x

x

Art. 247 - Casi e forme delle perquisizioni

1. Quando vi è fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona il corpo del reato o cose pertinenti al reato, è disposta perquisizione personale. Quando vi è fondato motivo di ritenere che tali cose si trovino in un determinato luogo ovvero che in esso possa eseguirsi l’arresto dell’imputato o dell’evaso, è disposta perquisizione locale.

1-bis. Quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ancorché protetto da misure di sicurezza, ne è disposta la perquisizione, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione.

2. La perquisizione è disposta con decreto motivato.

3. L’autorità giudiziaria può procedere personalmente ovvero disporre che l’atto sia compiuto da ufficiali di polizia giudiziaria delegati con lo stesso decreto.

Rassegna giurisprudenziale

Casi e forme della perquisizione (art. 247)

In tema di sequestro probatorio, l’acquisizione indiscriminata di un’intera categoria di beni, nell’ambito della quale procedere successivamente alla selezione delle singole res strumentali all’accertamento del reato, è consentita a condizione che il sequestro non assuma una valenza meramente esplorativa e che il PM adotti una motivazione che espliciti le ragioni per cui è necessario disporre un sequestro esteso e onnicomprensivo, in ragione del tipo di reato per cui si procede, della condotta e del ruolo attribuiti alla persona titolare dei beni, e della difficoltà di individuare ex ante l’oggetto del sequestro (Sez. 5, 15648/2022).

Il decreto di perquisizione emesso dal PM deve autonomamente indicare gli elementi essenziali di tempo, luogo e azione, che costituiscono l'oggetto dell'indagine e ai quali deve correlarsi da un lato il fumus delicti e dall'altro la verifica delle esigenze di accertamento, sottese alla perquisizione e al conseguente sequestro. Non è sufficiente, a tal fine, il mero richiamo di un atto di indagine, che non sia specificamente incorporato o allegato, in quanto il soggetto interessato deve essere posto immediatamente, cioè nel momento in cui viene in rilievo la facoltà di impugnazione, in condizione di confrontarsi con gli elementi che danno contenuto all'atto compiuto e di formulare una scelta consapevole circa le modalità di esercizio del diritto di difesa, senza che si possa ritenere sufficiente, in tale prospettiva, il deposito dell'atto richiamato nella successiva fase del giudizio di riesame, la cui attivazione postula che sia stata effettuata una meditata scelta (Sez. 6, 5399/2022).

È violato l’art. 8 CEDU allorché il diritto nazionale non preveda strumenti di controllo sulla legittimità di una perquisizione, finalizzati  a prevenire il rischio che essa serva a fornire alle autorità inquirenti elementi d’accusa su persone non sospettate di avere commesso un reato (fattispecie in cui una persona ha subito una perquisizione domiciliare che ha avuto esito negativo; di seguito il PM competente ha chiesto l’archiviazione del procedimento e il GIP ha accolto la richiesta senza avere l’occasione di pronunciarsi sulla legittimità della perquisizione; la Corte di Strasburgo ha stigmatizzato l’assenza nell’ordinamento italiano di strumenti che obblighino il PM a chiedere un’autorizzazione preventiva al giudice o quantomeno ad informarlo della decisione di disporre una perquisizione (Corte EDU, Sez. 1, sentenza del 27.9.2018, Brazzi c. Italia).

Ai sensi dell’art. 247, il PM dispone la perquisizione domiciliare quando vi è fondato motivo di ritenere che il corpo del reato o cose pertinenti al reato si trovino in un determinato luogo. Nella Relazione preliminare al codice di procedura penale si legge che «Circa l’oggetto del sequestro, si è preferito distinguere subito fra “corpo del reato” e “cose pertinenti al reato”, anche per consentire una definizione sufficientemente comprensiva del concetto di “corpo”, poi richiamato in altre disposizioni, così da includervi anche le cose il cui uso, porto, detenzione ecc. costituisce reato. Quanto alle cose “pertinenti” al reato, è parso opportuno affidarsi all’interpretazione giurisprudenziale». Si sottolinea ancora nella Relazione che «fondamento dell’istituto resta l’esigenza cautelare: più precisamente quella di tutela della collettività con riferimento al protrarsi della attività criminosa e dei suoi effetti, donde il preciso obbligo per il giudice di “enunciare le finalità della misura al momento della sua applicazione, in modo da consentire sempre, alla persona che ne è colpita, di provocare un controllo sul merito e sulla legittimità della stessa, anche per quanto attiene alla ragione d’essere della sua persistenza”». Corollario di tale principio è che se il sequestro è disposto a fini di prova, debbono essere esplicitate le ragioni che giustificano in concreto la necessità dell’acquisizione interinale del bene, in funzione dell’assicurazione della prova del reato per cui si procede o della responsabilità dell’autore (Sez. 1, 16380/2018).

