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Art. 70 - Riabilitazione

1. Dopo tre anni dalla cessazione della misura di prevenzione personale, l’interessato può chiedere la riabilitazione. La riabilitazione è concessa, se il soggetto ha dato prova costante ed effettiva di buona condotta, dalla corte di appello nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria che dispone l’applicazione della misura di prevenzione o dell’ultima misura di prevenzione.

2. La riabilitazione comporta la cessazione di tutti gli effetti pregiudizievoli riconnessi allo stato di persona sottoposta a misure di prevenzione nonché la cessazione dei divieti previsti dall’articolo 67.

3. Si osservano, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale riguardanti la riabilitazione.

4. Quando è stata applicata una misura di prevenzione personale nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera a) e b), la riabilitazione può essere richiesta dopo cinque anni dalla cessazione della misura di prevenzione personale.

Rassegna di giurisprudenza

Ai fini dell’esame della domanda di riabilitazione, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 L. 1423/1956, richiamato dall’art. 3–ter, comma 2, L. 575/1965 e, in tema di sindacato sulla motivazione, è ricompresa nel novero dei vizi deducibili in sede di legittimità, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4, solo il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (SU, 33451/2014).

L’art. 70, comma 3, prevede che, in relazione all’istanza di riabilitazione, “si osservano, in quanto compatibili le disposizioni del codice di procedura penale riguardanti la riabilitazione”. Di conseguenza, si deve ritenere applicabile al procedimento in esame la previsione di cui all’art. 678, comma 1–bis CPP, secondo cui “il Tribunale di sorveglianza (in questo caso: la Corte d’appello), nella materia relativa alla richiesta di riabilitazione (...) procede a norma dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen.”: quindi con ordinanza adottata de plano avverso la quale l’interessato può proporre opposizione allo stesso giudice (Sez. 1, 13126/2017).

A mente dell’art. 70 la concessione della riabilitazione postula la sussistenza di due requisiti: – il primo di carattere temporale: decorso di tre anni nei casi di “pericolosità generica” o di cinque anni nel caso di “pericolosità qualificata” dalla cessazione della misura di prevenzione; – il secondo di natura sostanziale: il soggetto deve aver dato prova costante ed effettiva di buona condotta durante l’intero periodo sopra indicato.

L’onere probatorio grava sull’istante. Lo scarno enunciato normativo è stato interpretato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che è richiesta una valutazione della personalità dell’istante sulla base non già della mera astensione dal compimento di fatti criminosi, ma di fatti e comportamenti sintomatici di un effettivo e costante rispetto delle regole della convivenza sociale, quale espressione del recupero dell’interessato ad un corretto modello di vita (Sez. 6, 5164/2014).

Deve inoltre ritenersi che la formula della “buona condotta” vada posta in relazione diretta con le caratteristiche assunte in concreto dalla “pericolosità sociale” che aveva giustificato l’applicazione della misura di prevenzione, nel senso che la buona condotta sottende, prima di tutto, l’eliminazione effettiva di quei fattori da cui aveva origine la pericolosità del soggetto. Pertanto la prova che l’istante deve fornire assume contenuti e gradazioni differenti in rapporto alla natura della precedente pericolosità, dovendosi distinguere la ex pericolosità “generica” da quella “qualificata” e, all’interno di quest’ultima, il diverso livello in cui il soggetto si collocava nella struttura organizzativa criminale.

Nel caso di un soggetto sottoposto a misura di prevenzione in ragione della sua “pericolosità qualificata” per appartenenza a una delle “mafie storiche”, la prova del recupero ad un corretto modello di vita postula necessariamente la dimostrazione di una reale rescissione soggettiva del vincolo, tenuto conto della tendenziale stabilità del legame associativo, desunta dall’esame sociologico e storico del fenomeno mafioso. Mentre lo svolgimento di attività lavorativa o la cura dei familiari sono irrilevanti, perché il mafioso, di regola, è un soggetto ben inserito nella famiglia e nella società (Sez. 5, 5530/2019).

