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Blaise Pascal e Carl Sagan: un dialogo a distanza su miseria e grandezza umana

Pale Blue Dot
Pale Blue Dot

Abstract

L’articolo si propone di confrontare due testi tra loro molto diversi, i Pensieri di Pascal e Pale Blue Dot di Carl Sagan per evidenziare alcuni punti comuni nel pensiero degli autori. Tematica centrale e predominante in entrambi i testi è quella legata alla duplice natura dell’uomo, misero e nobile allo stesso tempo, e alla sua posizione nel cosmo, ambigua e misteriosa. Tale questione è talmente radicata nell’animo umano che oltre a questi autori verranno osservati numerosi contributi sul tema dati da scrittori scienziati e filosofi, tutti alle prese con il tema della posizione dell’uomo di fronte alla propria contraddittorietà.

This article aims at comparing some insights of two very different authors.Despite the fact that they differ on many points, Blaise Pascal and Carl Sagan touched the same theme in a way that suggest the possibility of a fruitful comparison. From the reading of some notable passages which show the common ground between the two thinkers, I will continue my reflection examining similar positions in the thought of many religious writers, artists, scientists and philosopher throughout history, in order to show the persistent importance of a theme that is mainly neglected by contemporary thought: that of the inherent contradictions of human nature and human beings.

 

Indice

1. Introduzione

2. Un pallino blu nel cosmo

3. Fragilità e morale: la condizione umana in Pascal (e in Sagan?)

4. Oltre la miseria: progresso, scienza e grandezza umana

5. L’uomo di fronte all’infinito: storia di un topos millenario

6. Alcuni esempi ulteriori

7. Conclusioni

 

1. Introduzione

Questo articolo prende le mosse da una mia precedente riflessione in cui abbozzavo un confronto “a distanza” tra alcuni spunti del pensiero di Pascal e le appassionate riflessioni dell’astrofisico Carl Sagan in seguito alla fotografia spaziale denominata Pale Blue Dot (dal commento della foto sono stati tratti una conferenza alla Cornell University nel 1994 e successivamente un libro).

Intendo qui riprendere alcuni abbozzi di riflessione allora affrontati e approfondire la tematica arricchendola di nuovi spunti teorici.

Saranno affrontati non solo i temi condivisi dai due autori, ma anche di mostrare come la tematica da essi condivisa sia stata affrontata da vari autori, di cui discuteremo brevemente alla fine.

Tema portante di tutta la riflessione sarà in ultima analisi la dialettica che intercorre tra miseria umana e grandezza, concetti posti in circolarità in quanto all’aumentare della nostra grandezza aumenta anche la consapevolezza della miseria, e più siamo consapevoli di quest’ultima più mostriamo quelle doti di riflessività e raziocinio che ci rendono grandi.

Per arrivare a trattare ciò, iniziamo con un confronto tra due autori molto diversi tra loro: Blaise Pascal, matematico, fisico e filosofo del XVII secolo e Carl Sagan, astrofisico, divulgatore scientifico e saggista.

Cattolico di tendenze gianseniste il primo, laico e razionalista il secondo.

Scopo dell’articolo sarà mostrare come ci sia una mirabile convergenza su alcuni temi che esulano dalle diverse posizioni religiose per trattare questioni di generale importanza per gli esseri umani.

 

2. Un pallino blu nel cosmo

Come detto, tutto inizia da una fotografia: è il 1990 e la sonda Voyager 1, in missione oltre il sistema solare, ci mostra una schermata apparentemente anonima di cielo.

Nel buio cosmico emergono strisce colorate, ammassi di pianeti, tra cui emerge, timidamente, un piccolo puntino blu. A pale blue dot, appunto.

A voler scattare quella foto, all’apparenza insignificante, scientificamente poco rilevante ed esteticamente poco attraente, è il responsabile del progetto, Carl Sagan stesso.

E la sua motivazione potrebbe stupire alcuni suoi colleghi più ortodossi e alcuni ascoltatori delle sue conferenze.

La foto fu scattata per riflettere sul posto dell’uomo nel cosmo.

Verrebbe da pensare più ad un saggio di antropologia filosofica che ad un’opera divulgativa di un famoso astrofisico, ma lasciamo la parola all’incipit di Sagan.

Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse. Ma per noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita.

