in pratica capacità e competenze manageriali tali che oggi, le loro aziende e cooperative, non solo a fine mese versano stipendi e contributi come quelli delle aziende esterne, ma sono anche redditizie e vantano fatturati da milioni di euro! Se nel Veneto c’è una percentuale di detenuti “non alle dipendenze del DAP” di quasi il 400% in più rispetto alla media nazionale, significherà pur qualcosa o no?

E quanto incide tutta questa inefficienza, sui costi sociali di lungo termine di un elevato tasso di recidiva a cui andiamo inevitabilmente incontro se continueremo a mantenere queste percentuali di lavoro in carcere, rispetto agli investimenti economici e professionalità manageriali che invece potremmo mettere in campo oggi?

Sono domande banali, quasi elementari, alle quali però il DAP ancora non sa rispondere e che (peggio) fa rimbalzare all’esterno con le dichiarazioni di Capi e Vice Capi DAP che continuano a chiedere un maggiore coinvolgimento imprenditoriale della società esterna.

La gestione della carceri è di competenza del DAP che deve render conto al Ministero della Giustizia che deve render conto al Parlamento, perché le carceri incidono con costi vivi e nascosti, di breve e di lungo termine, su tutta la società italiana.

Chiunque è realmente interessato a migliorare il funzionamento del sistema penitenziario in Italia, deve necessariamente valutare le reali dimensioni dei fenomeni sociali coinvolti, come questi dati reali sul lavoro nelle carceri.

Fino a quando il DAP continua a pubblicare dati statistici fuorvianti sulla recidiva, sulla capienza delle carceri, sulla distribuzione del personale di Polizia Penitenziaria, sulle percentuali di detenuti impiegati in attività lavorative effettivamente utili al loro reinserimento nella Società, non riusciremo a fare nessun passo avanti.

 

Per visualizzare le statistiche degli ultimi dati disponibili pubblicati nel primo semestre 2016 clicca qui.

La Legge n. 354 del 1975, la riforma del sistema penitenziario italiano, prevede che: “L’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato”.

E questo non è un caso, infatti poco prima, la stessa Legge prevede: “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro.”

Perciò la Legge prevede che nelle carceri i detenuti svolgano un lavoro: assicurato e remunerato, elemento fondamentale del trattamento rieducativo del detenuto, al fine di fargli acquisire una preparazione professionale adeguata agli standard reali che troverà all’esterno del carcere, in modo da agevolarne il reinserimento sociale e quindi, abbassando la famosa recidiva di cui tutti parlano, ma di cui nessuno (nemmeno il Ministro della Giustizia) conosce il dato reale.

Tralasciando per ora le considerazioni sulla recidiva, non c’è dubbio che il lavoro è uno dei maggiori, se non il più importante, degli elementi trattamentali, ma allora qual è la situazione del lavoro all’interno delle carceri in Italia?

Gli ultimi dati disponibili li ha forniti, come sempre, la sezione statistica del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e si riferiscono al giorno della fine del primo semestre 2016. Le rilevazioni sono pubblicate semestralmente e quest’ultima, al pari delle precedenti, non è molto rassicurante.

AL 30 giugno 2016, il DAP ha rilevato 15.272 al lavoro che equivalgono al 28,24% rispetto alle 54.072 persone ristrette quello stesso giorno. Quindi, stando ai dati ufficiali del DAP, più o meno un detenuto su tre, lavora, acquisisce un’adeguata preparazione professionale utile al suo reinserimento, è adeguatamente remunerato.

È davvero così? No. La situazione è “leggermente” diversa.

Di quelle 15.272 persone che lavorano nelle carceri, ben 12.903 svolgono lavori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, pari all’84,49% del totale dei lavoratori (23,86% dell’intera popolazione detenuta). I restanti 2.369 detenuti invece, lavorano “non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria”, cioè per cooperative, ditte e società esterne.

Qual è la differenza tra queste due tipologie di datori di lavoro (DAP e Società esterne)?

La differenza sta tutta nella tipologia di lavoro che effettuano i detenuti, nel periodo di tempo in cui sono impiegati e nella remunerazione del lavoro effettuato.

Quelli alle dipendenze del DAP si occupano di lavori essenzialmente riconducibili alla gestione e funzionamento ordinario del carcere: spesino, porta-vitto, pulizie etc. Sono lavori poco qualificanti che di certo non possono essere considerati tra quelli che offrono una “preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative” esterne. A meno che, non vogliamo credere che spingere un carrello con i pentoloni del pranzo su e giù per i corridoi del carcere, sia un lavoro “spendibile” all’esterno, che predispone la persona detenuta ad un sicuro reinserimento nella società …

Ad aggravare questa condizione di lavoro poco professionalizzante, interviene anche il fatto che a questo lavoro non è sempre demandata la stessa persona detenuta, ma, stante la condizione di difficoltà economica in cui versa la maggior parte dei ristretti e anche il diritto di ognuno di loro di guadagnare qualche euro e svolgere un’attività che interrompa la monotonia della vita penitenziaria, è prassi comune che quasi ogni detenuto, a rotazione, è impiegato in questo tipo di attività. Questo significa che ogni detenuto riesce ad essere impiegato in questo tipo di lavori, solo per un periodo limitatissimo di tempo, a volte anche solo una settimana l’anno.

