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Art. 29

Azione di annullamento

1. L’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni.

Bibliografia. Clarich M, Azione di annullamento, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010; F. Patroni Griffi, Riflessioni sul sistema delle tutele nel processo amministrativo riformato, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010; Saitta F., La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione, in www.giustizia-amministrativa.it, 2019; Villata P., Pluralità delle azioni ed effettività della tutela, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020; Pajno A., Le norme costituzionali sulla giustizia amministrativa, in Dir. proc. Amm, 1994; Travi A., Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, VIII ed., 2010; Alibrandi T., Nuovi orientamenti in tema di eccesso di potere, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Vol. II, Roma, 1981.

 

Sommario. 1. Premessa. 2. La disposizione e il suo contenuto. 3. La giurisdizione di legittimità. 4. I principi comunitari.

 

1. Premessa

Definita quale la “regina” delle azioni (Clarich M., Azione di annullamento), l’azione di annullamento prevista all’articolo 29 CPA è la prima tra le azioni disciplinate nel nuovo codice, in apertura al Capo II dedicato alle azioni di cognizione. Il Codice non contempla l’azione di accertamento e l’azione di adempimento, previste invece nel testo elaborato dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato.  Esse costituivano, con tutta probabilità, una delle innovazioni di maggior rilievo, sia sotto il profilo teorico sia sotto il profilo pratico, dell’intero corpo normativo.  Come si legge nella Relazione al Codice, il Governo ha però ritenuto “di non esercitare, allo stato, in parte qua tale facoltà concessa dalla delega, ritenendo adeguata e completa la tutela apprestata dalle azioni già previste dal Capo II”.

 

2. La disposizione e il suo contenuto

La disposizione stabilisce, in primis, che l’azione è esperibile nelle ipotesi di violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere, vizi già individuati nell’articolo 26 del Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato 26 febbraio 1924 n. 1054 e ripresi anche nell’articolo 21-octies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 inserito dall’articolo 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15. In secondo luogo, l’articolo 29 assoggetta l’azione di annullamento al termine decadenziale di sessanta giorni, già indicato dall’articolo 21 della legge istitutiva dei Tar 6 dicembre 1971 n. 1034 e ancor prima dall’articolo 36 del Testo unico del 1924.  Disattendendo una condizione posta nel parere dalla Commissione Giustizia della Camera, non è stato espressamente disciplinato il termine dal quale decorrono i sessanta giorni, né è stato disciplinato l’oggetto dell’azione di annullamento (cioè il provvedimento).  Il Governo ha ritenuto all’uopo esaustivo quanto previsto dall’articolo 41 del Codice in tema di notificazione del ricorso e dei suoi destinatari che già riprende regole consolidate sulla decorrenza del termine per la proposizione dell’azione.

L’insidia maggiore al ruolo dominante dell’azione di annullamento è stata recata, nel tempo, dall’azione risarcitoria da lesione di interessi legittimi la quale, prevista in base alla legge 21 luglio 2000, n. 205, è stata confermata anche dal Codice (articolo 30) quale azione proponibile innanzi al giudice amministrativo. L’eterno rapporto di pregiudizialità tra l’azione di annullamento e l’azione di risarcimento ha conosciuto un importante punto di svolta con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500 del 1999 con la conseguenza che l’azione risarcitoria “pura” poteva essere in grado di far passare in secondo piano l’azione di annullamento. Significativa al riguardo è stata la sentenza della Corte di Cassazione S.U. 23 dicembre 2008 n. 30254 che ha confermato il superamento della regola della pregiudizialità.  Secondo la Corte nel processo amministrativo, così come in quello civile, l’azione di risarcimento del danno “costituisce la misura minima e perciò necessaria di tutela di un interesse”.   Se a questa si aggiunge, in base alle norme vigenti, anche un’altra forma di tutela che nel processo amministrativo è l’azione di annullamento, la conclusione è che “spetta al titolare della situazione protetta, in linea di principio, scegliere a quale far ricorso”.    