L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni "superstar", ogni "comandante supremo", ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole.

Fin qui, sembrerebbe che la riflessione di Sagan sia l’ennesima “spettacolarizzazione della scienza”, condita con elementi di pathos per risultare affascinante ai lettori (l’espressione “spettacolarizzazione della scienza”, comune negli studi sulla comunicazione pubblica della scienza, la devo a Massimiano Bucchi).

Ma continuando a leggere, e leggendo con più attenzione, notiamo che così non è.

Tutto il brano è dall’inizio alla fine una riflessione sulla piccolezza dell’uomo, raffrontato alle meraviglie cosmiche e agli infiniti spazi siderali.

Ancora Sagan:

La Terra è un piccolissimo palco in una vasta arena cosmica.

Pensate ai fiumi di sangue versati da tutti quei generali e imperatori affinché, nella gloria e nel trionfo, potessero diventare per un momento padroni di una frazione di un puntino. Pensate alle crudeltà senza fine inflitte dagli abitanti di un angolo di questo pixel agli abitanti scarsamente distinguibili di qualche altro angolo, quanto frequenti le incomprensioni, quanto smaniosi di uccidersi a vicenda, quanto fervente il loro odio.

Le nostre ostentazioni, la nostra immaginaria autostima, l’illusione che noi abbiamo una qualche posizione privilegiata nell’Universo, sono messe in discussione da questo punto di luce pallida. Il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico.

Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c’è alcuna indicazione che possa giungere aiuto da qualche altra parte per salvarci da noi stessi. La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora.
Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo.

Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto.»

La consapevolezza della propria piccolezza è per Sagan fondamento dell’etica, un’etica del rispetto dell’altro in quanto entrambi parte di un universo a noi indifferente.

Riconoscere la propria vanità è per Sagan come per Schopenauer stimolo alla compassione: se nulla siamo se non pixel minuscoli in un minuscolo pixel (un atomo opaco, magari non così malevolo come lo vorrebbe Pascoli ma pur sempre un atomo opaco), allora abbiamo la necessità di far fronte comune, “la solidal catena” leopardiana, e di affrontare insieme le avversità.

 

3. Fragilità e morale: la condizione umana in Pascal (e in Sagan?)

Già da qui si potrebbe partire per un confronto con il noto pensatore francese: “principio della morale” è per l’uomo essere “canna al vento”, nullità di fronte al cosmo, fragile creatura di fronte all’immensità dell’essere.

Ma per Pascal ciò non conduce affatto a rassegnazione, perché a tutto l’universo, nella sua grande meccanicistica enormità, manca qualcosa che l’uomo ha: il pensiero.

Già l’accorgersi della propria piccolezza è atto di immensa grandezza dell’uomo, avere consapevolezza di sé e della propria vita lo rende più nobile del cielo, delle stelle e di tutti i pianeti.

Ecco le parole di Pascal:

L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. Non serve che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe comunque più nobile di ciò che l’uccide perché sa di morire e conosce il potere che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla.

Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È da qui che bisogna partire, non dallo spazio e dalla durata, che noi non sapremmo riempire. Impegniamoci quindi a pensare bene: ecco il principio della morale.

Cosa c’entra questo con il discorso di Sagan?

Centrale nei Pensieri è il discorso sulla duplicità e sulla contraddittorietà della natura umana: essa può elevarsi oltre ogni animale, giungere a verità scientifiche, riflettere sulla propria esistenza, dotarsi di sistemi di morale e di credenze religiose.

Ma esso è anche affetto da malattie, debolezze, limiti conoscitivi, passioni sregolate e un sentimento di insignificanza nei confronti dell’universo.

Che novità, che mostro, che caos, che soggetto di contraddizioni, che prodigio! Giudice di tutte le cose e miserabile verme di terra; depositario della verità e cloaca di incertezza e d’errore; gloria e rifiuto dell’universo. Chi riuscirà a sbrogliare questa matassa?

E ancora:

Se si vanta, l’abbasso; se si abbassa, lo vanto e sempre lo contraddico fino a fargli capire che è un mostro incomprensibile.

