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Art. 1 - Soggetti destinatari

1. I provvedimenti previsti dal presente capo si applicano a:

a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; (1)

b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; (2)

c) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all’articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica (2).

(1) La Corte costituzionale, con la sentenza 24/2019 ha dichiarato tra l’altro l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lett. c), nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal Capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lett. a), e dell’art. 16 nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli artt. 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a).

(2) Lettera così modificata dall’ art. 15, comma 1, lett. a), DL 14/2017, convertito, con modificazioni, dalla L. 48/2017.

Rassegna di giurisprudenza

Art. 1, lettera a): i soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi

La sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale: – dell’art. 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo secondo si applichino anche ai soggetti indicati nell’articolo 1, lettera a, della legge 27 dicembre 1956 n. 1423 nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lett. a); – dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche soggetti indicati nell’art. 1, lett. a). A sostegno della decisione, la Consulta ha rilevato come detta previsione si ponga in contrasto con l’art. 13 Cost. e, in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost., con l’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU per ciò che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale, anche alla luce dei principi espressi dalla Grande Camera della Corte EDU nella sentenza del 23 febbraio 2017, nel caso De Tommaso c. Italia. Giova rammentare come, in tale pronuncia, i giudici di Strasburgo censurarono le disposizioni in materia di prevenzione personale fondate sulle fattispecie di pericolosità generica di cui alla L. 1423/1956, oggi trasfuse nell’art. 1, in quanto non conformi agli standard qualitativi – in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità – che deve possedere ogni norma che costituisca la base legale di un’interferenza nei diritti della persona riconosciuti dalla CEDU o dai suoi protocolli. Nel sancire l’incostituzionalità dell’indicato art. 1 lett. a), i giudici della Consulta hanno posto in luce come l’interpretazione “tassativizzante” del requisito normativo previsto dalla lettera a) dell’art. 1 proposta dalla Corte di cassazione all’indomani della sentenza De Tommaso non valga, di per sé, a colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale, in quanto nei paesi di tradizione continentale, e certamente in Italia, è indispensabile l’esistenza di un “diritto scritto di produzione legislativa” rispetto al quale “l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo” (Sez. 6, 35685/2019).

La revocazione ex art. 28 è da ritenersi proponibile anche nella particolare ipotesi di decisione irrevocabile emessa in sede di prevenzione nei confronti di un soggetto ritenuto rientrare nelle categorie di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1 come modificate a seguito dell’intervento in parte demolitivo ed in parte interpretativo operato dalla Corte costituzionale con la pronuncia 24/2019 (Sez. 2, 33641/2020).

Art. 1, lettera b): i soggetti che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose

In tema di misure di prevenzione, le “categorie di delitto” legittimanti l’applicazione di una misura fondata sul giudizio di cd. pericolosità generica, ai sensi dell’art. 1, lett. b), devono presentare il triplice requisito - da ancorare a precisi elementi di fatto, di cui il giudice di merito deve rendere adeguatamente conto in motivazione - per cui deve trattarsi di delitti commessi abitualmente, ossia in un significativo arco temporale, che abbiano effettivamente generato profitti in capo al proposto e che costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l’unica, o quantomeno una rilevante, fonte di reddito per il medesimo (Sez. 5, 31697/2021).

In tema di misure di prevenzione, le “categorie di delitto” legittimanti l’applicazione di una misura fondata sul giudizio di cd. pericolosità generica, ai sensi dell’art. 1, lett. b), devono presentare il triplice requisito - da ancorare a precisi elementi di fatto, di cui il giudice di merito deve rendere adeguatamente conto in motivazione - per cui deve trattarsi di delitti commessi abitualmente, ossia in un significativo arco temporale, che abbiano effettivamente generato profitti in capo al proposto e che costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l’unica, o quantomeno una rilevante, fonte di reddito per il medesimo (Sez. 5, 37666/2020).

