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Il mondo dei samurai

L'onda - Hokusai
L'onda - Hokusai

Sono ormai più di cento anni che l’interesse degli europei si è rivolto con curiosità alla cultura giapponese, dopo quello puramente mercantile di belgi e olandesi. Le eleganti, raffinate xilografie a colori di Hokusai e Utamaro ebbero un peso non indifferente negli indirizzi pittorici di Gauguin, Van Gogh e Toulouse-Lautrec, mentre le <poesie brevi>, le classiche Tank di soli cinque versi suggestionavano i poeti, informandone le loro creazioni, fenomeno a noi ben noto attraverso la poesia di Giuseppe Ungaretti.

Ma, comunque, la strada verso la comprensione del «rarefatto mondo giapponese», come lo ha felicemente definito Gloria Fossi, è ancora tutta da percorrersi, basterebbe il solo esempio della preparazione del tè, per noi abituati a consumarlo in fretta nel primo bar che ci capita a portata di mano, un’operazione che lì ha invece addirittura il significato di una scuola di vita e di pensiero: i Maestri di cerimonia del tè, erano talmente considerati che potevano arrivare a influenzare la corte.

Utamaro
Utamaro

Basta leggere i «Diari di dame di corte nell’antico Giappone» per passare di stupore in stupore su gli usi di questo Paese, apprendendo come potesse formarsi un corteo di dignitari e dame per trovarsi all’alba ad ascoltare il primo canto del cuculo nella stagione dei ciliegi in fiore, o come l’Imperatrice usasse porgere, o lasciare in bella vista, un foglietto con pochi versi per palesare alla dama di compagnia lo stato d’animo di un momento, magari soltanto di «vanità ed evanescenza».

Un paese di delicatezze, dove anche la ferocia poteva esprimersi in raffinata eleganza, un popolo che seppe soddisfare il proprio bisogno di trascendenza nello shintoismo, non una religione ma un culto, quello della natura e degli antenati, un culto rimasto di sottofondo anche nelle successive accettazioni del buddismo, del confucianesimo e perfino del cristianesimo. Sono da sempre maestri di assimilazione i sorridenti giapponesi, si sono formati sulla cultura cinese e coreana, ma per sviluppare uno spirito che è solo ed esclusivamente loro.

Nel Fuji Art Museum di Tokyo figurano pezzi eccezionali, si passa dalle porcellane alle lacche e paraventi, dalle xilografie a colori alle armi e armature da samurai; e tutto è per noi insolito e prezioso, oggetti di fiaba più che della vita di ogni giorno, sia pure in uso nelle classi elevate.

Hokusai paravento- la battaglia di Genpei
Hokusai paravento- la battaglia di Genpei

Il paravento è tipica creazione orientale, non un muro che divide, ma uno schermo mobile che isola simbolicamente, delimitando le funzioni della casa, come un filare di viti o una siepe di biancospino che delimitano i campi. Le loro decorazioni cambiano secondo i tempi e possono essere metri e metri di striature tenui per rappresentare nuvole e marosi, o un declinare di paesaggio nelle nebbie; eleganti motivi di fiori, o semplici steli intrecciati con nello sfondo il monte Fuji. Ma possono anche narrare minuziosamente epiche gesta, come la guerra di Gempei, nei pannelli dipinti da Kaiho Yusetsu tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600: in un paesaggio magico, ripreso dall’alto, miriadi di armati agiscono tra le nuvole d’oro; eserciti in miniatura si muovono tra alberi rattratti come decrepiti bonsai e navi, parate a festa, in un mare d’inchiostro. Un paravento enorme e stupendo, un interminabile fondo oro dove si avvicendano inesauribili episodi che catturano lo sguardo concentrandolo e distraendolo senza sosta, quasi osservassimo dall’alto la varietà di una pianura sconfinata.

I dipinti giapponesi sono il risultato di un esercizio che sfiora l’ascesi, non sopportano pentimenti o correzioni, equivarrebbero a stonature insopportabili; l’artista tocca il foglio in punta di pennello, ha appreso con lungo tirocinio forme e proporzioni e la mano si muove come quella del maestro zen nel tiro con l’arco, il pennello del pittore agisce leggero come se obbedisse alla guida arcana di uno stato di trance.                        

Esisteva addirittura un ferreo controllo da parte dell’autorità perché l’artista non sfuggisse dai moduli e canoni stabiliti, i rari cambiamenti avvenivano al seguito di particolari eventi o di un influsso straniero accettato da chi detestava il potere. L’estro personale doveva esprimersi nella tradizione e rivelarsi nobilitando i moduli comuni, qualcosa come conosciamo in parte nei pittori bizantini o nei primitivi pregiotteschi.

A differenza dell’Europa, ma anche della stessa Cina, il Giappone non conobbe nell’arte i canoni della bellezza naturale, come quelli classici greci, né il realismo forte e sanguigno che fu dei romani e degli stessi cinesi; l’artista giapponese operava all’insegna della levità compiendo un esercizio riconducibile alla preghiera, smaterializzando la realtà nelle forme dell’armonia e dello spirito che vivifica.

I Samurai, signori della guerra, ci sono ormai familiari grazie all’impareggiabile film di Akira Kurosawa e pensiamo di conoscerne la distaccata partecipazione, la capacità di dare la morte o riceverla, in totale sublime indifferenza; eppure, di fronte alle loro armature di stoffa e cuoio, di ricami e metallo, si resta perplessi come davanti a un gigantesco e quasi mostruoso insetto, immobile ma ugualmente inquietante, del quale non conosciamo abitudini e pericolosità.

Una battaglia
Una battaglia

Non regge neppure il raffronto con le nostre armature di ferro, medievali o rinascimentali; in queste dei samurai “l’antica festa crudele” ha l’enigmatico e per noi incomprensibile sorriso orientale, impenetrabile nell’affabilità come nella minaccia. Si resta ad ammirarle perplessi e si finisce per concludere che un samurai più che un amico o un nemico potrebbe essere interpretato come il fato in azione, espressione di un popolo tanto sensibile alle dolcezze della vita quanto indifferente alla conclusione della morte.

Samurai a cavallo - xilografia
Samurai a cavallo - xilografia

L’ultima espressione di questo spirito guerriero, i moderni samurai, si chiamarono Kamikaze (vento divino) e offrirono con animo festoso la loro giovane vita, cingendo la benda sacrificale, affinché gli dei fossero benigni, in futuro, verso il loro Paese in guerra, avviato ormai all’amarezza della sconfitta.                                                                                                                                    

Sigfrido Bartolini

Mi - 1994