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Art. 507 - Ammissione di nuove prove

1. Terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prove.

1-bis. Il giudice può disporre a norma del comma 1 anche l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento a norma degli articoli 431, comma 2, e 493, comma 3.

Rassegna giurisprudenziale

Ammissione di nuove prove (507)

Prova nuova nell’art. 507, come nell’art. 505, significa prova non disposta precedentemente, non significa invece prova sopravvenuta o scoperta, altrimenti l’iniziativa riconosciuta al giudice, come quella riconosciuta agli enti e alle associazioni, risulterebbe nella stragrande maggioranza dei casi preclusa.

È illuminante al riguardo l’art. 603, sulla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, il quale, distinguendo tra prove già acquisite, prove nuove e prove nuove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, mostra che per il legislatore nella categoria generale delle prove nuove rientrano tutte quelle ancora non assunte e all’interno della categoria si distinguono le prove preesistenti e conosciute da quelle sopravvenute o scoperte.

Inoltre è significativo che l’art. 603 riconosca alle parti il diritto all’assunzione esclusivamente delle prove di quest’ultimo tipo, mentre dà al giudice nel comma 3 (disposizione analoga a quella dell’art. 507) il potere di disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in tutti e tre i casi previsti, e quindi anche per prove che, benché conosciute, non erano state assunte.

Un’interpretazione logica non consente di riconoscere al giudice di appello un potere maggiore di quello del giudice di primo grado: non è pensabile che il primo possa, rinnovando il dibattimento, ammettere prove che per il secondo erano precluse, perché altrimenti in alcuni casi si renderebbe necessario l’appello per completare il quadro probatorio, costringendo il giudice di primo grado ad una decisione non sorretta da elementi certi e quindi provvisoria.

A ben vedere il diritto delle parti alla prova e il potere suppletivo del giudice non hanno un oggetto diverso dal momento che l’intervento del giudice presuppone in ogni caso l’inerzia delle parti. Infatti queste, anche dopo la scadenza del termine stabilito dall’art. 468, possono, rispetto alle prove sopravvenute o scoperte, far valere il loro diritto nel corso dell’esposizione introduttiva (art. 493, comma 3), se è possibile, ed anche successivamente fino al giudizio di appello; sicché è solo in mancanza dell’iniziativa delle parti che subentra il potere del giudice, il quale concerne tutte le prove non disposte precedentemente, preesistenti o sopravvenute, conosciute o sconosciute che siano.

Prove che, quando è assolutamente necessario, possono essere ammesse sia nel giudizio di primo grado che nel giudizio di appello. È da aggiungere che l’assunzione ex art. 507 può essere disposta anche su istanza di una parte decaduta per non aver esercitato tempestivamente il proprio diritto.

È questa la conclusione che si trae dalle parole “anche di ufficio” contenute nell’art. 507 ed ancor più chiaramente dall’art. 151 delle norme di attuazione, il quale stabilisce che “Nel caso previsto dall’art. 507 del codice, il giudice dispone l’assunzione dei nuovi mezzi di prova secondo l’ordine previsto dall’art. 496 del codice, se le prove sono state richieste dalle parti”. Tale conclusione non contrasta con il sistema perché una cosa è il diritto delle parti alla prova, altra cosa il potere suppletivo del giudice, ed è quindi logico che la decadenza delle parti non incida negativamente sui poteri del giudice: quella che diventa inammissibile a norma degli art. 468 e 493 non è la prova ma la richiesta come atto di esercizio del diritto alla prova.

D’altro canto le parti quando fanno valere il proprio diritto alla prova si trovano in una situazione assai diversa da quella in cui si trovano quando, essendo decadute, sollecitano l’esercizio dei poteri del giudice ex art. 507: questi sono poteri sui quali non può fondarsi un affidamento certo, anche perché sono delimitati dalle parole “se risulta assolutamente necessario”, e non consentono quindi quell’ampia acquisizione probatoria che è normalmente nella possibilità delle parti. Infatti, in tanto può dirsi esistente l’assoluta necessità richiesta dall’art. 507, in quanto il mezzo di prova risulti dagli atti del giudizio e la sua assunzione appaia decisiva.