La Corte costituzionale, con sentenza 24/2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, lett. c), e 16, comma 1, lett. a), nella parte in cui stabiliscono che le misure di prevenzione personale e reali si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a). Ha, invece, ritenuto conforme al dettato costituzionale la predetta norma, nella parte in cui consente di applicare quelle misure di prevenzione ai soggetti indicati dall’art. 1, n. 2), L. 1423/1956, poi confluito nell’art. 1, lettera b). Il Giudice delle Leggi ha notato come, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale nella materia, è oggi possibile assicurare contorni sufficientemente precisi alla fattispecie di cui al cit. art. 1 lett. b), in modo da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali casi e modi essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Ha rilevato, infatti, come la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» debba essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato, così da poter ritenere preventivamente individuati i «tipi di comportamento» assunti a presupposto della misura, in linea con le indicazioni rese dalla Corte EDU. E tali “categorie di delitto” debbono presentare un triplice requisito, da provare sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente in motivazione. Occorre, cioè, che: a) i delitti siano stati commessi dal soggetto abitualmente, e dunque in un significativo arco temporale; b) essi abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui; c) tali profitti costituiscano – od abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto o, quanto meno, una componente significativa di esso. Inoltre, ai fini dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, al riscontro processuale di tali requisiti dovrà naturalmente aggiungersi la valutazione dell’effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 6, comma 1 (Sez. 6, 43553/2019).

La sentenza della Corte costituzionale 24/2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della fattispecie di pericolosità generica prevista dall’art. 1, comma 1, lett. a), assume, in rapporto alla fattispecie di cui all’art. 1, lett. b), la valenza di sentenza interpretativa di rigetto (Sez. 1, 27696/2019), l’iscrizione del proposto in una categoria criminologica tipizzata potendo aver luogo sulla base, non già di meri sospetti, bensì esclusivamente di un giudizio di fatto che ricostruisca le condotte materiali del medesimo, onde successivamente valutarle ai fini della verifica della sua pericolosità sociale, con la conseguenza che la legge interna non incorre in alcun difetto di chiarezza, determinatezza, precisione e prevedibilità degli esiti applicativi, integrante un vizio di qualità avente rilievo convenzionale (Sez. 1, 349/2017; Sez. 2, 9517/2018) (riassunzione compiuta da Sez. 6, 43290/2019).