È necessario che i provvedimenti di perquisizione e sequestro individuino, almeno nelle linee essenziali, gli oggetti da sequestrare con riferimento a specifiche attività illecite, non bastando una generica indicazione di pertinenza di quanto eventualmente rinvenuto rispetto al reato ipotizzatoTuttavia, non è possibile al contrario pretendere l’indicazione dettagliata delle cose da ricercare e sottoporre a sequestro, sia perché il più delle volte le stesse non possono essere specificate a priori, sia perché l’art. 248, nel prevedere la richiesta di consegna quando attraverso la perquisizione si cerca una cosa determinata, implica che oggetto di ricerca possano essere anche cose non determinate, che potranno essere individuate solo all’esito dell’eseguita perquisizione (Sez. 6, 38568/2018).

I provvedimenti di perquisizione e sequestro nei confronti dei giornalisti richiedono presupposti e comportano limiti specifici in ragione dell’attività professionale svolta dagli appartenenti a tale categoria di professionisti. L’attività svolta dal giornalista impone anzitutto, anche ai fini della legittimità di provvedimenti di perquisizione e sequestro, il rispetto dei limiti indicati dall’art. 200, comma 3, in tema di prova testimoniale, e cioè l’indispensabilità della rivelazione della fonte informativa ai fini della prova del reato per cui si procede, nonché l’impossibilità di accertare altrimenti la veridicità della notizia in possesso del perquisitoDi conseguenza, non è sufficiente «un semplice nesso di “pertinenzialità” tra le notizie ed il generico tema dell’indagine, così come occorre che tale ingerenza rappresenti la extrema ratio cui ricorrere per poter conseguire la prova necessaria per perseguire il reato. Il medesimo profilo funzionale dell’attività svolta dal giornalista implica, inoltre, la necessità di valutare con particolare rigore la “proporzione” tra il contenuto del provvedimento emesso dall’AG e le esigenze di accertamento dei fatti: solo in tal modo, infatti, si può assicurare che l’attività investigativa sia condotta in modo da non compromettere il diritto del giornalista alla riservatezza della propria corrispondenza e delle proprie fonti. Il rispetto del «criterio di proporzionalità» è ancorato all’esigenza di evitare «potenziali limitazioni che alla libertà di stampa potrebbero derivare da iniziative immotivatamente invasive», in quanto tali idonee a determinare un sostanziale aggiramento della disciplina di cui agli artt. 200, comma 3, e 256 e della specifica garanzia assicurata dall’art. 10 della CEDU. La giurisprudenza della Corte EDU, a sua volta, ha da tempo rilevato che il provvedimento dell’AG di esibizione e sequestro di materiale posseduto da un giornalista può costituire una violazione della libertà di espressione tutelata dalla Convenzione, perché, comportando il rischio dell’individuazione delle fonti alle quali il professionista aveva garantito l’anonimato, pregiudica la futura attività del giornalista e del giornale la cui reputazione sarebbe lesa anche agli occhi delle future fonti (così, specificamente, Corte EDU, Grande Camera, 14/09/2010, Sanoma Uitgevers B.V. c. Paesi Bassi, ma anche Corte EDU, Sez. 4, 15 dicembre 2009, Financial Times Ltd. c. Regno Unito; cfr., inoltre, per l’evidenziazione della necessità di tutelare le medesime esigenze con riferimento all’ordine di rendere testimonianza, Corte EDU, Sez. 5, 5 ottobre 2017, Beker c. Norvegia). In particolare, secondo diverse pronunce dei giudici di Strasburgo, le ispezioni e perquisizioni nel domicilio e nell’ufficio di un giornalista, ed il conseguente sequestro di supporti informatici e documenti disposti dall’AG per individuare la fonte informativa che ha chiesto l’anonimato, se si presentano come “misure sproporzionate”, costituiscono una violazione della libertà dei giornalisti, protetta dall’art. 10 della CEDU, di ricevere o comunicare informazioni, anche quando la fonte abbia violato un obbligo di segretezza consegnando o trasmettendo documenti coperti da segreto. Talvolta, la valorizzazione dell’esigenza di un “adeguato bilanciamento” tra l’interesse alla protezione delle fonti giornalistiche e l’interesse alla prevenzione e repressione dei crimini ha indotto a censurare come “insufficienti” le motivazioni dei giudici nazionali indicative della “pertinenza”, ma non anche della specifica necessità degli atti di ispezione o perquisizione e sequestro (così, in particolare, Corte EDU, Sez. 5, 20 marzo 2012, Martin e altri c. Francia, nonché Corte EDU, Sez. 4, 16 luglio 2013, Nagla c. Lettonia). In altra occasione, inoltre, l’attività di indagine in discorso è stata giudicata negativamente perché “sproporzionata” in considerazione degli effetti intimidatori nei confronti non solo dei giornalisti direttamente interessati e dello loro fonti, ma anche