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Di errabondi, correzioni e cortigiani: per un’etica della correzione

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Di errabondi, correzioni e cortigiani: per un’etica della correzione

Dopo aver riflettuto sulla metafora delle organizzazioni come giardini (qui), è stata autorevolmente proposta una riflessione: se ogni persona intervenisse per correggere il soggetto che sporca, poco alla volta, il controllo sociale aiuterebbe a sviluppare il senso etico. Certo, con il rischio, per chi corregge, di ricevere un bel pugno in faccia.

Ognuno di noi ha esperienza di correzione, probabilmente da entrambi i lati di quella che viene percepita come una barricata. Qualche volte ci è andata bene e, solo per caso fortuito, non siamo stati i destinatari di suddetto pugno in faccia; altre volte, invece, siamo stati tra quelli che sono rincasati con un certo prurito alle nocche.

Un dato è però chiaro: la correzione è in grado di suscitare reazioni intense.

Partiamo da noi: immaginiamoci di essere i destinatari di una correzione. Come vorremo avvenisse? Probabilmente stiamo pensando a qualcuno che ci raggiunge (non che ci convoca, ci raggiunge proprio), ci prende sottobraccio, ci porta in disparte e ci sussurra che ci tiene così tanto a noi che vorrebbe ci comportassimo in un modo diverso, che renda maggior giustizia alla nostra intelligenza, alla nostra storia, ai nostri talenti.

Bello vero? Molto difficilmente ci dimenticheremmo di quella correzione perché la vivremmo come un gesto di cura nei nostri confronti (v. incuria). Ma affinché questa magia accada ci deve essere alla base la volontà di creare, mantenere e migliorare una relazione. Solo questa, infatti, è in grado di assorbire gli urti del convulso e scomposto succedersi del reale.

Per contro, in assenza di una relazione genuina e di un orizzonte condiviso, è facile dimenticarsi la gentilezza per cadere nella tentazione di utilizzare la correzione con finalità predatorie, come pretesto per ricavarne vantaggi personali, ricorrendo al proprio innalzamento attraverso l’altrui affossamento e magari alla mortificazione pubblica come manifestazione di potere.

Nelle organizzazioni la questione si complica ulteriormente poiché le relazioni presentano anche una componente gerarchica. Lo squilibrio formalizzato di potere tra attori può alterare o inibire la qualità e la quantità delle correzioni, soprattutto inibendone il flusso che dal basso sale verso l’alto, con ovvie ripercussioni anche sulla qualità processo decisionale.

I motivi per cui le correzioni non riescono a risalire la scala gerarchica sono diversi, e non sono qui tutti compendiabili. Spesso è chi ricopre un ruolo sovraordinato che manda innumerevoli ed espliciti segnali di non gradire la voce critica dei collaboratori. E allora questi, alla lunga, si rassegnano al ruolo di semplici manovali, indirizzando le proprie energie verso altri ambiti della vita in cui possono maggiormente riconoscere una parte di sé nelle cose che accadono (che è il senso che sta dietro al dare il proprio contributo). Siamo in questa situazione quando la followership, troppo a lungo frustrata e consapevole della sua irrilevanza, assume lo stile dell’attaccare l’asino dove vuole il padrone.

Può capitare poi che sia il collaboratore a non riuscire a gestire tutto ciò che gli giunge dai superiori. Subendo passivamente la gerarchia, come può pensare di risalire la corrente e provare a restituire verso l’alto un’idea che potrebbe non essere gradita? Come dire: l’ignavo, che ha eletto la viltà a norma di vita, se il coraggio non ce l'ha, mica se lo può dare.

Ma vi sono anche casi in cui è il collaboratore ad assumere un ruolo più attivo nell’inibire il flusso di correzioni verso l’alto, attuando una strategia che potremmo definire parassitaria. Essa consiste nel somministrare al capo, con sapienza alchemica e secondo occorrenza, dosi di rassicurante complicità, assenza di critica, silenzi, tolleranza dell’intollerabile e adulazione, per un puro calcolo, ovvero con lo scopo di garantirsi una qualche forma di utilità personale.

Le motivazioni di un tale comportamento possono essere molte. Se, semplificando, il comportamento viene spiegato dall’esigenza di soddisfare un bisogno sottostante, possiamo trovare chi vuole dimostrare fedeltà per non perdere il posto e continuare a pagare le rate del mutuo; chi ambisce a ricoprire posizioni superiori; chi accetta di fare lo zerbino perché è l’unico modo per rimanere ed essere riconosciuto, seppur con ruoli da valletto, nella cerchia di quelli che contano; chi pensa che sia l’unico modo per meritarsi le attenzioni di qualcuno; c’è chi ha bisogno di brillare di luce riflessa perché non ha scovato la luce che c’è già dentro di lui… insomma, ognuno è mosso da una personalissima e talvolta insondabile motivazione, che però può precipitare in una distorsione disfunzionale nei rapporti con i superiori. Infatti, la gerarchia, stabilizzando ruoli e rapporti, opera per mettere ordine nella complessità per un fine collettivo e non per essere sfruttata per la ricerca di un tornaconto personale.

Cosa c’entra tutto ciò con l’etica del manager?

C’entra, perché il collaboratore che sceglie la strategia parassitaria (lo chiameremo cortigiano) tenta di disegnare una relazione che presenta inquietanti prossimità con la dinamica corruttiva.

Il cortigiano anticipa utilità (obbedienza, silenzio, adulazione, fedeltà incondizionata, cecità selettiva, annullamento del proprio senso critico, difesa dell’indifendibile) col fine di capitalizzare per sé, al momento opportuno, altre utilità attraverso l’attivazione di una dinamica di gratitudine e di restituzione. Punta cioè ad aprirsi una linea di credito per riscuotere gli interessi sul capitale a suo tempo anticipato, ben sapendo che anche un dono non richiesto favorisce un sentimento di obbligazione che, se non onorato, attiva lo stigma dell’ingratitudine.

Ora, questa strategia parassitaria funziona tanto meglio quanto più il capo è suscettibile alla lusinga. Che ogni posizione di responsabilità (e quindi, di potere) in qualche modo stimoli l’ego, è nell’ordine delle cose. Ma un capo che ama circondarsi di persone che gli danno ragione dovrebbe sapere che corre il grave pericolo di essere manipolato per questa sua debolezza.

Come sempre, poi, è una questione di misura. Se una piccola riserva di cortigiani può fungere, in alcuni momenti, da lubrificante del processo decisionale, un capo dall’ego bulimico, affamato di approvazioni, salamelecchi e ad libitum sfumando, rischia di farsi portare a spasso da cattivi consiglieri. E rischia di male interpretare il proprio ruolo di manager: da artista del far succedere le cose, a mendicante di gratificazioni.

Guardiamoci dentro e intorno. Che capi siamo? Artisti del far succedere le cose o mendicanti del mancante? Attenzione poi a non confondere i fini con i mezzi. Far succedere cose (buone) è il fine del nostro lavoro? O le stesse cose che accadono sono i mezzi per sfamare una patologica voracità di altro?

Abbiamo il sospetto che i nostri collaboratori ci seguano perché, per il solo fatto di aver noi ricevuto un’investitura formale, siamo idonei a erogare un qualche vantaggio, o stanno con noi per forza di attrazione, per la nostra capacità di mobilitare risorse emotive e simboliche, non solo materiali?

E se siamo collaboratori, siamo dei riferimenti leali o dei cortigiani? La nostra followership è occasione di crescita o, cosa ben diversa, fattore di produzione per la nostra scalata professionale?