Il Giudice delle leggi, valorizzando gli approdi interpretativi della giurisprudenza di legittimità successivi alla sentenza emessa dalla Corte EDU, Grande Chambre, nel caso De Tommaso c. Italia, ha ritenuto che risulta oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera b), che evoca la categoria di «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose», sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali «casi» e in quali «modi» essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca. Ha, perciò, precisato che: 1) «la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è suscettibile di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato, tale ermeneusi consentendo di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte EDU, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza 177/1980 della Corte costituzionale – di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura. Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, comma 2, Cost.) – per cui deve trattarsi di: a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto; b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui; c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito. Sicchè: «Ai fini dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al riscontro processuale di tali requisiti dovrà aggiungersi la valutazione dell’effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 6, comma 1». Per tali ragioni, ha conclusivamente ritenuto non illegittima la disciplina riguardante la fattispecie normativa di cosiddetta “pericolosità generica” di cui all’art. 1, lettera b). Nella stessa sentenza, il Giudice delle leggi ha evidenziato come le misure di prevenzione non presuppongano l’instaurarsi di un processo penale nei confronti del soggetto destinatario: «Sufficiente e necessario a legittimarne l’applicazione.., è, infatti, che l’attività criminosa – descritta nelle varie fattispecie elencate oggi nell’art. 4, e il cui riscontro probatorio funge da base sulla quale sviluppare il giudizio in ordine alla pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica – risulti da evidenze che la legge indica ora come «elementi di fatto», più spesso come «indizi»; evidenze che debbono essere vagliate dal tribunale nell’ambito di un procedimento retto da regole probatorie e di giudizio diverse da quelle proprie dei procedimenti penali». Da ciò ha tratto ragione per sostenere che le garanzie che, dal punto di vista costituzionale e convenzionale, le circondano non sono le stesse che riguardano i reati e le pene. Ha, in tal senso, sottolineato che: «La circostanza che, ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione personale, sono comunque necessari elementi che facciano ritenere pregresse attività criminose da parte del soggetto, non comporta che le misure in questione abbiano nella sostanza carattere sanzionatorio–punitivo, sì da chiamare in causa necessariamente le garanzie che la CEDU, e la stessa Costituzione, sanciscono per la materia penale. Imperniate come sono su un giudizio di persistente pericolosità del soggetto, le misure di prevenzione personale hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva, mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati, o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle possibili iniziative criminose del soggetto. L’indubbia dimensione afflittiva delle misure stesse non è, in quest’ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui scopo essenziale è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: non già la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato». Ha, quindi, dato seguito all’orientamento espresso dalla giurisprudenza costituzionale secondo il quale le misure di prevenzione personali non soggiacciano ai principi dettati, in materia di diritto e di processo penale, dagli articoli 25, secondo comma, 27, 111, terzo, quarto e quinto comma, e 112, Cost. ed ha efficacemente ricordato come la stessa Corte EDU, nella sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, paragrafo 143 abbia espressamente escluso che le misure di prevenzione personali sottoposte al suo esame costituiscano sanzioni di natura sostanzialmente punitiva, come tali soggette ai vincoli che la Convenzione detta in relazione alla materia penale. Nella medesima sentenza, la Corte di cassazione – in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare nella lettera b) dell’art. 1, degli «elementi di fatto» su cui l’applicazione della misura deve basarsi –, ha affermato che «il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione» (Sez. 1, 43826/2018), anche se ha precisato che non sono sufficienti meri indizi, perché la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e più rigorosa di quella utilizzata dall’art. 4 per l’individuazione delle categorie di cosiddetta pericolosità qualificata, dove si parla di «indiziati» (Sez. 1, 43826/2018), e che: «In tema di misure di prevenzione, il concetto di abitualità rilevante ai fini della pericolosità generica deve essere valutato tenendo conto del pregresso accertamento in sede penale, ancorché non definito da una sentenza di condanna, relativo all’accertamento dell’avvenuta commissione di delitti dai quali il proposto avrebbe tratto proventi illeciti» (Sez. 6, 53003/2017) (riassunzione compiuta da Sez. 1, 32461/2019).

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, lett. a) e b), 4, comma 1, per contrasto con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 2, Prot. 4, CEDU, come interpretato dalla Grande Camera della Corte EDU con la sentenza del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, poiché, sulla base degli attuali canoni interpretativi della disciplina vigente, il giudizio di pericolosità generica non si fonda su meri sospetti, ma sulla verifica, obiettivamente riscontrabile, della consumazione abituale, o, comunque, non episodica, di condotte criminose qualificabili come delitti, fonte di illeciti arricchimenti, nonché, per la sola ipotesi di cui alla lett. b) dell’art. 1, della successiva destinazione di tali proventi al mantenimento del proposto (Sez. 6, 43290/2019).