della generalità dei giornalisti operanti nello Stato e dei loro informatori (v. Corte EDU, Sez. 2, 19 gennaio 2016, Górmii ed altri c. Turchia, relativa ad un’operazione investigativa comportante, tra l’altro, l’acquisizione dei dati memorizzati su quarantasei computer, ed effettuata per indagare sulla violazione di un segreto militare specificamente riferibile, e riferita, a pubblici dipendenti). Può concludersi che, ai fini della legittimità di un provvedimento di ricerca della prova nei confronti di un giornalista in relazione agli atti e documenti relativi alla sua attività professionale, sono necessarie non solo l’indispensabilità della rivelazione della fonte informativa del medesimo ai fini della prova del reato per cui si procede, e l’impossibilità di accertare altrimenti la veridicità della notizia in possesso del perquisito, in linea con quanto prevede l’art. 200, comma 3; invero, occorre anche che il vincolo sia apposto esclusivamente su quanto è strettamente necessario per l’accertamento dello specifico fatto oggetto di indagineVa peraltro precisato che è corretto distinguere tra limiti relativi al sequestro e limiti relativi all’attività di perquisizione. Sicuramente, la procedura di acquisizione di atti e documenti nei confronti di un giornalista non indagato presuppone la formulazione di una richiesta di esibizione delle cose ritenute pertinenti: se il giornalista non è sottoposto ad indagini, è coerente con le esigenze dell’esercizio della libertà di stampa ritenere che, solo in caso di rifiuto, o di atteggiamento elusivo, si potrà procedere a perquisizione. Tuttavia, la mancata collaborazione può legittimare un’attività di ricerca ad ampio spettro ed estendersi, in particolare, anche ad interi sistemi informatici o telematici, ancorché protetti da misure di sicurezza, così come prevede l’art. 247, comma 1-bis. E infatti, escludere l’ammissibilità di un’efficace attività di ricerca al cospetto di un atteggiamento non collaborativo, quando sussistono i presupposti della indispensabilità della notizia ai fini della prova del reato per cui si procede, nonché l’impossibilità di accertare altrimenti la veridicità della stessa in possesso del giornalista, significherebbe rimettere le sorti dell’indagine all’esclusiva volontà di quest’ultimo. Tanto, però, non solo attribuirebbe al giornalista una prerogativa espressamente esclusa in relazione alla testimonianza, come si evince dalla disciplina di cui all’art. 200, comma 3, ma renderebbe di fatto inutile il potere riconosciuto all’AG di procedere a sequestro, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 256. Del resto, è immediatamente rilevabile la differenza tra perquisizione e sequestro: l’acquisizione degli atti e dei documenti in possesso del professionista è vicenda concettualmente e giuridicamente distinta dall’attività di ricerca sugli stessi. La diversa incidenza della perquisizione rispetto al sequestro sembra compatibile anche con la giurisprudenza della Corte EDU. Invero, le diverse decisioni precedentemente citate, tanto quelle in relazione alle operazioni compiute nei confronti dei giornalisti (Corte EDU, Grande Camera, 14 settembre 2010, Sanoma Uitgevers B.V. c. Paesi Bassi; Corte EDU, Sez. 5, 20 marzo 2012, Martin e altri c. Francia; Corte EDU, Sez. 4, 16 luglio 2013, Nagla c. Lettonia; Corte EDU, Sez. 2, 19 gennaio 2016, Górmii ed altri c. Turchia), quanto quella concernente l’attività riferita all’avvocato (Corte EDU, Sez. 5, 27 aprile 2017, Sommer c. Germania), per affermare la violazione dell’art. 10 CEDU, valorizzano tutte il sequestro o comunque l’acquisizione e l’utilizzabilità dei dati da parte dell’autorità procedente. Resta solo da puntualizzare espressamente, per evitare qualunque incertezza in proposito, che, almeno con riferimento al giornalista, del tutto equiparabile al sequestro è l’acquisizione in copia dei dati. In questo senso, precise indicazioni provengono non solo dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, come si è rilevato, valorizza il profilo dell’acquisizione del dato informativo, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità. È sufficiente richiamare, per tutte, SU, 40963/2017. Questa decisione, in particolare, ha precisato che, quando assume rilievo l’interesse alla disponibilità esclusiva del patrimonio informativo, «la mera reintegrazione nella disponibilità della cosa [sulla quale è reperibile l’informazione] non elimina il pregiudizio, conseguente al mantenimento del vincolo sugli specifici contenuti rispetto al contenitore, incidenti su diritti certamente meritevoli di tutela, quali quello alla riservatezza o al segreto», nel cui ambito è compreso «il diritto alla libertà di espressione di cui all’art. 10 CEDU, in particolare la tutela della segretezza delle fonti giornalistiche (Sez. 6, 9989/2018).