In tema di misure di prevenzione, la prova costante ed effettiva di buona condotta, necessaria per la concessione della riabilitazione, implica una valutazione della personalità sulla base non già della mera astensione dal compimento di fatti criminosi, ma di fatti e comportamenti sintomatici di un effettivo e costante rispetto delle regole della convivenza sociale, quale espressione del recupero dell’interessato ad un corretto modello di vita.

Rilevano, a tal fine non tanto l’assenza di ulteriori elementi negativi, bensì prove effettive e costanti di buona condotta, con la conseguenza che, mentre il totale silenzio sulla condotta dell’istante risulta insufficiente, qualsiasi nota negativa, anche priva di rilievo penale, in ordine al suo comportamento, può essere apprezzata come prova di valenza contraria a quella richiesta dal legislatore.

Nel rigettare l’istanza, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione degli enunciati principi, conferendo rilievo non già alla condizione di disoccupazione dell’istante, ex se neutra, ma alla decadenza dall’iscrizione al centro per l’impiego, imputabile all’inottemperanza di uno specifico adempimento posto a carico dell’iscritto, che disvela il sostanziale disinteresse ad una stabile occupazione, non in linea con l’evoluzione personologica che la riabilitazione richiede.

Il provvedimento impugnato, pertanto, dà conto non solo dell’assenza di prove effettive e costanti di buona condotta, ma della presenza di perduranti inosservanze, che non hanno consentito la positiva dimostrazione richiesta dalla legge, rispetto alla quale anche la ritenuta frequentazione di pregiudicati nelle circostanze dell’arresto, invece oggetto di contraria dimostrazione, finisce per essere ininfluente (Sez. 5, 10517/2018).

L’ art. 70 prevede che dopo tre anni dalla cessazione di una misura di prevenzione personale, l’interessato può chiedere la riabilitazione, che è concessa se il soggetto ha dato prova costante ed effettiva di buona condotta; un tempo, dunque, più breve rispetto a quello previsto dagli 179 e ss. CPP. Ne deriva che due sono í presupposti normativi per tale riabilitazione e precisamente, da un lato, il decorso di almeno tre anni dalla cessazione della misura preventiva, e, dall’altro, l’aver “dato prova costante ed effettiva di buona condotta”.

Quanto a quest’ultimo presupposto, si è evidenziato che la prova della buona condotta necessita della acquisizione di indici positivi che abbiano il significato univoco di recupero dell’istante ad un corretto, anche se non esemplare, modello di vita; in presenza di tali indici, tuttavia, non può attribuirsi ad un singolo episodio occasionale di intemperanza – non espressivo di una generale condotta di vita – valore automaticamente ostativo alla concessione della riabilitazione.

Si è sottolineata l’esigenza, ai fini della verifica del requisito della buona condotta, al pari di quanto affermato sempre dalla giurisprudenza di legittimità per l’istituto previsto dalla parte generale del codice penale, della valutazione del comportamento tenuto dall’interessato per un periodo più esteso del triennio successivo alla cessazione della misura preventiva, fino alla data della decisione sulla istanza prodotta.

E si è evidenziato come la “buona condotta” non coincida con la semplice astensione dal commettere reati, ma consista nella instaurazione di un modus vivendi connotato dall’osservanza delle norme proprie del vivere civile, indipendentemente dalla previsione di una sanzione penale o comunque giuridica che si riconnetta al mancato rispetto delle stesse (Sez. 1, 6022/2017).

Sulla base del principio di autonomia delle valutazioni in materia di interdittiva antimafia, le sentenze di assoluzione in sede penale, così come i provvedimenti di riabilitazione, non possono ritenersi idonei ad escludere in via automatica la sussistenza del rischio di infiltrazione mafiosa, e quindi non precludono l’adozione di un’interdittiva antimafia, che tuttavia deve essere adeguatamente motivata (TAR Lombardia, Sez. I, 2707/2018).

 

Linee guida, circolari e prassi

Ministero dell’Interno, circolare del 27 marzo 2018, n. 11001/119/20(8) Uff. II, in tema di revoca della comunicazione interdittiva, reperibile al seguente link: http://www.interno.gov.it/sites/default/files/circolare_art._70_d.lgs_._n._159–2011._revoca_comunicazione_interdittiva_–_27_mar_2018.pdf