È necessario, in conformità anche ad indirizzo espresso, sul punto, da pronunce risalenti (Sez. 1, 23641/2014) verificare, in primo luogo l’apprezzamento, da parte dei giudici della prevenzione, di fatti idonei ad iscrivere i soggetti proposti in una delle categorie criminologiche tipizzate e, in secondo luogo, esaminare la valutazione operata, dal punto di vista prognostico, circa le probabili future condotte offensive degli interessi tutelati. Secondo numerosi arresti, anche precedenti al citato intervento della Grande Camera della Corte EDU del 23 febbraio 2017, l’iscrizione del soggetto in determinate categorie criminologiche è, infatti, condizione necessaria (ma non sufficiente) ad applicare la misura di prevenzione personale, posto che dette categorie tipizzate rappresentano indicatori della pericolosità del soggetto, in quanto indici rivelatori della possibilità, per il predetto, di compiere in futuro, condotte perturbatici dell’ordine sociale, economico o costituzionale. La Corte EDU, poi, come è noto, si è pronunciata sulla norma in astratto (la L. 1423/1956, rispetto alla quale quella del 2011 si pone in continuità normativa: Sez. 5, 49464/2013) escludendo, in punto di chiarezza e precisione, la tassatività e, quindi, la prevedibilità, di talune delle categorie criminologiche astratte. Si è, poi, di recente affermato (Sez. 1, 2188/2018) in conformità all’indirizzo di legittimità espresso nella composizione più autorevole, in tema di pericolosità generica (SU, 40076/2017, adottata sulla rilevanza penale della violazione della prescrizione generica di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”) che l’interprete è chiamato ad una lettura conforme alla CEDU e al tempo stesso (ed anzi in via prioritaria) alla Costituzione e in particolare a una lettura ‘tassativizzante e tipizzante della fattispecie”. Tanto riportandosi anche ai precedenti interventi in materia della Corte costituzionale (sentenza 93/2010) che avevano già evidenziato la componente ricostruttiva del giudizio di prevenzione, teso a valorizzare l’apprezzamento di fatti idonei ad iscrivere il soggetto proposto nelle categorie tipizzate, in quanto individuate secondo principi di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti rilevanti. Va, poi, richiamato, da ultimo l’indirizzo espresso nelle pronunce 24/2019 e 25/2019 della Corte costituzionale, depositate in data 27 febbraio 2019, intervenute in tema di pericolosità generica, che hanno fissati importanti principi sul rapporto tra principio di legalità e disciplina legislativa in materia di misure di prevenzione personali e patrimoniali. Si è, infatti, affrontato anche il tema del rapporto tra la natura e la funzione delle misure di prevenzione, l’ordinamento interno e il diritto sovranazionale, confrontandosi con la giurisprudenza europea e con i più recenti approdi, anche a sezioni unite, dalla giurisprudenza di legittimità. Per il profilo che qui interessa, la pronuncia 24/2019, prendendo le mosse dal comune punto di partenza (cioè dal contenuto della citata decisione de Tommaso c. Italia), ha sottolineato come la misura di sicurezza personale, oltre che essere riferita a soggetti appartenenti alle categorie elencate dall’art. 4, debba passare attraverso la verifica processuale della pericolosità, intesa come elevata probabilità di commissione in futuro di ulteriori attività criminose, individuando proprio nella pericolosità sociale il punto di contatto tra le misure di prevenzione e quelle di sicurezza di cui al codice penale (riassunzione compiuta da Sez. 5, 42761/2019).

La revocazione ex art. 28 è da ritenersi proponibile anche nella particolare ipotesi di decisione irrevocabile emessa in sede di prevenzione nei confronti di un soggetto ritenuto rientrare nelle categorie di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1 come modificate a seguito dell’intervento in parte demolitivo ed in parte interpretativo operato dalla Corte costituzionale con la pronuncia 24/2019 (Sez. 2, 33641/2020).

In sede di verifica della pericolosità del soggetto proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e b), il giudice della prevenzione può ricostruire in via autonoma la rilevanza penale dei fatti accertati in sede penale che non abbiano dato luogo ad una sentenza di condanna, a condizione che non sia stata emessa una sentenza irrevocabile di assoluzione in quanto la negazione penale di un fatto impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità; ne consegue che detto potere di autonoma valutazione sussiste anche nel caso di emissione di una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione purché il fatto risulti delineato con sufficiente chiarezza o sia comunque ricavabile in via autonoma dagli atti (Sez. 2, 11846/2018).

L’evasione fiscale per essere rilevante ai sensi dell’art. 1 deve essere di natura delittuosa, facendo riferimento detto articolo, alle lett. a) e b), ai “traffici delittuosi” e ai proventi di “attività delittuose”.

La valutazione prognostica propria ed esclusiva del giudizio di prevenzione è autonoma rispetto all’accertamento penale, non ponendosi in rapporto di dipendenza con i procedimenti penali anche tributari.

Non risponde al vero che la disciplina previgente all’entrata in vigore del D. Lgs. 74/2000 contemplasse solo illeciti di natura contravvenzionale e non illeciti di natura delittuosa e che comunque l’evasione fiscale risulta riscontrata con riferimento a condotte di gran lunga successive all’entrata in vigore del summenzionato decreto. In materia di prevenzione e a fronte del provento illecito che deriva dall’evasione fiscale, l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità ha riguardo alla natura illecita del provento richiamando la nozione di provento illecito derivante dalla commissione del reato, quale enucleata dalle Sezioni unite (SU, 9149/1996), ancorché pertinente ad attività economiche astrattamente lecite.

