x

x

Art. 31

Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità

1. Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere.

2. L’azione può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. È fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.

3. il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.

4. La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centoottanta giorni. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV.

Bibliografia. De Paolis M, Il processo amministrativo, Padova, Cedam, 2012; Garofoli R., Manuale di diritto amministrativo, Molfetta Roma, Nel Diritto Editore, 2019; Saitta F, Giustizia amministrativa, Padova, 1993; Abbamonte G. Laschena R., Giustizia amministrativa, Bologna, 1997; Gisondi R., Nuovi strumenti di tutela nel codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2011.

 

Sommario. 1. L’obbligo di provvedere. 2. Il termine di conclusione. 3. L’inadempimento dell’obbligo: azione avverso il silenzio.

 

1. L’obbligo di provvedere

Già ai tempi dei Romani, il silenzio aveva di regola valore neutro “qui tacet, non utique fatetur, sed tamen verum est eum non negare” (cfr. Paulus, De regulis juris, Liber 142, 59,17). Anche nel diritto privato moderno, al silenzio non può ricondursi un significato negoziale, salvo che ad attribuirgli un senso non siano, in via eccezionale, la legge e le circostanze fattuali nel loro complesso, considerate secondo il canone generale di buona fede.

Nel diritto amministrativo, l’esplicitazione dell’obbligo dell’autorità pubblica di concludere il procedimento in forma espressa ed in tempi certi e, correlativamente, la tendenziale qualificazione del silenzio in termini di disvalore è uno dei capisaldi della legge 7 agosto 1990, n. 241, il cui articolo 2 recita, in maniera sintetica ma eloquente “ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso”.

Tuttavia, se storicamente inquadrata, la detta previsione non assume portata innovativa dell’ordinamento previgente, limitandosi semmai a consacrare un principio di civiltà giuridica, attraverso la tecnica legislativa della norma in bianco, il cui precetto è integrato dal rinvio non ricettizio a disposizioni precettive rinvenibili aliunde, che di volta in volta costituiscono l’effettivo contenuto del dovere. In tal senso, l’obbligo di provvedere, se di solito si fonda su una norma di legge o di regolamento, può talora essere desunto da un atto amministrativo con cui l’autorità decidente autolimita l’esercizio dei suoi poteri discrezionali o predetermina i contenuti futuri della sua azione (Tar Sicilia Palermo, Sez. II, 2 aprile 2008, n. 436) ovvero dai principi regolatori generali dell’azione amministrativa e quindi dai canoni di legalità, buon andamento, correttezza, giustizia ed equità sostanziale, come, ad esempio, nelle ipotesi in cui l’autorità, col suo comportamento, induca un affidamento nel privato (Cons. Stato, Sez. V, 22 novembre 1991, n. 1331 e 15 marzo 1991, n. 250, Tar Lazio, Sez. I, 26 gennaio 1991, n. 83; Tar Abruzzo 16 luglio 1990, n. 360).

Indipendentemente dall’esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogni qualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (articolo 97 della Costituzione), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un’esplicita pronuncia” (CdS Sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318; Tar Calabria Catanzaro, Sez. I, 4 giugno 2010, n. 1051). Ovviamente, l’obbligo non riguarda le ipotesi tipizzate di cui all’articolo 20 della legge, dove, all’inerzia serbata dall’amministrazione per un certo tempo, si riconnettono ope legis gli effetti dell’atto richiesto, come nel caso di istanza per il conseguimento dell’autorizzazione per la realizzazione di stazione radio di telefonia cellulare, di cui all’articolo 87 del decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259 (Tar Toscana, Sez. I, 19 settembre 2007, n. 2686).

 

2. Il termine di conclusione

La conclusione del procedimento deve intervenire entro un preciso lasso temporale, indicato dalla legislazione di settore o, in mancanza, fissato con atto di natura regolamentare dall’organo d’indirizzo dell’amministrazione procedente.

Quest’ultimo non deve superare i novanta giorni, salvo che, considerati gli interessi in gioco, la complessità delle valutazioni sottese e “la sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa” (variabile, quest’ultima, esplicitata dall’articolo 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69), non sia necessario spingersi fino a centottanta giorni. Termini ancora maggiori possono essere dettati per i procedimenti di attribuzione della cittadinanza italiana e per quelli riguardanti l’immigrazione. Ma se per una determinata tipologia di procedimenti né la legislazione di settore, né i regolamenti indichino la durata massima dello spatium deliberandi, questo resta definitivamente stabilito in trenta giorni.

Il termine di conclusione del procedimento decorre dall’inizio del procedimento d’ufficio, o, se esso è ad iniziativa di parte, dal ricevimento della domanda. Può essere sospeso, per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, al fine di acquisire informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni.

Nei procedimenti ad istanza di parte, il termine è interrotto dalla comunicazione all’istante dei motivi che ostano all’accoglimento della domanda e ricomincia a decorrere dalla data di produzione delle eventuali osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di dieci giorni per la presentazione delle stesse (articolo 10 bis).

Laddove non viga l’esplicita previsione della natura perentoria del termine di conclusione del procedimento, l’infruttuoso decorso di questo non consuma il potere dell’autorità di pronunciarsi tardivamente – in senso satisfattivo, negativo od anche interlocutorio –, permanendo in capo ad essa la potestà decisoria (Cons. Stato, Sez. IV, 15 gennaio 2009, n. 179; Tar Lombardia-Milano, Sez. III, 4 giugno 2010, n. 1746; Tar Veneto, Sez. I, 5 agosto 2005, n. 3124).