Per il DAP però, anche questo è lavoro e ognuno di queste persone detenute “alimenta” le statistiche del totale dei detenuti che lavorano e che, ad uno sguardo poco attento, possono sembrare persone pronte ad essere reinserite nella società dopo anni ed anni di intenso e professionalizzante lavoro svolto in carcere.

Cosa dire invece degli altri 2.369 detenuti che lavorano “non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria”?

Una prima riflessione va fatta sul numero di persone coinvolte. Rispetto alle 54.072 persone detenute il 30 giugno 2016, quei 2.369 ne rappresentano solo il 4,38%. Sono persone impiegate in lavori da assemblatore di componenti, call center, falegnameria, ristorazione/pasticceria, sartoria … lavori che possono essere utili a trovare un impiego vero e sufficientemente remunerato, per ricostruirsi una vita all’esterno del carcere, ma che riguardano solo il 4,38% di tutte le persone detenute. Un po’ pochino …

Un’altra riflessione va fatta sul perché solo il 4,38% dei detenuti (meno di uno ogni duecento) svolge un lavoro che abbia la minima possibilità di consentirgli un reinserimento nella società. Dipende forse dai detenuti che non hanno voglia di lavorare? Dalle leggi finanziarie che tagliano i fondi per il lavoro nelle carceri? Dal mondo imprenditoriale che non è capace a sfruttare le vantaggiose opportunità fiscali offerte a chi impiega manodopera detenuta? Oppure dipende dalla mancanza di capacità manageriali di chi dirige le carceri e dalla inutilità dei tanti progetti e progettini che un ormai sparuto gruppo di funzionari e impiegati civili riescono a “spacciare” come attività lavorative trattamentali?

Provate ad immaginare un’istituzione dello Stato come la Scuola che alla fine dell’anno scolastico, su 100 bambini della prima elementare, riuscisse ad insegnare a leggere e scrivere solo a cinque di loro: partirebbero delle indagini da parte della magistratura o no?

E cosa dire delle decine di strutture, capannoni, officine, sparse in tutte le carceri italiane e abbandonate da decenni oppure utilizzate come magazzini della MOF o come archivi cartacei? Qualcuno del DAP o del Ministero della Giustizia, ha mai fatto una ricognizione di quante e dove sono, comparandole con i progetti e le proposte che l’imprenditoria esterna ha presentato in questi ultimi anni?

E che dire allora di quelle due o tre realtà imprenditoriali che nelle carceri offrono davvero un’opportunità di imparare una professione, un mestiere realmente “spendibile” all’esterno una volta concluso il periodo di detenzione? Sono guidate da dei geni della finanza e premi Nobel dell’economia? Oppure hanno semplicemente messo in pratica capacità e competenze manageriali tali che oggi, le loro aziende e cooperative, non solo a fine mese versano stipendi e contributi come quelli delle aziende esterne, ma sono anche redditizie e vantano fatturati da milioni di euro! Se nel Veneto c’è una percentuale di detenuti “non alle dipendenze del DAP” di quasi il 400% in più rispetto alla media nazionale, significherà pur qualcosa o no?

E quanto incide tutta questa inefficienza, sui costi sociali di lungo termine di un elevato tasso di recidiva a cui andiamo inevitabilmente incontro se continueremo a mantenere queste percentuali di lavoro in carcere, rispetto agli investimenti economici e professionalità manageriali che invece potremmo mettere in campo oggi?

Sono domande banali, quasi elementari, alle quali però il DAP ancora non sa rispondere e che (peggio) fa rimbalzare all’esterno con le dichiarazioni di Capi e Vice Capi DAP che continuano a chiedere un maggiore coinvolgimento imprenditoriale della società esterna.

La gestione della carceri è di competenza del DAP che deve render conto al Ministero della Giustizia che deve render conto al Parlamento, perché le carceri incidono con costi vivi e nascosti, di breve e di lungo termine, su tutta la società italiana.

Chiunque è realmente interessato a migliorare il funzionamento del sistema penitenziario in Italia, deve necessariamente valutare le reali dimensioni dei fenomeni sociali coinvolti, come questi dati reali sul lavoro nelle carceri.

Fino a quando il DAP continua a pubblicare dati statistici fuorvianti sulla recidiva, sulla capienza delle carceri, sulla distribuzione del personale di Polizia Penitenziaria, sulle percentuali di detenuti impiegati in attività lavorative effettivamente utili al loro reinserimento nella Società, non riusciremo a fare nessun passo avanti.

 

Per visualizzare le statistiche degli ultimi dati disponibili pubblicati nel primo semestre 2016 clicca qui.