Vanno inquadrati nella categoria dei soggetti pericolosi che vivono di proventi di delitto anche coloro che in via di mero fatto hanno lucrato vantaggi economici da condotte elusive di obblighi tributari, pur non essendo formalmente titolari di alcuna delle attività economiche produttive del reddito che avrebbe dovuto essere dichiarato a fini fiscali. È infine escluso (SU, 33451/2014) che l’eventuale condono fiscale possa incidere in favore del proposto, essendo irrilevante che, a seguito del perfezionamento dell’iter amministrativo, le somme evase al fisco siano entrate a far parte legittimamente del patrimonio del suddetto, dal momento che l’illiceità originaria del comportamento con cui tali somme sono state procurate continua a spiegare i propri effetti ai fini della confisca (Sez. 1, 37024/2018).

Va considerato pericoloso ai sensi dell’art. 1 L. 1423/1956 (attualmente sostituito dall’art. 1) il soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi contributivi e che reinvesta i relativi profitti in attività commerciali, vivendo così abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose (Sez. 1, 37024/2018).

 

Art. 1, lettera c): soggetti dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica

È utile analizzare brevemente alcuni aspetti fondamentali delle misure di prevenzione. Dovendosi applicare in via giurisdizionale misure tese a limitare diritti della persona costituzionalmente garantiti o a incidere pesantemente e in via definitiva sul diritto di proprietà (si veda quanto affermato da Corte costituzionale, 93/2010) le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso stretto, rientrano in un’accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva il che impone di ritenere applicabile il generale principio di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti presi in considerazione come fonte giustificatrice di dette limitazioni.

Da ciò deriva l’assoluta importanza di porre in evidenza quei fatti idonei a determinare l’iscrizione del soggetto in una delle categorie tipizzate. Il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione è ritenuto pericoloso in rapporto al suo precedente agire che è elevato a indice rivelatore della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell’ordine sociale, costituzionale o dell’ordine economico in rapporto all’esistenza delle disposizioni di legge che qualificano le diverse categorie di pericolosità (artt. 1 e 4).

L’iscrizione in tali categorie criminologiche è condizione necessaria, ma non sufficiente per l’applicazione della misura di prevenzione personale, dato che tali categorie rappresentano, a loro volta, indicatori della pericolosità del soggetto, come chiaramente evidenziato dalla disposizione contenuta nell’art. 1, comma 3, della legge–delega 136/2010 (recante il piano straordinario contro le mafie, nonché la delega al Governo in materia di normativa antimafia) che così esplicitava il criterio direttivo alla stregua del quale riordinare la materia: «... che venga definita in maniera organica la categoria dei destinatari delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, ancorandone la previsione a presupposti chiaramente definiti e riferiti in particolare all’esistenza di circostanze di fatto che giustificano l’applicazione delle suddette misure di prevenzione e, per le sole misure personali, anche alla sussistenza del requisito della pericolosità del soggetto».

Quanto detto rappresenta il necessario approdo a seguito di numerose decisioni della Corte costituzionale (si veda, in particolare, la sentenza 177/1980, con la quale, proprio in ragione della difficoltà dimostrativa dei generici presupposti di fatto, venne cancellata la categoria criminologica dei «soggetti proclivi a delinquere») le quali hanno sempre richiamato l’interprete a una lettura restrittiva delle condizioni di applicabilità delle misure.

L’art. 1, sotto la rubrica «soggetti destinatari», individua il campo di applicazione delle misure di prevenzione applicate dall’autorità amministrativa, enumerando i seguenti soggetti a pericolosità generica: «a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all’articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica».

