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Reato si, reato no! Il singolare fa la differenza

Occupazione cittadini extracomunitari
Reato si, reato no! Il singolare fa la differenza
Reato si, reato no! Il singolare fa la differenza

L’occupazione resta un enorme baluardo da superare.

Le politiche sociali lungi da incrementare polemiche, non pare si siano rivelate, ad oggi, efficaci.

La crisi economica, quale spauracchio che, quotidianamente, ci insegue indefessa sovente conduce diversi datori di lavoro ad assumere cittadini non comunitari in assenza di permesso di soggiorno, scaduto o in fase di rinnovo (non è una giustificazione, ovvio, ma tant’è).

È pur vero che, il lavoro prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro riconoscono a questi ogni diritto alla retribuzione (articolo 2126 del codice civile), ma il datore di lavoro, rischia anche sanzioni penalmente rilevanti dall’irregolare occupazione di un solo cittadino sprovvisto di permesso di soggiorno?

Il quesito, pregevole, si presta a qualche perplessità, ma senza pretesa alcuna lo si ritiene di interesse, posto che pare esista una sola sentenza di merito del Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Conegliano nr. 193/2004 del 19 maggio 2004 che abbia sollevato dei dubbi in tal senso.

Su questo legittimo interrogativo, ci viene in soccorso il Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Pubblicato sulla GU n. 191 del 18 agosto 1998 e entrato in vigore il 02 settembre 1998)

Questo evocato, il Decreto Legislativo con le successive modifiche intervenute sanziona all’articolo 22 comma 12:

Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato. 12-bis. Le pene per il fatto previsto dal comma 12 sono aumentate da un terzo alla metà: a) se i lavoratori occupati sono in numero superiore a tre; b) se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa; c) se i lavoratori occupati sono sottoposti alle altre condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell'articolo 603-bis del codice penale. 12-ter. Con la sentenza di condanna il giudice applica la sanzione amministrativa accessoria del pagamento del costo medio di rimpatrio del lavoratore straniero assunto illegalmente. 12-quater. Nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo di cui al comma 12-bis, è rilasciato dal questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica, allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro, un permesso di soggiorno ai sensi dell'articolo 5, comma 6. 12-quinquies. Il permesso di soggiorno di cui al comma 12-quater ha la durata di sei mesi e può essere rinnovato per un anno o per il maggior periodo occorrente alla definizione del procedimento penale. Il permesso di soggiorno è revocato in caso di condotta incompatibile con le finalità dello stesso, segnalata dal procuratore della Repubblica o accertata dal questore, ovvero qualora vengano meno le condizioni che ne hanno giustificato il rilascio”.

All’articolo 24 comma 15, invece,

“Il datore di lavoro che occupa alle sue dipendenze, per lavori di carattere stagionale, uno o più stranieri privi del permesso di soggiorno per lavoro stagionale, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, è punito ai sensi dell'articolo 22, commi 12, 12-bis e 12-ter, e si applicano le disposizioni di cui ai commi 12-quater e 12-quinquies dell'articolo 22”.

Da una attenta disamina dell’articolo 22 comma 12 e dell’articolo 24 comma 15, è evidente una diversa terminologia utilizzata dal legislatore per fatti che afferiscono a datori di lavoro in settori di attività diversi.

In effetti, nel primo caso, si parla di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno; nel secondo, invece, di uno o più stranieri privi del permesso di soggiorno per lavoro stagionale. Ebbene, andiamo a raccontare un caso, le cui circostanze sono da ritenersi del tutto casuali, non riferite a fatti e persone individuate o individuabili.

Un datore di lavoro edile veniva deferito all’Autorità Giudiziaria per avere occupato un cittadino di nazionalità indiana, quale operaio edile, senza che quest’ultimo avesse provveduto al rinnovo del permesso di soggiorno.

Giunto il caso innanzi al giudice “a quo”, il datore di lavoro, a mezzo patrocinatore, insisteva sul fatto che non era sua intenzione violare la legge; che aveva comunicato formalmente l’assunzione al Centro per l’impiego.

Vieppiù, lo stesso, riteneva contestato che non poteva aver violato l’articolo 22 comma 12 del DLGS 286/1998, cosi come rubricatogli, stante la sentenza sopra richiamata che, per un caso analogo al suo, aveva ritenuto l’insussistenza della fattispecie incriminatrice.

In vero, a suo dire, la pubblica accusa non aveva posto attenzione alla locuzione usata dal Legislatore che sanziona il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno.

Pertanto, l’occupazione, ancorché irregolare, di un lavoratore, circostanza che, contrariamente, viene ritenuta penalmente rilevante e in via esclusiva nell’articolo 24 comma 15 medesima disposizione, non poteva trovare applicazione nel suo caso.

Per questi motivi, la difesa, a supporto di quanto eccepito, portava in rilievo le regole proprie dell’interpretazione delle norme penali codificate dall’art. 2 del codice penale, nonché dall’ art. 14 delle preleggi.

In effetti, a ben pensare, le evocate norme non consentono una interpretazione analogica, ma obbligano una interpretazione secondo il noto principio di tassatività che statuisce che possa essere sanzionata, esclusivamente, una condotta di un soggetto che è correlata a quanto stabilito dalla norma penale.

Questo sta a significare che comportamenti simili o analoghi debbano ritenersi esclusi dall’applicazione della norma penale quando gli stessi collidono con quanto descritto nel comportamento sanzionato, così come contenuto nella norma penale.

Il principio di tassatività è espressione di garanzia per il cittadino e, di conseguenza, obbliga il giudice ad applicare in modo tassativo la norma.

Nessuna analogia legis o iuris potrà essere invocata per giustificare l’applicazione di una sanzione afflittiva in assenza dei presupposti giuridici.

Tanto ciò è vero che, la sopra indicata analogia, è esclusa anche “in malam partem”, in quanto contrasterebbe con il principio di legalità.

Parimenti, il ricorso all’analogia “in bonam partem”.

In vero, il ricorso all’analogia trova la sua ratio giustificatrice quando il giudice si trova ad affrontare un vuoto normativo.

Ma il ricorso a tale metodo non è ammissibile nell’ambito penale, proprio in virtù del fatto che le sanzioni penali vanno ad incidere sulla libertà personale e il ricorso all’analogia minerebbe finanche l’art. 25 secondo comma della Carta Costituzionale.

Il giudice adito non si è ancora pronunciato su questa espressa circostanza.

Del resto, anche la stessa dottrina, non è unitaria.

Alcuni giuristi ritengono che il ricorso all’analogia potrebbe essere ammesso nelle ipotesi di interpretazione estensiva.

Altrettanti giuristi, di contro, ritengono impraticabile il ricorso all’interpretazione analogico perché il principio contenuto nell’articolo 14 delle preleggi è da intendersi assoluto e la sua disapplicazione violerebbe finanche l’articolo 13 della Costituzione.

Nell’attesa, il plurale e il singolare, mai come in questo caso, hanno generato, incolpevoli, una richiesta di soccorso ermeneutica.