 

4. Oltre la miseria: progresso, scienza e grandezza umana

Fin troppo spesso si è stati tentati di fare di Pascal il cantore della miseria umana (non che questa interpretazione non sia esatta, visto il disturbante influsso del giansenismo nel suo pensiero – il termine disturbante qui non vuole essere valutativo, quanto sottolineare l’influsso del pessimismo antropologico agostiniano-giansenista sul suo pensiero), ma si tende spesso a dimenticare il contraltare che il filosofo pone a cotanto penosa condizione, cioè la sua grandezza.

E qui torna Sagan: l’uomo, la mostruosa canna al vento, ha costruito una sonda spaziale che lo ha portato ad osservare il proprio pianeta da milioni di chilometri di distanza, oltre ogni distanza prima d’ora raggiunta. Egli è andato oltre ogni limite, ha esplorato tutto il globo, poi gli altri pianeti tramite sonde e infine è addirittura andato più lontano del sistema solare.

E di fronte a questo enorme traguardo della scienza, non ci sono stati da parte di Sagan elogi della tecnica o panegirici dell’umana grandezza, bensì un accorato appello al prendere consapevolezza della propria piccolezza.

Altre citazioni a confronto:

Pascal:

Le scienze hanno due estremità che si toccano, la prima è la pura ignoranza naturale, in cui si trovano tutti gli uomini nascendo, l’altra è quella a cui arrivano le anime grandi che, dopo aver attraversato tutto ciò che gli uomini possono sapere, si accorgono di non sapere nulla, ritrovandosi in quella medesima ignoranza da cui erano partiti, ma questa ignoranza consapevole è una forma di saggezza.

Sagan:

È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo.

Entrambi i pensatori, pur nella loro diversità, ci mostrano come la grandezza dell’uomo sia evidente, ma anche come da essa derivi una sempre più viva consapevolezza della nostra piccolezza nel cosmo.

Ciò non ci deve, né per Pascal né per Sagan, affossare, ma ci deve far riflettere sulla nostra posizione nell’universo con senso di ammirazione e stupore.

 

5. L’uomo di fronte all’infinito: storia di un topos millenario

I nostri autori ci hanno mostrato come la debolezza umana conviva in maniera paradossale nell’uomo con la sua unicità e specificità come creatura razionale, morale e auto-riflessiva.

Dunque, è normale ritrovare nella storia cenni di questo stupore di fronte all’infinito in molti autori precedenti.

In modo simile a quello che facevano i nostri pensatori rifletteva l’autore dei Salmi quando disse:

Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?

Romain Rolland definì questa sensazione di essere sovrastati da un Tutto infinito come “sentimento oceanico” e Freud ne trattò nel suo L’avvenire di un’illusione e in opere successive (il termine fu coniato nel 1927 in occasione di un carteggio epistolare tra Rolland e lo stesso Freud).

Leopardi, forse ormai un po’ un cliché dedito al tema della finitezza umana contrapposta all’Infinito una sua ben nota poesia.

Tale sentimento di fragilità e stupore mosse anche molti scienziati: celebre è l’aneddoto di Enrico Fermi che ritrovò l’interesse per la ricerca scientifica dopo estenuanti sforzi in seguito alla conversazione avuta con un semplice contadino, genuinamente ammirato dal cielo stellato e dalla sua grandezza.

Anche Albert Einstein sperimentava fortemente la limitatezza della condizione umana di fronte alla complessità del cosmo, quando si meravigliava “che la cosa davvero incomprensibile del mondo fosse che il mondo potesse essere compreso”. Compreso da noi, piccoli umani, cosa per niente scontata.

 

6. Alcuni esempi ulteriori

La riflessione sui limiti della ragione potrebbe andare avanti per molto, ma ritengo opportuno solo tratteggiare degli spunti che ci mostrino come alcuni grandi pensatori hanno trattato la medesima questione.

Prendiamo come emblematico il noto filosofo Norberto Bobbio, non credente e illuminista, che pure ebbe a dire:

Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità per me significa, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infinitamente infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo.

L’unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione – perché non lo ripeterò mai abbastanza: non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è mio – è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede.

E che dire di Wittengstein?

Egli disse al suo primo editore: “Buongiorno, gli ho portato il mio libro, si chiama il Tractatus logico-philosophicus, è costituito da due parti, una scritta e una non scritta. Bene, sappia che quella non scritta è di gran lunga quella più importante”.

Ciò rende chiara la famosa asserzione secondo cui chi mi ha seguito sin qui avrà probabilmente scoperto che le mie proposizioni sono prive di senso perché ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.