Il successivo art. 4, sotto la rubrica «soggetti destinatari», individua il campo di applicazione delle misure di prevenzione applicate dall’AG, precisando che esse si applicano: «a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416–bis CP; b) ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3–bis, CPP ovvero del delitto di cui all’articolo 12–quinquies, comma 1, DL 306/1992, convertito, con modificazioni, dalla L. 356/1992; c) ai soggetti di cui all’articolo 1; d) a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270–sexies CP; e) a coloro che abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della L. 645/1952, e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; f) a coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’articolo 1 L. 645/1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; g) fuori dei casi indicati nelle lettere d), e) ed f), siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella L. 895/1967, e negli articoli 8 e seguenti della L. 497/1974, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato alla lettera d); h) agli istigatori, ai mandanti e ai finanziatori dei reati indicati nelle lettere precedenti.

È finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati; i) alle persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’articolo 6 L. 401/1989, nonché alle persone che, per il loro comportamento, debba ritenersi, anche sulla base della partecipazione in più occasioni alle medesime manifestazioni, ovvero della reiterata applicazione nei loro confronti del divieto previsto dallo stesso articolo, che sono dediti alla commissione di reati che mettono in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica, ovvero l’incolumità delle persone in occasione o a causa dello svolgimento di manifestazioni sportive».

Si noti, infine, che in forza del richiamo contenuto nell’art. 4, comma 1, lett. c), la misura di prevenzione applicata dall’AG può colpire anche i soggetti a pericolosità generica indicati all’art. 1. Tanto premesso, deve essere evidenziato che se i soggetti indicati all’art. 4 sono, tendenzialmente, ben individuabili mediante il puntuale richiamo alle singole ipotesi delittuose ivi richiamate ovvero alle condotte specificamente ivi descritte, le categorie di pericolosità generica indicate all’art. 1 del decreto sono certamente più sfumate.

Nel prosieguo sarà analizzata esclusivamente la categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. c). Con riguardo all’ipotesi di cui all’art. 1, comma 1, lett. c), l’interprete è chiamato a un particolare sforzo ermeneutico per individuare i «reati che offendono o mettono in pericolo [...] la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica», apparendo per converso più agevole individuare quelli che riguardano «l’integrità fisica o morale dei minorenni». Cercando di individuare i reati che concernono la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica, deve, innanzitutto, precisarsi che, in ragione del mancato richiamo all’integrità fisica, non si deve trattare di reati che ledono o pongono direttamente in pericolo tale bene, tanto che sembrano esclusi dal novero degli indicati reati quelli contro la persona.

Il concetto di «sanità pubblica» viene, usualmente, riportato alle disposizioni del RD 1265/1934, portante approvazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie, anche se la giurisprudenza ha spesso sovrapposto il sintagma a quello di igiene pubblica (Sez. 1, 6838/1997), pur apparendo i due concetti distinti in altre disposizioni di legge, come per esempio nell’art. 328 CP, tanto che il primo appare di più ampio contenuto, configurandosi tra i due concetti un rapporto di genere a specie.

Il riferimento alla «tranquillità pubblica», spesso utilizzata in congiunzione con l’ordine pubblico, è contenuto nella Sezione Prima del Capo Primo del Titolo I del Libro Terzo del codice penale, laddove vengono raggruppate le «contravvenzioni concernenti l’ordine e la tranquillità pubblica», inteso come buon assetto e regolare andamento del vivere civile, tanto che la Corte costituzionale ha affermato che l’art. 650 tutela la tranquillità e l’ordine pubblici (sentenza 168/1971) e la giurisprudenza di legittimità lo ha considerato in termini analoghi (Sez. 3, 6475 /1973) ha affermato che «l’ordine verbale, più volte reiterato, col quale un sottufficiale dei carabinieri intima a un ubriaco di uscire da un bar costituisce il legittimo presupposto per la configurabilità del reato previsto dall’art 650., in quanto emesso dall’autorità competente, nella forma prescritta e per ragioni di ordine pubblico, e cioè per tutelare la quiete, la tranquillità e l’armonia sociale»).

Il contenuto protettivo della tranquillità pubblica si apprezza, poi, scorrendo le contravvenzioni riportate nella medesima Sezione Prima, laddove vengono enumerati, tra gli altri, alcuni reati che pongono a rischio la tranquillità del corpo sociale: la radunata sediziosa (art. 655 CP), la pubblicazione o diffusione di notizie false atte a turbare l’ordine pubblico (art. 656 CP), il procurato allarme (art. 658 CP) e il disturbo delle occupazione o del riposo (art. 659 CP).