Quanto alla natura “residuale” del potere officioso del giudice, non risponderebbe a criteri di razionalità subordinare il potere suppletivo del giudice ad un dato formale costituito dall’esistenza di una qualsiasi “acquisizione probatoria” anche di rilevanza minima, impedendo in mancanza di questa l’assunzione di un mezzo di prova, nonostante ne risulti l’assoluta necessità.

È vero insomma che l’ammissione di prove non richieste tempestivamente dalle parti è prevista di regola in funzione integrativa; ciò però non significa che al giudice sia negato il potere di assumere un mezzo di prova dotato di un valore dimostrativo determinante, pur non essendo destinato ad integrare un quadro probatorio già acquisito.

Si è detto che riconoscere al giudice un potere siffatto contrasterebbe con il carattere del nuovo codice di rito, posto che questo non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale “un esito vale l’altro, purché correttamente ottenuto”. Però, com’è stato autorevolmente affermato, non è questo il modello italiano.

Le linee portanti del nuovo sistema processuale non possono essere individuate in modo preconcetto ma vanno desunte dalle norme e in primo luogo dalla delega, la quale nell’art. 2 ha stabilito che i caratteri del sistema accusatorio avrebbero dovuto trovare attuazione da parte del legislatore delegato secondo i principi ed i criteri enunciati nelle numerose direttive dello stesso articolo. Queste disegnano un sistema tutt’altro che indifferente rispetto al contenuto della decisione e non è privo di significato che proprio nella direttiva 73 (che concerne tra l’altro i poteri probatori del giudice del dibattimento) si parli di “ricerca della verità”.

Del resto anche negli ordinamenti di common law, considerati per vari aspetti il modello del nuovo sistema processuale, la concezione secondo cui il processo penale è esclusivamente un “affare delle parti” ha oggi ceduto il passo all’altra secondo cui la collettività non può dirsi indifferente rispetto alla definizione del processo secondo giustizia, sicché il giudice non può restare inerte allorché l’inattività o l’inoperatività di una delle parti minacci la possibilità di arrivare a tale definizione”.

Non è però da una presa di posizione sulla funzione del processo penale e sul tema della “ricerca della verità” che possono trarsi argomenti risolutivi per la questione oggetto del ricorso, dato che la ricostruzione del fatto, o se si preferisce la ricerca della verità, deve comunque avvenire nei modi e con le forme stabiliti dal codice, tanto che è ben possibile che vengano escluse, perché paralizzate dalla inutilizzabilità, prove che potrebbero risultare decisive.

È quindi alla disciplina positiva che occorre innanzi tutto guardare, e questa come si è detto non consente di affermare che il potere ex art. 507 non sussiste quando è mancata qualsiasi acquisizione probatoria; quanto al sistema può solo aggiungersi che dalla sua considerazione non si ricavano argomenti preclusivi. Valgono, anzi, in senso contrario gli argomenti che si desumono dal meccanismo dei controlli organizzati anche nel nuovo codice per impedire che il PM venga meno all’obbligo di esercitare l’azione penale.

Se infatti il sistema ha riconosciuto al giudice delle indagini preliminari il potere di disporre che il PM formuli l’imputazione non può meravigliare un potere probatorio del giudice del dibattimento che in casi limite si spinga fino ad ovviare alla negligenza o alla deliberata inerzia del pubblico ministero, perché, com’è stato osservato, res iudicanda e potere istruttorio “sono correlati: dove una sia indisponibile, l’altro compete in qualche misura al giudice; se no la situazione controversa dipenderebbe indirettamente dalle parti”.

Del resto che il ruolo assegnato al giudice nel dibattimento non sia quello di arbitro di una contesa in cui sono esclusivamente le parti a fornire i materiali per la decisione, risulta oltre che dall’art. 507 anche dagli art. 508 comma 1, 511, 511-bis e per il dibattimento di appello dal già ricordato art. 603. Il potere conferito al giudice dall’art. 507 è, dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale.

