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Chi è Amy Coney Barrett, il giudice nominato da Trump alla Corte suprema

Amy Coney Barrett
Amy Coney Barrett

Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha nominato Amy Coney Barrett come nuovo giudice della Corte suprema federale. Se verrà confermata dal Senato durante la prossima settimana, la Barrett – che succederebbe così a Ruth Bader Ginsburg – sarebbe la quinta donna nella storia alla più alta Corte americana, il più giovane giudice in carica (ha 48 anni, sarebbe il primo a essere nato negli anni ’70) e l’unico, dai tempi di John Paul Stevens, a non aver frequentato una delle università dell’Ivy League (ha studiato alla Notre Dame University).

Dopo la laurea, Barrett è stata tirocinante (clerk) di Laurence Silberman, alla Corte d’appello per il D.C. Circuit, e di Antonin Scalia alla Corte suprema. Proprio da Scalia Barrett ha assorbito il metodo interpretativo noto come testualismo/originalismo, secondo cui i testi normativi (rispettivamente, le leggi ordinarie e la Costituzione) devono essere interpretati secondo il cosiddetto original public meaning, cioè il significato che un uomo medio avrebbe loro dato al tempo della promulgazione. Barrett ha indagato in modo esteso e approfondito le implicazioni di questo metodo durante la sua carriera accademica: particolarmente apprezzati sono i suoi studi sullo stare decis e, soprattutto, sui rapporti tra precedente e originalismo (vedi i suoi Statutory Stare Decisis in the Courts of Appeals, 73 Geo. Wash. L. Rev. 317 (2004-2005) e Originalism and Stare Decisis, 92 Notre Dame L. Rev. 1921 (2017)).

Nel 2017, Trump scelse Amy Coney Barrett come giudice d’appello per il Seventh Circuit. La sua nomina non sembrava destinata a suscitare clamori, visto il suo curriculum accademico, ma, durante il procedimento di conferma, venne alla luce un articolo che ella ha scritto, nel 1998, un paio di anni dopo essersi laureata, insieme al prof. John Hugh Garvey. Il testo affronta la difficoltà morale e etica che un giudice cattolico potrebbe incontrare là dove fosse tenuto a pronunciare una sentenza potenzialmente in conflitto con gli insegnamenti della propria fede (Catholic Judges in Capital Cases, 81 Marq. L. Rev. 303 (1997-1998)).

Il caso preso in considerazione da Barrett e Garvey è quello della pena di morte, costituzionalmente ammessa negli Stati Uniti ma ritenuta immorale dal Catechismo della Chiesa cattolica: nel loro saggio, i due autori concludono che il giudice non dovrebbe permettere alle proprie personali idee di influenzare l’esito del giudizio, ma – onde evitare che questa influenza si manifesti comunque, sia pure in modo non evidente – sarebbe in ogni caso opportuno per lui ricusarsi dal caso. Sembra che Barrett abbia rimeditato quella posizione, dal momento in cui, aderendo in modo più convinto alla judicial philosophy originalista-testualista, è ormai ferma nel ritenere che un giudice può evitare che i suoi valori personali si infiltrino nel processo decisionale vincolandosi a una interpretazione e applicazione delle leggi secondo il significato ragionevolmente emergente dal loro testo scritto. In altre parole, Barrett sembra ormai allineata alla famosa idea di Scalia, a sua volta giudice (e) cattolico, secondo cui «just as there is no Catholic way to cook a hamburger, so also there is no Catholic way to interpret a text, analyze a historical tradition, or discern the meaning and legitimacy of prior judicial decisions — except, of course, to do those things honestly and perfectly».

In un discorso tenuto presso l’Hillsdale College nel 2019 (qui in traduzione), Barrett ha chiarito che «un giudice non è un giudice per poter decidere i casi nel modo che preferirebbe. Un giudice non è un giudice per poter decidere i casi come l’opinione pubblica o la stampa vorrebbe che fossero decisi. Un giudice non è un giudice perché deve vincere una gara di popolarità. Un giudice è un giudice per adempiere il proprio dovere e seguire la legge ovunque ciò potrebbe condurlo». Ha poi aggiunto: «sono convinta che non sia un caso che ogni giudice negli Stati Uniti indossi un’anonima toga nera. Essa rappresenta l’impersonalità della legge e la dedizione che ogni giudice ha nei confronti del rule of law. […] Perché lo penso? Perché l’attenzione non dovrebbe mai essere rivolta a chi sta decidendo il caso, non dovrebbe mai essere rivolta al giudice, né il giudice dovrebbe attirare quell’attenzione. L’attenzione deve essere verso la legge. Il giudice non deve decidere il caso secondo le proprie personali preferenze e, dunque, la toga nera non deve esprimere “individualità” […].

La toga nera è un simbolo del fatto che ogni giudice condivide l’impegno di rispettare il rule of law, che ogni giudice partecipa a quella comune impresa che è applicare la legge e sforzarsi di farlo nel migliore modo possibile. Ricevere giustizia non dovrebbe dipendere dal giudice cui si viene assegnati, bensì da cosa la legge richiede in quel particolare contesto».

Nei suoi tre anni come giudice d’appello, Amy Coney Barrett ha scritto 107 opinions, tra majority opinions, concurrences, e dissents. Tra queste, alcune meritano particolare attenzione: in Cook County v. Wolf ha espresso diffidenza nei confronti della Chevron doctrine; in John Doe v. Purdue University, scrivendo per un collegio tutto al femminile, ha ribadito l’importanza del due process anche nel caso di indagini per molestie e violenze sessuali (una posizione condivisa, tra gli altri, da Justice Ginsburg); in Rainsberger v. Benner si è unita al coro crescente di chi dubita della costituzionalità della cosiddetta qualified immunity (su cui abbiamo più diffusamente scritto qui). Se confermata dal Senato, Amy Coney Barrett sposterà, probabilmente, gli equilibri della Corte suprema, non verso la “destra” o la “sinistra” politica, che sono categorie improprie per classificare gli orientamenti giurisprudenziali, ma verso un impiego ancora più diffuso della metodologia testualista (che alla Corte è attualmente preferita non solo dai cinque giudici “conservatori”, ma anche dalla “liberal” Kagan) e originalista (associandosi a Thomas e Gorsuch, che sono attualmente i suoi fautori più riconoscibili), con ricadute importanti per tutti i giuristi americani: non solo avvocati, che dovranno certo selezionare con maggiore cura i propri argomenti quando si troveranno a patrocinare di fronte alla Corte suprema, ma anche professori e studenti. Questo esito, fra gli altri, merita di essere osservato attentamente, nel passaggio in fieri da Ruth Bader Ginsburg a Amy Coney Barrett.