La nozione di «sicurezza pubblica» è stata identificata con la «sicurezza dei cittadini» a norma dell’art. 1 TULPS (così, esplicitamente, Sez. 1, 2595/1993; in seguito Sez. 1, 2353/1997), così potendosi escludere unicamente le questioni aventi per oggetto i dissidi tra privati e quelle attinenti alla polizia edilizia (Sez. 1, 9971/1994; Sez. 6, 13142/1980), nonché, secondo la parte prevalente della dottrina, la polizia commerciale, ferroviaria, forestale, scolastica, dei costumi e stradale. In tale ampio concetto di sicurezza pubblica rientra la materia delle armi in quanto improntata a evitare che la sicurezza dei cittadini sia posta a rischio da strumenti dotati di specifica capacità lesiva.

Infatti, la regolamentazione delle armi è incentrata sul tracciamento e monitoraggio delle stesse e dei soggetti che le detengono e sul generale divieto di porto senza licenza, tanto che appare evidente la finalità di accrescere la sicurezza dei cittadini, limitando l’esposizione di essi al rischio derivante da una gestione libera e incontrollata delle armi.

Sotto tale profilo, in effetti, la legislazione di settore è univocamente posta a presidio della sicurezza pubblica. o, la categoria generica in argomento è volta, tra l’altro, a contrastare la pericolosità concernente i reati attinenti alle armi, in quanto strumenti principalmente destinati a porre a rischio la sicurezza pubblica, tanto che essa rientra a pieno titolo nell’ipotesi di pericolosità individuata nel provvedimento impugnato. Come si è sopra illustrato, la nozione di sicurezza pubblica attiene alla messa in pericolo della collettività dei cittadini, che appare palesemente sussistente allorquando si tema la commissione di reati attinenti alle armi, strumento tipico univocamente destinato all’offesa alla persona (Sez. 1, 21350/2017).

Con specifico riferimento all’art. 1, comma 1, lett. c (derivante dall’omologa disposizione della L. 1423/1956, nel testo post L. 327/1988), l’offesa o la messa in pericolo dei beni costituiti dall’integrità fisica o morale dei minorenni, dalla sanità, dalla sicurezza o dalla tranquillità pubblica deve derivare, per rilevare al fine del giudizio di pericolosità richiesto dalla norma, da veri e propri reati ascrivibili al soggetto, non da una condotta in sé non costituente reato (Sez. 1, 32397/2017).

 

Necessità della constatazione della categoria della pericolosità contestata

Anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 159/2011, l’invito a comparire deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione della misura di cui si chiede l’applicazione e della forma di pericolosità.

Tuttavia, questo non comporta necessariamente che, nell’invito a comparire, sia tassativamente imposta l’indicazione della categoria di appartenenza del proposto: ciò che è richiesto, infatti, è l’indicazione del tipo di pericolosità posto a fondamento della richiesta e degli elementi di fatto dai quali la si ritiene.

Si tratta, quindi, non tanto dì un requisito formale, ma sostanziale: cosicché, ad esempio, si è ritenuto che non si ha violazione del principio di correlazione tra contestazione e pronuncia qualora gli elementi fattuali posti a fondamento della prognosi di pericolosità, pur non essendo stati espressamente enunciati nella proposta, siano stati acquisiti nel contraddittorio con l’interessato; e nemmeno se, proposta l’applicazione di una misura di prevenzione con riferimento alla pericolosità sociale qualificata dagli indizi di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, il provvedimento applicativo della misura risulti fondato sulla pericolosità generica del soggetto con riferimento a elementi di fatto sui quali l’interessato abbia avuto modo di difendersi (Sez. 1, 12174/2019). 

 

Linee guida, circolari e prassi

Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato: "Linee guida aggiornate al decreto legge 14 giugno 2019 n. 53, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 2019 n. 77, e alla legge 19 luglio 2019 n. 69", reperibili a questo link: https://sistemapenale.it/pdf_contenuti/1596050216_linee-guida-misure-di-prevenzione-personali-polizia-di-stato-servizio-centrale-anticrimine-luglio-2020.pdf