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Organizzazioni come giardini contro l’ eticidio

Come affrontare il tema guardando le organizzazioni attraverso la metafora del giardino
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Organizzazioni come giardini contro l’ eticidio

In primavera la prof.ssa Grazia Mannozzi ci parlò dell’incuria. Ne propose l’antidoto: piccoli gesti di cura. Ma se i piccoli gesti di cura sono l’antidoto, quanto può essere venefica la loro omissione?

Facciamo un esempio.

Immaginiamo un giardino pubblico ben curato, pulito e con l’erba tagliata di fresco. In questo quadro idilliaco, un passante omette un piccolo gesto di cura: al posto di cercare il più vicino cestino per gettare la carta della merenda, l’abbandona a terra, violando così, per primo, un luogo immacolato.

Passa una seconda persona. E omette lo stesso piccolo gesto di cura. Abbandonando a sua volta il proprio rifiuto, questa contribuisce del 100% al degrado del luogo. Dove c’era un rifiuto, infatti, ora ve ne sono due.

Passa una terza persona. E ancora omette lo stesso piccolo gesto di cura, aggravando la situazione del 50%. Dove c’erano due rifiuti, ora ce he sono tre.

Ora, se ognuno si comportasse come i primi tre della nostra storia, potremmo farci un’idea di quale visione si presenterebbe al millesimo passante.

Ci domandiamo quindi se le diverse condizioni in cui ogni persona trova il parco possano in qualche modo indirizzarne i comportamenti (tenersi la carta della merenda in tasca o abbandonarla dove capita).

Gettare un rifiuto a terra è, alle nostre latitudini, un atto negativamente connotato ma ci si deve realisticamente domandare se il millesimo passante, pur riconoscendo in astratto questo disvalore oggettivo, possa agire determinandosi non tanto sulla base di questo, quanto in base al disvalore relativo (pratico e contingente) del proprio gesto, cioè bilanciando la fatica di dover cercare un cestino con il contributo al degrado, davvero minimale, che comporta il gettare un solo rifiuto in più in una discarica a cielo aperto.

Violare per primi un ambiente immacolato richiede una certa dose di insensibilità ai piccoli gesti di cura. Ma più questo ambiente degrada e più l’incuria arruola tra le sue fila – progressivamente ma inesorabilmente – persone che per nulla al mondo avrebbero gettato qualcosa a terra per prime, ma che per millesime, in base alle condizioni dell’ambiente, potrebbero valutare di farlo. 

Potremmo dunque intuire che tanto più ci si sforza di conservare l’ambiente ordinato e pulito, tanto più si riesce a mantenere la percezione del disvalore vicina al suo bordo oggettivo (non si sporca e basta). Per converso, tanto più il degrado aumenta, quanto più la radicalità dell’oggettività viene depotenziata a vantaggio di una relativizzazione che si nutre perlopiù di considerazioni di tipo contingente, opportunistico ed egoistico (non faccio la fatica di cercare un cestino, cosa sarà mai gettare qualcosa a terra in un posto dove già ci sono migliaia di rifiuti?).

In questo caso l’incuria vince sul terreno dei singoli piccoli gesti di cura mancati e si accumula fino a che la miopia etica dei primi passanti, cammin facendo, diventa la cecità di tutti.

Questo avviene al parco così come nelle organizzazioni. Che fare, dunque?

Partiamo da cosa sarebbe meglio non fare.

Infatti, la prima tentazione potrebbe essere (e spesso lo è) di iniziare a mettere dei cartelli che rendono noti ai fruitori del parco divieti e sanzioni. Per carità, nulla di male, ma è facile immaginare la frustrazione degli amministratori quando questi cartelli non sortiscono gli effetti sperati. La si intuisce quando i messaggi originari (per favore, il parco è anche tuo, non sporcare!) si inaspriscono fino al punto che i divieti diventano severi o assoluti, e le sanzioni a norma di legge sono sostituite dalla minaccia di deferimenti all’autorità giudiziaria. Anche i regolamenti comunali sul pubblico decoro assumono più le sembianze di mini codici penali!

Bisogna domandarsi però se sia utile pretendere di puntellare il cedimento dell’argine etico con un’impalcatura di norme giuridiche. Fino a che punto la terapia di un’etica malandata può consistere in flebo di diritto? È una cura sbagliata, accanimento terapeutico o eticidio?

Infatti, se non è escluso che l’etica possa generare diritto, magari perché, in omaggio alla stabilità dei rapporti umani, si ritiene di positivizzare qualcosa che è ritenuto socialmente doveroso, è più difficile per il diritto retroagire sull’etica. Più spesso, piuttosto, quando il diritto cerca di sottrarre spazi o tempi di manovra all’etica, finisce per rendere questa piccola piccola, un’etichetta, destinata esclusivamente alla cavillosa regolazione della forma.

Veniamo all’auspicabile. Sarebbe bello se ogni organizzazione riscoprisse la propria vocazione di agenzia anche educativa, portatrice di un proprio stile pedagogico, a prescindere da quale sia la missione istituzionale perseguita e, dopo aver raggiunto questa consapevolezza, sarebbe utile che meditasse sul re-design ambientale, affinché questo possa (ri)avviare la produzione di incentivi verso comportamenti etici. Lo scopo sarà raggiunto quando, per imparare qualcosa, sarà sufficiente attraversarne i corridoi.

Ridisegnato l’assetto dell’ambiente, sarebbe interessante valutare un buon investimento, tornando alla metafora del nostro giardino, in spazzini e cestini, per assicurarsi un presidio permanente affinché il degrado ambientale non raggiunga la soglia critica di innesco dei comportamenti fondati sul disvalore relativo.

Come? Limitando la fatica dei passanti a cercare un cestino e, contemporaneamente, aumentando il numero dei passaggi degli operatori ecologici, per fare sì che il poco sporco a terra possa indurre ad abbandonare il proprio rifiuto solo un ristretto manipolo di incivili incorreggibili, eventualmente punibili ma comunque gestibili.

Mi fermo qui. Avendo fatto il lavoro più facile, rimetto ai membri di questa Comunità professionale quello più difficile, ovvero scovare, suggerire o inventare quali possano essere i ruoli, le pratiche o i progetti candidabili alle posizioni vacanti di spazzini e cestini, che avranno il compito di riportare alla luce e custodire il verde giardino di un tempo.