Nella giustizia amministrativa è sempre stata latente l’idea che le azioni - nella tradizione storica ma anche nella riflessione recente (Corte Cost. 204/2004) - più che come diritti delle parti (o come astratto “diritto di azione”, avente esso stesso natura di diritto soggettivo, tesi prevalente nella dottrina processualcivilistica), possano essere riguardate come strumenti di tutela pratica volti a reintegrare al meglio la sfera giuridica del cittadino che sia stata lesa, sfera che si compone di posizioni soggettive. Il collegamento, più che tra diritto e azione, andrebbe fatto tra azione e sfera giuridica lesa: l’azione ha finalità reintegratoria di un “patrimonio” attaccato contra ius dal potere pubblico.

 

3. La giurisdizione di legittimità

È sempre ammesso il ricorso giurisdizionale rivolto al giudice amministrativo quando il provvedimento della P.A. risulti affetto da uno dei tre vizi di legittimità (violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere), anche in assenza di una espressa previsione normativa.

Il Tar e il Consiglio di Stato (e il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana), giudice d’appello, sono competenti a giudicare le controversie di legittimità di un atto che abbia leso un interesse legittimo ad eccezione di quelle materie riservate alla giurisdizione esclusiva di altri organi: la Corte dei Conti è il giudice unico per le pensioni civili, militari e di guerra, mentre i Tribunali regionali delle acque pubbliche e il Tribunale superiore delle acque pubbliche, con sede a Roma, esercitano la giurisdizione in materia di acque pubbliche.

L’accertamento del giudice nel giudizio di legittimità deve riguardare la violazione di legge, che si configura quando l’atto non sia aderente alla prescrizione normativa applicabile alla fattispecie, ovvero l’incompetenza, nel caso di uso di potestà attribuite ad altro organo, o eccesso di potere identificabile quale vizio della funzione (Alibrandi T.). 

Per aversi un atto affetto da violazione di legge è rilevante non solo l’inosservanza di leggi (statali, regionali, o delle Province di Trento e Bolzano) ma anche la mancata applicazione di atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ovvero di norme regolamentari statali, regionali, o delle autonomie locali (comuni, province, città metropolitane) e statutarie.

L’incompetenza si “traduce” in incompetenza relativa e assoluta; nella prima si configura la violazione di particolari leggi che stabiliscono l’attribuzione di compiere determinati atti a diversi organi amministrativi e determina, una volta accertata dal giudice, l’annullamento del provvedimento impugnato e la rimessione dell’affare all’autorità riconosciuta competente dal giudice amministrativo. L’articolo 21-septies della L. 7 agosto 1990 n. 241, come novellato dalla L. 11 febbraio 2005 n. 15, prevede la nullità del provvedimento amministrativo viziato da difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), codificando un principio già radicato nella giurisprudenza del giudice amministrativo; l’ipotesi ricorre qualora un organo della P.A. eserciti una potestà non riconducibile nella sfera delle proprie attribuzioni (CdS sez. IV 17 maggio 2010 n. 3129; Tar Sicilia Palermo, sez. III, 4 novembre 2009 n. 1730).

L’eccesso di potere è la figura più complessa perché si manifesta in una molteplicità di figure sintomatiche individuate dalla giurisprudenza e ricollegate alla discrezionalità della P.A.. In quanto collegato allo “sviamento” del potere dal fine pubblico, è necessario vagliare la motivazione dell’atto amministrativo per determinare quale, tra le figure sintomatiche, sia quella che caratterizza l’atto stesso. Le figure di “eccesso” scaturenti dalla comparazione possono essere quelle di motivazione insufficiente (CdS sez. VI 15 settembre 2010 n. 6725), contraddittoria (Tar Campania Napoli sez. IV 4 novembre 2010 n. 22679), perplessa (Tar Piemonte sez. I 3 novembre 1982 n. 709), illogica (CdS sez. VI 15 dicembre 2010 n. 8918); l’ingiustizia grave e manifesta (CdS sez. VI 27 luglio 2010 n. 4902); la disparità di trattamento (CdS Sez. V 11 gennaio 2011 n. 79); la violazione di norme interne, circolari e prassi amministrativa (CdS sez. IV 26 settembre 2001 n. 5037); la contraddittorietà tra provvedimenti relativi ad una stessa fattispecie (CdS sez. V 18 marzo 1989 n. 166); la contraddittorietà tra motivazione e dispositivo (CdS sez. V 3 ottobre 1995 n. 1391); il travisamento dei fatti (CdS sez. V 3 dicembre 2010 n. 8411).

