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Art. 30

Azione di condanna

1. L’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma.

2. Può essere richiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere richiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.

3. La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.

4. Per il risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l’inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere.

5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.

6. Di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesione di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo.

Bibliografia. Clarich M, Azione di annullamento, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010; F. Patroni Griffi, Riflessioni sul sistema delle tutele nel processo amministrativo riformato, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010; Saitta F., La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione, in www.giustizia-amministrativa.it, 2019; Villata P., Pluralità delle azioni ed effettività della tutela, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020; Pajno A., Le norme costituzionali sulla giustizia amministrativa, in Dir. proc. Amm, 1994; Travi A., Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, VIII ed., 2010; Alibrandi T., Nuovi orientamenti in tema di eccesso di potere, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Vol. II, Roma, 1981; Gisondi R., La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010.

 

Sommario. 1. Azione “atipica”. 2. Adunanza Plenaria n. 3 del 2011. 3. L’autonomia dell’azione rispetto alla domanda di annullamento. 4. Il termine decadenziale. 5. L’azione in corso di giudizio. 6. Il risarcimento in forma specifica.

 

1. Azione “atipica”

L’azione di condanna è un’azione “atipica” in quanto il codice non ne puntualizza esattamente il contenuto. Essa non riguarda solo la tutela dei diritti soggettivi, né deve confondersi con quella al risarcimento del danno in forma specifica cui il codice assegna una disposizione autonoma.

È un’azione di condanna ad un facere della P.A. che mira alla integrale e diretta soddisfazione della posizione soggettiva di interesse legittimo lesa dall’atto impugnato. Può consistere in una pronuncia ordinatoria che indichi i comportamenti che la P.A. deve tenere per reintegrare la posizione soggettiva lesa dal provvedimento allo stato in cui essa si trovava prima della sua emanazione; ad esempio, vi rientrano gli ordini di rilasciare o rimettere in pristino il fondo occupato manipolato dalla stessa amministrazione in esecuzione di un provvedimento di esproprio o di occupazione annullato o di reintegrare un impiegato illegittimamente licenziato (con relativa ricostruzione della carriera). La pronuncia di condanna potrà anche servire per far ottenere al privato prestazioni consequenziali alla emanazione di un provvedimento ampliativo o ad un accordo amministrativo (sussidi, finanziamenti, consegna di beni anche demaniali).

La vexata quaestio per cui l’azione di condanna possa consentire al ricorrente di ottenere una pronuncia che ordini alla P.A. ad emettere un provvedimento ampliativo da essa illegittimamente denegato pare, oggi, con il nuovo codice, risolta nel senso che non vi sono ostacoli, né letterali né di ordine sistematico, che impediscano tale pronuncia. L’ampia formula con cui il codice descrive il contenuto che può assumere la sentenza di condanna appare idonea a comprendere ogni tipo di misura ordinatoria.

Nel nuovo contesto sistematico del codice, inoltre, non può più affermarsi che il giudice non potrebbe arrivare a definire il contenuto del provvedimento richiesto dal privato, sulla scorta di una cognizione legata solo ai vizi dell’atto, essendo ormai la cognizione una cognizione piena sul rapporto e non meramente sull’atto.

È possibile, in altri termini, sottoporre al giudice anche quei tratti vincolati (Gisondi R.) dell’azione amministrativa che, non presi in considerazione dalla motivazione o dagli atti preparatori che hanno preceduto l’atto impugnato, non potevano essere dedotti come motivi di impugnazione nel giudizio di annullamento.

 

2. Adunanza Plenaria n. 3 del 2011

La “pregiudiziale” dell’annullamento è stata risolta dall’Adunanza Plenaria n. 3 del 2011 con la quale (Presidente de Lise, Estensore Caringella) è stata data una visione d’insieme del ruolo del giudice amministrativo nel contesto del nuovo codice.

Questi i passaggi salienti: “3.1. Il riconoscimento dell’autonomia, in punto di rito, della tutela risarcitoria si inserisce - in attuazione dei principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale richiamati dall’articolo 1 del codice oltre che dei criteri di delega fissati dall’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 - in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza, amplia le tecniche di tutela dell’interesse legittimo mediante l’introduzione del principio della pluralità delle azioni. Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di annullamento la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria ex articolo 30), la tutela dichiarativa (cfr. l’azione di nullità del provvedimento amministrativo ex articolo 31, comma 4) e, nel rito in materia di silenzio-inadempimento, l’azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all’adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (articolo 31, commi da 1 a 3). Ancora, con riferimento precipuo alla condanna “Deve, inoltre, rilevarsi che il legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell’articolo 30, comma 1, che fa riferimento all’azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (…) e dell’articolo 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (…). In definitiva, il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall’articolo 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”.

