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Caravaggio: l’eterno fuggiasco, è tornato a Roma

Entrò con il bagliore di un fulmine nel campo ormai poco fertile della pittura, disperdendo gli ultimi scialbi residui del Manierismo con la sicurezza e la baldanza di uno spadaccino
Caravaggio
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Caravaggio, l’eterno fuggiasco, è tornato a Roma.

Sembrò nato per scompigliare le carte in tavola, da quelle vere, sui banchi a lui ben noti dei giocatori, a quelle metaforiche in merito a usi, leggi e costumi.

Temperamento tipicamente meridionale (non a caso lo troveremo più volte familiarmente accolto, al momento del bisogno, nelle comunità siciliane a Roma e nell’isola), era sanguigno, irruento, istintivo e pronto a risolvere un diverbio mettendo, non senza conseguenze, mano alla spada; ma nacque nel nord Italia, in un comunello agricolo vicino a Bergamo, Caravaggio, che gli fornirà il nome d’arte.

In pochi anni, morirà a trentasette, dipinse i quadri più belli, più nuovi e più sconvolgenti del suo tempo.

Entrò con il bagliore di un fulmine nel campo ormai poco fertile della pittura, disperdendo gli ultimi scialbi residui del Manierismo con la sicurezza e la baldanza di uno spadaccino. Rinnovò stile, composizione e modelli seguendo un estro sferzante e una natura da polemista, trasgressiva fino a sfiorare l’insolenza. Non si vergognò di levare a dignità sacra i personaggi di un mondo ambiguo e magari perverso, tenuto ai margini di una società che pure ne era intimamente compenetrata.

Quel che apprese seppe elevarlo a potenza e farlo proprio; chi lo seguì, benché fornito di doti notevoli, rimase più o meno a distanza contentandosi di essere considerato un “caravaggesco”.

Nei suoi dipinti, qualunque sia il soggetto, c’è come una intrinseca frenesia, nuova, contagiosa, ipnotizzante.  Si avverte un’attrazione a partecipare dovuta al realismo trasfigurato dei volti, delle figure e delle cose. I valori plastici differenziano la materia come, forse, in nessun altro pittore; la vita ha fatto la sua irresistibile, prepotente immissione dovunque. La carne, il panno, il legno, i metalli o la frutta, non sono più colore, disegno e quindi forme note seppure sublimate ma viva realtà suscitata da questo incontenibile Pigmalione.

Le composizioni del Caravaggio non solo rifuggono dalla posa statica e organizzata ma ogni personaggio sostiene il proprio ruolo, sia pure con apparente noncuranza, fermato in un movimento instabile, di passaggio da una posizione a un’altra, spesso scomoda e magari impacciata. Dai giovani modelli pretendeva pose improvvisate e magari scomposte come quelle di chi si fermi, quasi di malavoglia, per assecondare uno scatto fotografico; una certa ambigua sguaiataggine finiva così per apparire ovvia, scontata e naturale, si pensi all’“Amore vincitore”.

Nell’“Incoronazione di spine” con solo due figure e uno spettatore crea una scena di movimentata violenza che incombe sul Cristo curvato, coscientemente impassibile, centro focale della composizione. A volte questo modo di comporre con le figure prepotentemente in primo piano fa pensare al suo grande omonimo.

Giovani scattanti o mollemente in riposo e vecchioni calvi dalla fronte rugosa dimostrano la sua preferenza per i contrasti così come accade per la luce e il buio. Gli ambienti interni dove Caravaggio realizza le proprie composizioni, salvo rare scene all’aperto, sono pressoché inesistenti; interni oscuri e non sempre leggibili con la luce che cade decisa e investe i primi piani (un effetto che sarà ripreso dagli allievi per oltre un secolo, fino alla noia e all’esasperazione).

Non un pallido lume di candela a rischiarare pacatamente la scena, come nello squisito Gherardo delle Notti, ma una luce che arriva da una sorgente forte, raccolta e fuori scena, per illuminare unicamente le parti che interessano come seguendo una studiata messa a fuoco.

Dopo la chiusura dell’anno conciliare, sembra arrivato il momento di Caravaggio; per chi vada a Roma, quasi di fronte al portale di Palazzo Giustiniani c’è la chiesa di San Luigi dei Francesi con la celeberrima Cappella Contarelli, lo scrigno tappezzato con tre opere superbe del pittore bergamasco; in Sicilia, a Palermo, si è inaugurata la mostra “Sulle orme di Caravaggio”; a Londra è in atto la rassegna “Il genio di Roma” che comprende vari capolavori del maestro.

Unico, ma non piccolo errore da rilevare nella mostra di Roma: l’infelice illuminazione. Avrebbe dovuto essere un ritorno delle opere dove inizialmente vennero raccolte appunto nella stupenda atmosfera di Palazzo Giustiniani, ma invece dell’immaginabile luminoso ambiente, salvo una sala, troviamo le catacombe quasi fossimo incappati in uno sciopero dell’Enel, faretti assurdi e malmessi colpiscono solo la parte chiara dei dipinti, il resto è notte e spesso l’ombra della cornice annulla un’abbondante porzione di pittura.


“Libero”, 18 marzo 2001