L’esecuzione ad opera della PG di un decreto con cui il PM abbia ordinato la perquisizione e il sequestro delle cose pertinenti al reato, senza alcun’altra specificazione, comporta la necessità che il PM provveda alla convalida del sequestro, ai sensi dell’art. 355, in quanto la predetta indeterminatezza rimette alla discrezionalità degli operanti l’individuazione del presupposto fondamentale del sequestro e cioè della qualifica dei beni come corpo del reato (o cose ad esso pertinenti), la quale richiede un controllo dell’AG (Sez. 6, 24551/2017).

Non è soggetto ad impugnazione il decreto di perquisizione del PM che rimetta alla discrezionalità degli organi di polizia la individuazione di cose da sottoporre a sequestro, dovendo, in tale ultimo caso, intervenire il decreto di eventuale convalida del sequestro che è il solo provvedimento soggetto a riesame (Sez. 2, 11022/2016).

L’ illegittimità della perquisizione non invalida il conseguente sequestro, qualora vengano acquisite cose costituenti corpo di reato o a questo pertinenti, dovendosi considerare che il potere di sequestro, in quanto riferito a cose obbiettivamente sequestrabili, non dipende dalle modalità con le quali queste sono state reperite, ma è condizionato unicamente all’acquisibilità del bene e alla insussistenza di divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dal sistema (Sez. 3, 6798/2016).

Gli artt. 244 e 247 del codice di rito sono relativi alle ispezioni e alle perquisizioni. Quando queste attività ricadono su “materiale informatico”, allora vanno adottate “misure tecniche atte ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione”. Ebbene, quella che è stata definita una attività di pedinamento elettronico nulla ha a che fare con le ispezioni e le perquisizioni, meno che mai con l’attività di intercettazioneSi tratta di una ordinaria attività di PG, posta in essere con l’ausilio di strumenti tecnici e accompagnata, nel caso in scrutinio, da attività di intercettazione ambientale. Essa non è regolata da norme cogenti in riferimento ai dati raccolti. I suoi risultati, per altro, sono veicolati nella istruttoria dibattimentale attraverso le dichiarazioni di chi ha effettuato e/o coordinato l’operazione di “pedinamento”. Si tratta, pertanto, di un problema di attendibilità, non certo di utilizzabilità, né doveva essere attivata la procedura ex art. 360 (Sez. 5, 5550/2016).

L’art. 41 del TULPS legittima le perquisizioni di iniziativa della PG in caso di esposto anonimo che faccia riferimento alla presenza, in un determinato luogo, di armi, munizioni o materie esplodenti non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute e, in ogni caso, l’eventuale illegittimità della perquisizione eseguita di iniziativa dalla PG a norma dell’art. 41 cit. non comporta l’inutilizzabilità del sequestro del corpo del reato. Ad identiche conclusioni, del resto, la giurisprudenza perviene con riferimento alla corrispondente disposizione dettata in materia di stupefacenti dall’art. 103 DPR 309/1990. Inoltre, una decisione ha espressamente affermato che la PG, all’atto di eseguire una perquisizione finalizzata ad accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, non deve avvisare l’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore. Si tratta, peraltro, di un’affermazione in linea con una copiosa serie di pronunce secondo le quali le perquisizioni eseguite di iniziativa della PG in materia di stupefacenti, siccome non presuppongono necessariamente la commissione di un reato, in quanto possono essere effettuate sulla base di informazioni confidenzialmente apprese, e siccome, quindi, non sono funzionali alla ricerca ed all’acquisizione della prova di un reato di cui risulti già l’esistenza, ma possono rientrare anche in un’attività di carattere preventivo, non implicano l’obbligo di avvertire la persona sottoposta a controllo del diritto all’assistenza di un difensore (Sez. 6, 16844/2018).