Anche con riferimento alla trasformazione da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto l’A.P. ha stabilito “Di qui, la trasformazione del giudizio amministrativo, ove non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica amministrazione, da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata”.

 

3. L’autonomia dell’azione rispetto alla domanda di annullamento

Al momento della entrata in vigore del codice la questione processuale più dibattuta in ordine alla azione di condanna al risarcimento del danno per la lesione di interessi legittimi riguardava, come è noto, la sua autonomia da quella di annullamento dell’atto lesivo. Tale problema è stato al centro di un acceso confronto dottrinale e, soprattutto, giurisprudenziale che ha visto contrapporsi l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Il giudice del riparto ha, infatti, accolto la tesi della autonomia dell’azione risarcitoria per lesione degli interessi legittimi rispetto alla domanda di annullamento dell’atto lesivo, ritenendo che, dal punto di vista dell’illecito civile, il provvedimento illegittimo  venga in considerazione  non come atto della autorità produttivo di determinati effetti giuridici da rimuovere,  ma come mero fatto  immediatamente  lesivo di una posizione soggettiva da cui deriva un’obbligazione risarcitoria volta a riparare il danno patrimoniale conseguente. Di diverso avviso è stato, invece, il Consiglio di Stato il quale, ha, invece, ritenuto che la domanda risarcitoria per la lesione di un interesse legittimo presupponga sempre la previa impugnazione dell’atto lesivo.

La ricostruzione interamente privatistica della responsabilità  della p.a. per lesione di interessi legittimi operata dalla Corte di Cassazione al giudice amministrativo è sembrata in contrasto  con  taluni  principi fondamentali del diritto  amministrativo sostanziale e processuale fra cui, in particolare: quello secondo cui l’efficacia imperativa dell’atto amministrativo comporta che le conseguenze da esso prodotte debbano essere considerate conformi alla legge fino a quando esso  non venga annullato; quello secondo cui  la stabilità dei rapporti giuridici creati dal provvedimento deve essere presidiata da un termine decadenziale breve e non può essere minata dalla possibilità di proporre l’azione  risarcitoria entro il termine quinquennale di prescrizione; quello secondo cui la cognizione del g.a sull’atto lesivo deve avere carattere necessariamente principale e non incidentale, in quanto la giurisdizione del g.a., diversamente da quella ordinaria, non è preordinata  alla risoluzione di controversie in cui sono in gioco solo interessi individuali delle parti, ma è volta a garantire l’interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa.

La disciplina dell’azione risarcitoria dettata dal nuovo codice rappresenta un momento di composizione e compromesso fra le divergenti posizioni sopra ricordate.

L’articolato  prevede da un lato   l’abbandono del modello rigido  di relazione fra l’azione risarcitoria e quella di annullamento basato sulla pregiudiziale amministrativa, ma, dall’altro, controbilancia l’autonomia della azione risarcitoria  assoggettandola ad un termine decadenziale breve, benché più lungo di quello per l’impugnazione dell’atto lesivo, e, soprattutto,  escludendo la risarcibilità delle conseguenze dannose che avrebbero potuto essere evitate ricorrendo ad altri strumenti di tutela.

 

4. Il termine decadenziale

Con riguardo al primo profilo, il nuovo codice, ha affrancato la proposizione dell’azione risarcitoria dal termine di sessanta giorni previsto per l’impugnazione dell’atto lesivo, ma, al contempo, ha introdotto un autonomo termine decadenziale di 120 giorni per la sua instaurazione.

Oggi, pertanto, dall’inoppugnabilità dell’atto non deriva più la perdita di ogni rilevanza giuridica della lesione dell’interesse legittimo ma solo il venir meno della possibilità di esperire uno dei mezzi di tutela che l’ordinamento predispone a presidio di tale posizione  soggettiva, mentre la definitiva copertura dell’operato della p.a. da ogni forma di reazione giurisdizionale contro l’atto lesivo dell’interesse legittimo si perfeziona solamente con il decorso del più lungo termine previsto per la proposizione dell’azione risarcitoria autonoma.  