Di cosa si deve tacere? Dei valori, del senso delle cose, di tutto ciò che non è riducibile a stati-di-cose logicamente trattabili. Di ciò insomma, che va oltre la ragione e sconfina nel mistico (d’altronde, sappiamo da altre fonti che il Wittengstein post-Tractatus si impegnò in una lettura assidua dei classici della mistica cristiana, specie quella di area renana).

A ciò fa eco la riflessione di un grande esperto di filosofia antica, nonché traduttore e commentatore di Wittengstein, il filosofo francese Pierre Hadot (a lui si deve l’introduzione dell’opera di Wittengstein in Francia, giunta nei tardi anni’50 nell’ambiente filosofico francese).

Esperto di mistica neoplatonica e di filosofia ellenistica, ma informato anche alla filosofia del pensatore austriaco, fin dall’inizio del suo Cos’è la filosofia antica? Hadot sostiene convintamente che ci sia molto di ciò che esperiamo che non può essere reso linguisticamente: i limiti del linguaggio non sono, per Wittengstein e per Hadot, limiti del pensiero.

Pare che le ultime parole dette dallo studioso in aula, prima di morire, siano state: “In ultima analisi, possiamo a malapena parlare di ciò che è più importante”.

Anche lui, riconobbe che la ragione, al suo culmine, riconosce il proprio limite, lo accetta e lo assume come punto di partenza per nuove consapevolezze.

 

7. Conclusioni

Abbiamo ripercorso tematicamente alcuni spunti che la tradizione filosofica ci ha offerto per ragionare sulla natura umana, la sua contraddittorietà intrinseca e i numerosi tentativi che sono stati fatti da vari pensatori di rendere conto di tale paradosso.

Alcuni, come Bobbio, hanno preferito fermarsi dove la ragione li conduceva, pur riconoscendo che essa ha senz’altro dei limiti.

Altri, come Wittengstein e Hadot, hanno pensato che ci potesse essere una via ulteriore per superare questa limitazione, via che però sfocia nell’indicibile e nell’incomunicabilità, poiché la miseria umana non può esprimere alcuni concetti, a cui pure giunge.

Sagan, da parte sua, non si getta in riflessioni filosofiche strictu sensu ma abbozza un mondo in cui l’umanità consapevole della propria pochezza nel cosmo viva in armonia senza voler aspirare ad ottenere importanza nell’universo.

La soluzione di Pascal è ben nota: solo alla luce della natura ferita dell’uomo, decaduto dopo il peccato originale si spiega la paradossale “mostruosità” della natura umana.

Nella fede e nella Redenzione di Cristo il pensatore di Clermont-Ferrand vedrà la salvezza dell’umanità, emancipata dalla sua condizione contraddittoria.

Notiamo quindi come la continua dialettica tra conoscenza e consapevolezza del limite sia fondante nel pensiero di Pascal, emerga dalla riflessione di Sagan, ancor meglio se posta in un serrato confronto con alcuni dei Pensieri, e sia presente nel pensiero di autori molto diversi tra loro.

Poiché questa trattazione non ha pretesa di essere esaustiva, si può immaginare che la riflessione si possa sviluppare ulteriormente.

A conclusione di ciò vorrei concludere con una frase di Pascal, forse abusata, ma che nulla ha perso della sua attualità e pregnanza.

Ciò che fa grande la grandezza umana è che si riconosce miserabile; un albero non si riconosce miserabile. Riconoscersi miserabili significa dunque essere miserabili, ma riconoscersi miserabili significa essere grandi.

Letture consigliate - bibliografia

Blaise Pascal, Pensieri, traduzione, introduzione e note di Paolo Serini. Torino, Einaudi, 1962

Carl Sagan, Pale Blue Dot: A Vision of the Human Future in Space, New York, Ballantine Books,1997

Libro dei Salmi, Salmo 8, in particolare dai versetti 4 a 6

Raffaele Luise, Dubbio e mistero. A colloquio con Norberto Bobbio, Cittadella, 2004

Ludwig Wittengstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, 2009

Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? Einaudi, 2010

Per l’aneddoto di Fermi, il testo è riportato su DISF.org

La citazione di Einstein è in Albert Einstein, Fisica e realtà, Franklin Institute Journal, vol. 221, n. 3, marzo 1936