Che poi esso sia connotato da un criterio che la norma pleonasticamente definisce di “assoluta necessità” – e che peraltro la delega neppure prevede – si spiega considerando che il suo esercizio si colloca in una fase in cui è “terminata l’acquisizione delle prove” che siano state svolte ad iniziativa delle parti (artt. 468, 493, 495) o su indicazione del giudice (cit. 506): così che le “nuove prove” la cui possibile esistenza ed esperibilità emerga dal materiale a disposizione del giudice sono soggette, rispetto a quelle inizialmente richieste dalle parti, ad “una più penetrante e approfondita valutazione della loro pertinenza e rilevanza che è correlativa alla più ampia conoscenza dei fatti di causa che il giudice ha ormai conseguito in tale momento”.

In conclusione: l’eccezione difensiva secondo la quale il giudice può attivare i poteri officiosi attribuitigli dall’art. 507 solo in via del tutto residuale e in funzione integrativa di una istruttoria dibattimentale comunque espletata, è infondata e disattesa dalla giurisprudenza prevalente di questa Corte e della Corte costituzionale; il PM non ha la disponibilità della prova; nell’assumere d’ufficio i mezzi di prova il giudice non esercita alcuna opzione a favore del PM (o dell’imputato), trattandosi di prerogativa neutra servente rispetto all’esigenza, propria del giudice, di conoscere i fatti oggetto di regiudicanda che non pregiudica la sua imparzialità e terzietà; non viene pregiudicato nemmeno il diritto di difesa perché il termine del deposito della lista testimoniale è uguale per tutte le parti, non potendo il difensore (o il PM) determinarsi in un senso o nell’altro in base alle decadenze o preclusioni nelle quali possa incorrere (o essere incorsa) la parte avversa; peraltro, come ripetutamente affermato, l’esercizio dei poteri officiosi di cui all’art. 507 non esclude il diritto di chiedere la prova contraria; 3.14.5.non viene lesa nemmeno la presunzione di innocenza dell’imputato che presiede alla valutazione della prova già assunta ma non disciplina la fase dell’assunzione della prova stessa (Sez. 3, 38600/2018).

Le parole “terminata l’acquisizione delle prove”, con le quali esordisce l’art. 507, indicano il momento dell’istruzione dibattimentale in cui può avvenire l’ammissione delle nuove prove e non invece il presupposto per l’esercizio del potere del giudice (SU, 11227/1992).

Il giudice ha il dovere di esplicitare le ragioni per le quali ritenga di non procedere ai sensi dell’art. 507, in quanto il potere di disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova rientra nel compito del giudice di accertare la verità ed ha la funzione di supplire all’inerzia delle parti o a carenze probatorie, quando le stesse incidono in maniera determinante sulla formazione del convincimento e sul risultato del giudizio (Sez. 3, 50761/2016).

In senso (almeno parzialmente) contrario: il mancato esercizio del potere del giudice di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova a norma dell’art. 507 non richiede un’espressa motivazione, quando dalla effettuata valutazione delle risultanze probatorie possa implicitamente evincersi la superfluità di un’eventuale integrazione istruttoria (Sez. 6, 24430/2010, ripresa da Sez. 6, 34536/2018).

L’ assunzione di ufficio di nuovi mezzi di prova è lasciata alla libera determinazione del giudice che deve compiere tale scelta tenendo presente unicamente il criterio dell’assoluta necessità ai fini della decisione. Si tratta comunque di un potere-dovere connaturato alla finalizzazione del processo alla ricerca della verità, stante il principio di legalità cui è improntato l’ordinamento, non essendo concepibile, che il giudice possa scegliere tra il proscioglimento dell’imputato e l’attivazione dei necessari accertamenti (Sez. 4, 38359/2018).