Non del tutto chiara risulta, però, l’individuazione del momento i cui il predetto termine inizia a decorrere. Il comma 3 prevede, infatti, che la domanda di risarcimento per la lesione di interessi legittimi debba essere proposta entro il termine di centoventi giorni “dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”.

La prima parte della norma riproduce la formula dell’articolo 2947 del codice civile che fa decorrere la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento “dal momento in cui il fatto si è verificato”, mentre la seconda riconduce il dies a quo dal quale decorre il termine decadenziale alla conoscenza del provvedimento nei casi in cui il danno derivi direttamente da questo.

Il modo in cui è formulata la disposizione fa sorgere il dubbio se il legislatore abbia inteso ricollegare la decorrenza del termine per la proposizione della azione risarcitoria alla semplice percezione da parte della vittima della lesione della sua posizione soggettiva ad opera del provvedimento oppure al momento in cui si sono verificate le conseguenze dannose sul piano patrimoniale o dei diritti della persona. Fra le due alternative quella più rispondente alla logica risarcitoria  e al dato letterale della norma sembra essere la prima: diversamente da quanto avviene per l’azione di annullamento, ai fini dell’utile esperimento della azione risarcitoria non è, infatti, sufficiente la semplice percezione della lesione della sfera giuridica individuale  provocata dall’atto illegittimo, ma è necessaria un’esatta percezione delle conseguenze dannose che, nella maggior parte dei casi, non avviene al momento della conoscenza dell’atto ma in quello in cui tali conseguenze si sono prodotte e sono divenute conoscibili alla vittima anche in relazione al nesso eziologico che le lega al fatto illecito.

Il termine per la proposizione della azione risarcitoria muta qualora venga esperita anche l’azione di annullamento dell’atto lesivo. In tal caso il comma 5 dell’articolo in commento prevede che la domanda risarcitoria possa essere formulata in corso di giudizio e fino al 120 giorno dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.

La norma costituisce un corollario dello sfavore con cui il codice guarda alla proposizione dell’azione risarcitoria autonoma. Infatti, qualora il danneggiato non voglia correre il rischio di vedersi decurtato il risarcimento del danno evitabile con l’ordinaria diligenza, deve preventivamente impugnare l’atto e, va da sé, che, in tal caso, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento debba rimanere sospeso fino a quando i mezzi di tutela alternativi atti ad evitare il danno non siano esauriti. Pertanto, logica avrebbe voluto che la sospensione del termine durasse fino al momento in cui il danno provocato dall’atto illegittimo fosse stato rimosso a seguito della esecuzione del giudicato da parte della p.a. o di un commissario ad acta nominato dal giudice della ottemperanza.

Il codice, invece, individua il dies a quo dal quale il termine decorre nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che ha disposto l’annullamento la quale, di per sé, raramente vale ad eliminare la lesione subita dal privato, occorrendo, quasi sempre, al tal fine, un nuovo esercizio di potere amministrativo che tenga conto degli effetti conformativi del giudicato.

Il comma 4 disciplina, poi, l’ipotesi in cui il danno non derivi da un provvedimento ma dall’inosservanza del termine per la conclusione del procedimento (cd. “danno da ritardo”).

In tal caso, diversamente da quanto accade nell’ipotesi di danno derivante da illegittimo diniego dell’istanza, è previsto che il termine di 120 giorni per la proposizione dell’azione risarcitoria inizi a decorrere dal momento in cui cessa l’inadempimento e cioè quando l’amministrazione (o il commissario nominato dal g.a.) emetta il provvedimento dovuto.

Il codice chiarisce, tuttavia, che, nel caso in cui l’azione contro il silenzio della p.a. non venga instaurata entro un anno dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento, l’azione risarcitoria deve essere proposta entro i successivi centoventi giorni.

 

5. L’azione in corso di giudizio

Il Codice disciplina anche l’ipotesi in cui l’opzione per la tutela risarcitoria autonoma intervenga dopo la proposizione dell’azione di annullamento, prevedendo che “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori” (articolo 34 comma 3).

L’abbandono della domanda di annullamento viene condizionato al venir meno della utilità della pronuncia di annullamento, circostanza che può verificarsi non solo nel caso in cui sopravvenga un evento che renda impossibile la soddisfazione della pretesa sostanziale del privato (come una nuova normativa che impedisca l’accoglimento di una istanza, ma anche nelle ipotesi in cui, nelle more del giudizio, il privato perda ogni ragionevole interesse ad ottenere un determinato provvedimento favorevole.