 

4. I principi comunitari

La L 11 febbraio 2005 n. 15 ha novellato il primo comma dell’articolo 1 L. 7 agosto 1990 n. 241 inserendo i “principi dell’ordinamento comunitario” tra i criteri-guida che sovrintendono l’attività amministrativa.

Le amministrazioni, nell’adozione degli atti, sono tenute al rispetto dei principi e della normativa comunitaria; più in dettaglio, sono tenute ad applicare i regolamenti e le direttive “puntuali” o self-executing (immediatamente applicabili senza recepimento nazionale) e nel caso di atto adottato in violazione delle predette norme il vizio di cui l’atto è affetto è quello della violazione di legge; l’atto sarà efficace in grado di dispiegare i suoi effetti giuridici finché non sia annullato dal giudice o a seguito di atto in autotutela proveniente dall’amministrazione che in origine lo aveva adottato (CdS sez. III 8 settembre 2014 n. 4538). Seppur con alcune oscillazioni, pare la giurisprudenza essersi uniformata nel senso di ritenere il provvedimento amministrativo, invece, nullo per violazione del diritto comunitario solo quando l’atto sia stato adottato in base ad una norma interna attributiva della potestà incompatibile con il diritto comunitario e, in quanto tale, disapplicabile (CdS sez. V 19 maggio 2009 n. 3072; sez. IV 21 febbraio 2005 n. 579).

Nel caso in cui risulti un contrasto tra le normative legislative e regolamentari interne e quelle comunitarie la P.A., vista la “prevalenza” del secondo (ordinamento comunitario) sul primo (ordinamento interno), è tenuta a disattendere la norma interna privilegiando quella comunitaria. In termini tecnici, si profila un obbligo di disapplicazione (recte non applicazione) del diritto interno che deve retrocedere rispetto al diritto UE. L’eventuale atto adottato dalla P.A. sarà viziato da illegittimità originaria derivante dalla immediata applicabilità delle disposizioni normative comunitarie, diversa da quella derivata che caratterizza l’adozione di un atto amministrativo applicando una norma interna dichiarata illegittima dal giudice delle leggi.

Particolarmente complessi e numerosi possono risultare gli interrogativi sollevabili dinanzi ad un contrasto tra diritto interno e diritto comunitario; la soluzione può essere data, in tali situazioni, alla prospettazione della questione di legittimità costituzionale innanzi al giudice delle leggi per violazione dell’articolo 11 della Costituzione, se si tratti di direttiva comunitaria che abbisogna di recepimento. Se invece l’antinomia coinvolge una fonte comunitaria direttamente applicabile senza recepimento interno, il giudice dovrà applicare il criterio della non applicazione della normativa interna (la Corte Costituzionale ha ritenuto appropriata la terminologia “non applicazione” in luogo di disapplicazione in quanto quest’ultimo termine richiama vizi della norma in realtà non esistenti stante la piena autonomia dell’ordinamento giuridico nazionale e di quello comunitario – Corte Cost. 8 aprile 1991 n. 168).     

           

Il punto di vista dell’Autore

Il giudizio cognitorio, con il nuovo codice, non ha più solamente effetto “cassatorio” ma si arricchisce di contenuti e pare in molti casi anticipare quelli propri dell’ottemperanza. L’azione di annullamento, o meglio la sentenza che accoglie il ricorso in annullamento (F. Patroni Griffi), si arricchisce di potenzialità, che derivano, in parte, da una sorta di formalizzazione al suo interno degli effetti ordinatori, ripristinatori e conformativi, o di parte di essi, dall’altra, da una anticipazione alla fase cognitoria di contenuti tradizionalmente ascritti alla fase dell’ottemperanza. Ciò che rende ancor più tangibile la trasposizione ormai avvenuta del giudizio non meramente sull’atto ma sul rapporto.