Gli articoli 507 e 603 stabiliscono che il giudice di primo grado o quello di appello possono procedere all’assunzione ex officio delle prove ove tale adempimento risulti «assolutamente necessario», dovendosi intendere con tale locuzione, il caso in cui non sia possibile decidere se non dopo l’assunzione di una determinata prova e, quindi, quando la prova sia decisiva (SU, 41281/2006).

Il giudice ha il potere di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova ai sensi dell’art. 507 anche con riferimento a prove che la parte pubblica avrebbe potuto richiedere e non ha richiesto, in quanto la sua funzione nel caso in cui il PM abbia omesso di inserire nella lista le prove che poi si è ritenuto necessario acquisire soccorre all’obbligatorietà e alla legalità dell’azione penale, correlata com’è alla verifica della correttezza dell’esercizio dei poteri del PM e al controllo che detto esercizio non sia solo apparente.

Il potere del tribunale di controllare la completezza del compendio probatorio e di accrescerlo, ove quello raccolto su proposta delle parti sia ritenuto insufficiente, è in linea con la scelta di assegnare al giudice una penetrante e diffusa funzione di controllo dell’esercizio dell’azione penale e del suo sviluppo nel corso della intera progressione processuale. I poteri correlati a tale funzione si rinvengono in tutto il tessuto codicistico, dalla conclusione delle indagini al giudizio di appello.

Tale ampiezza e diffusione dei poteri di interventi del giudice sulla “prova” è il logico correlato della obbligatorietà dell’azione penale, la cui indisponibilità manifesta la natura “pubblica” del processo, ed il suo asservimento alla tutela di interessi ultraindividuali, non delegabili alle parti. In materia le Sezioni Unite (SU, 41281/2006) hanno chiarito che un sistema caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale «impone una costante verifica dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico ministero, e quindi anche delle sue carenze od omissioni [...]

E ciò spiega anche la differenza con quanto avviene nei sistemi accusatori di common law - nei quali le deroghe al principio dispositivo sono inesistenti (o assolutamente eccezionali) - essendo, questa disciplina processuale, ricollegata alla disponibilità dell’azione penale da parte del pubblico ministero che può rinunziare ad essa, di fatto, anche con la mancata richiesta di ammissione delle prove».

Tale diffuso e pervasivo potere di intervento del giudice, che ha l’onere di controllare la completezza compendio probatorio (e di accrescerlo, ove necessario) non contrasta con la natura “accusatoria” del rito, tenuto conto del fatto che le fonti sovralegislative, e segnatamente la Costituzione e la CEDU, non inibiscono in alcun modo il potere integrativo del giudice, né la sua funzione di controllo sulla progressione processuale, che potrebbe patire iniqui sbilanciamenti a causa dell’inerzia delle parti.

Le garanzie previste dalla Costituzione e dalla CEDU garantiscono infatti il contraddittorio nella “formazione” della prova, ma non inibiscono i poteri di controllo del giudice sulla completezza del compendio di elementi su cui deve fondarsi la decisione.

Tali Carte si limitano a garantire che la responsabilità sia valutata sulla base di prove sottoposte al controllo critico delle parti, limitando al minimo l’utilizzabilità delle prove raccolte unilateralmente e non sottoposte alla verifica del contraddittorio. Nessun accenno si rinviene invece alla inibizione del controllo giudiziale sulla progressione processuale e sulla completezza del compendio probatorio, ovvero della funzione che costituisce il naturale correlato della natura pubblica dell’accertamento penale e, non come ritenuto dal ricorrente una illegittima distorsione del modello accusatorio (Sez. 2. 42538/2017).

All’ammissione di una nuova prova, ai sensi dell’articolo 507, il giudice non può non far seguire l’ammissione anche delle eventuali prove contrarie. Pertanto, l’istanza di ammissione di queste ultime, che non può essere avanzata se non dopo la decisione di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova una volta esaurita l’attività probatoria già autorizzata, integra a tutti gli effetti esercizio del diritto alla prova e concreta, quindi, rituale richiesta a norma dell’articolo 495 comma 2 (Sez. 5, 20973/2015).