In tali fattispecie sembra preferibile ritenere che il ricorrente non debba scontare il rischio della decurtazione del risarcimento per la perdita della utilità che avrebbe potuto conseguire coltivando ad oltranza la domanda di annullamento, in quanto ciò significherebbe addossargli anche le conseguenze derivanti dai tempi (non brevi) del giudizio costringendolo ad insistere per l’ottenimento di un bene a cui a causa dell’illegittimità dell’azione  amministrativa e della durata del processo egli non ha più alcun interesse a conseguire.

 

6. Il risarcimento in forma specifica

Tale rimedio non va confuso con l’azione di condanna reintegratoria o di adempimento, che abbiamo già esaminato.

L’importanza della distinzione non è solo teorica in quanto il codice disciplina le due azioni di condanna in maniera diversa qualora esse siano dirette alla tutela di interessi legittimi: la proposizione della domanda di risarcimento in forma specifica è subordinata ad un termine decadenziale di 120 giorni, ma può avvenire anche in via autonoma, senza la previa impugnazione dell’atto lesivo. 

La condanna ripristinatoria, invece,  non può essere chiesta autonomamente dalla impugnazione dell’atto lesivo (articolo 30 comma 1) ma non è assoggettata ad alcun termine decadenziale.

Il problema della esatta qualificazione delle due forme di tutela si pone in modo evidente quando l’azione venga proposta a seguito del passaggio in giudicato della sentenza  di annullamento dell’atto lesivo:  se si tratta di una domanda di condanna al risarcimento del danno in forma specifica essa dovrà essere proposta a pena di decadenza  entro 120 giorni da quello in cui la sentenza di annullamento è diventata definitiva, mentre, qualora si tratti di una domanda di condanna avente natura ripristinatoria, non sussiste alcun termine decadenziale per la sua proposizione. Ad esempio,  nel caso della richiesta di reintegro nella disponibilità di beni illegittimamente occupati dalla p.a. in base a provvedimenti di espropriazione o occupazione annullati dal giudice amministrativo, inquadrare la domanda  nell’ambito del risarcimento in forma specifica, come suole fare oggi la giurisprudenza, porta alla indesiderata conseguenza che la restituzione del bene espropriato rimanga definitivamente impedita qualora il proprietario non la chieda entro previsto il termine decadenziale. Specularmente il problema può anche presentarsi quando la condanna ad un facere venga proposta senza il previo annullamento dell’atto lesivo: anche qui ai fini dell’ammissibilità dell’iniziativa processuale sarà necessario stabilire se il comportamento richiesto alla p.a. abbia natura di risarcimento in forma specifica oppure costituisca la reintegrazione della posizione soggettiva lesa.

La distinzione fra le due tipologie di azioni dovrà essere operata in base al diverso risultato a cui esse mirano che, per quanto riguarda le azioni di condanna mera è quello di far cessare la lesione in atto della posizione soggettiva mediante un comando  puntuale che indichi alla p.a. il  modo in cui  deve comportarsi per restituire o attribuire al ricorrente la specifica utilità che gli doveva essere garantita  sul piano sostanziale,  mentre per quanto riguarda la condanna al risarcimento in forma specifica è quello di eliminare un danno già prodotto mediante l’imposizione al danneggiante dell’obbligo di compiere una determinata attività materiale “nuova” alla quale egli prima dell’illecito non sarebbe  stato tenuto (ad esempio la ricostruzione di un immobile abbattuto in esecuzione di un ordinanza di demolizione poi annullata).

 

Il punto di vista dell’Autore

Con le molteplici azioni previste a tutela degli interessi e più in generale delle posizoni giuridiche dei soggetti privati (come pure pubblici), l’articolo in commento – come gli altri articoli inseriti nel Capo II dedicato alle “Azioni di cognizione” – sottolinea come, prendendo spunto dalle parole del Presidente de Lise pronunciate nel settembre 2010 all’atto del suo insediamento “ … si è ormai chiarito che il giudice amministrativo non è un giudice speciale, ma è il giudice ordinario del potere pubblico, in una visione di unità funzionale – non organica – della giurisdizione, che si fonda sull’articolo 24 della Costituzione. Il che vuol dire che noi siamo i giudici che devono tutelare i cittadini e le imprese a fronte del non corretto esercizio del potere, ed assicurare, dinanzi ad esso, la piena realizzazione dei loro diritti”.