Le disposizioni sull’obbligo di concludere tempestivamente il procedimento attengono – come altre – all’esercizio della potestà esclusiva dello Stato di determinare i livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, è giocoforza che, in relazione a queste, le autonomie regionali e locali non possano apprestare garanzie inferiori a quelle assicurate dalla legge nazionale, ma semmai livelli ulteriori di tutela.

 

3. L’inadempimento dell’obbligo: azione avverso il silenzio

Per giurisprudenza costante, il ricorso giurisdizionale avverso il silenzio dell’amministrazione è esperibile solo a tutela di posizioni di interesse legittimo e non se l’inerzia è serbata a fronte di un’istanza diretta al riconoscimento di un diritto soggettivo (più di recente, Cons. Stato, Sez. V, 6 luglio 2010, n. 4320 e Sez. IV, 12 novembre 2009, n. 7057).

L’azione è regolata dagli articoli 31 e 117 del codice del processo amministrativo. Secondo il chiaro disposto del codice, la legittimazione ad insorgere contro il silenzio-inadempimento, in capo a chi ha interesse all’adozione dell’atto, sorge con la scadenza del termine per provvedere ed anche in assenza di una previa diffida. È ragionevole opinare che il legislatore, anche e soprattutto nella terminologia utilizzata, abbia voluto affrancare l’interprete dal riflesso incondizionato che tralaticiamente induce a riconoscere la legitimatio ad causam in testa al solo titolare dell’interesse giuridico pretensivo al rilascio del provvedimento, quale potenziale beneficiario degli effetti favorevoli del medesimo. Invero, la tecnica normativa praticata – che qualifica espressamente l’azione come di accertamento dell’obbligo e non di impugnazione (di un atto che non c’è), lascia indeterminata l’indicazione del legittimato attivo (che non è identificabile in via esclusiva col soggetto nei cui confronti il provvedimento finale produrrà effetti diretti), ribadisce la superfluità della previa diffida (tipico strumento di tutela offerto al privato richiedente) e precisa che la legittimazione non deriva in esito alla produzione di un’istanza, ma alla scadenza del temine per provvedere – conduce a ritenere che la platea dei soggetti abilitati a promuovere l’azione sia più estesa di quanto, di primo acchito, si possa pensare. Che essa, cioè, includa “i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” e “quelli che per legge debbono intervenirvi”, cui ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 241/90, va comunicato l’avvio del procedimento ed in ultima analisi “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati”, nonché “i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento”, ai quali l’articolo 9 attribuisce la “facoltà di intervenire nel procedimento”.

Non per nulla, quando il legislatore ha voluto limitare l’esercizio di un rimedio o di una tutela ai soli titolari dell’interesse pretensivo al rilascio dell’atto, lo ha fatto in modo inequivocabile, come all’articolo 10 bis della legge, che attribuisce soltanto agli «istanti» il diritto di ricevere la comunicazione dei motivi che ostano all’accoglimento della domanda e di opporvisi.

Una volta scaduto il termine finale del procedimento, il soggetto interessato a reagire contro il silenzio per la via giudiziale, senza dover assegnare un nuovo termine a mezzo diffida – condicio sine qua non per la costituzione dell’inadempienza pubblicistica, prima dell’entrata in vigore del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80 (Cons. Stato, Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7) –, può notificare il proprio ricorso all’amministrazione ed ad almeno un controinteressato. In presenza di controinteressati pretermessi, spetterà al giudice ordinare l’integrazione del contraddittorio entro un termine perentorio, ai sensi dell’articolo 27 del codice di rito.

Sul ricorso, il giudice decide con la sentenza in forma semplificata di cui all’articolo 74 del codice. Trattandosi di azione di accertamento (e non di annullamento), non vale il termine generale di decadenza di sessanta giorni, di cui all’articolo 29 del codice, ma quello di un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, appositamente previsto dall’articolo 31. Se, trascorso l’anno, l’inadempimento perdura, all’interessato è data facoltà di riproporre l’istanza di avvio del procedimento, ove ne ricorrano i presupposti. E ciò all’evidente scopo di consentire la presentazione di un nuovo ricorso, se l’inerzia viene mantenuta anche dopo quest’ulteriore atto d’impulso.

Deve infatti ritenersi che – dalla scadenza del termine annuale di presentazione del ricorso – discenda la sanzione (processuale) della decadenza dall’azione, con conseguente pronuncia di irricevibilità del ricorso eventualmente proposto, per tardività della notificazione, ai sensi dell’articolo 35, comma 1, lett. a), del codice. Non anche l’effetto (sostanziale) dell’archiviazione tacita del procedimento.

 

Il punto di vista dell’Autore

Nel proprio atto l’interveniente non può introdurre nuove argomentazioni o motivi di censura ulteriori rispetto a quello introdotti dal ricorrente, limitandosi la sua attività a non pregiudicare la posizione della parte principale (nell’intervento adesivo). Ferma restando l’originaria delimitazione dell’oggetto del giudizio, gli intervenienti possono comunque addurre argomenti a favore delle contrapposte tesi.