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Art. 187 - Oggetto della prova

1. Sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza.

2. Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali.

3. Se vi è costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato.

Rassegna giurisprudenziale

Oggetto della prova (art. 187)

Oggetto della prova sono i fatti che si riferiscono all’imputazione. Ciò non vuoi dire che siano ammissibili e valutabili solo prove concernenti gli elementi essenziali della fattispecie contestata (la condotta, l’evento, la causalità, l’elemento soggettivo), poiché il criterio di pertinenza attiene a tutte le circostanze utili per la verifica delle ipotesi ricostruttive formulate dalle partiNondimeno, l’oggetto diretto, minimo ed indispensabile dell’accertamento demandato al giudice è costituito proprio dagli elementi che fondano la colpevolezza dell’imputato per il reato ascrittogli, secondo il criterio dell’esclusione di ogni ragionevole dubbio (Sez. 1, 26048/2018).

La verifica della riconoscibilità, tramite l’esame della ordinanza cautelare e il confronto con la domanda di parte, dell’autonoma valutazione dei presupposti limitativi della libertà personale da parte del giudice è da ritenersi fatto processuale ed in quanto tale è oggetto di prova ai sensi dell’art. 187 comma 2, nonché di valutazione ai sensi dell’art. 192 (Sez. 1, 56345/2017).

L’onere di provare il fatto processuale, dal quale dipenda l’accoglimento dell’eccezione procedurale, grava sulla parte che ha sollevato l’eccezione stessa (Sez. 6, 14243/2017).

Se oggetto della prova è lo specifico fatto e la sua attribuibilità al singolo imputato (art. 187), oggetto della chiamata e dei riscontri d’attendibilità (art. 192, comma 3) deve essere lo stesso specifico fatto, con riferimento all’imputato cui è ascritto (Sez. 6, 26543/2015).

La parte interessata ad opporsi alla assunzione della deposizione nelle forme della testimonianza ha l’onere di formulare l’allegazione delle circostanze fattuali da cui risultano le situazioni di incompatibilità, anche quando queste derivano da motivi formali, se la posizione processuale del dichiarante non risulta dagli atti nella disponibilità del giudice, e non sussistono i presupposti perché quest’ultimo si attivi di ufficio (Sez. 6, 12379/2016).

L’art. 238-bis  stabilisce che i fatti risultanti dalla motivazione di una sentenza irrevocabile sono valutabili entro i limiti indicati dagli artt. 187 e 192, comma 3, cioè come elementi di prova la cui valenza, se la sentenza è acquisita per fornire prova diretta dei fatti oggetto di accertamento, deve essere corroborata da altri elementi di prova che li confermino, mentre gli elementi di conferma non sono necessari se la sentenza viene utilizzata come mero riscontro di altre prove già acquisite. In ogni caso, i giudizi sui fatti contenuti nella motivazione delle sentenze irrevocabili acquisite ex art. 238-bis, - sebbene queste siano utilizzabili anche nei confronti di soggetti rimasti estranei ai procedimenti in cui sono state non possono recepirsi automaticamente nella decisione perché sono solo un possibile esito di una loro disamina nel contraddittorio fra le parti, perché il giudice conserva piena autonomia di giudizio (Sez. 6, 14567/2017).

In tema di giudizio abbreviato, al giudice di appello è consentito disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, potendo le parti solo sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice di appello. L’eventuale integrazione probatoria officiosa disposta nell’ambito del giudizio d’appello, instaurato a seguito d’impugnazione avverso la sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, invero, trova un solido riferimento normativo nell’art. 603, comma 3, che attribuisce al giudice di secondo grado, anche in detta sede, il potere di disporre la motivata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in presenza di un’assoluta esigenza probatoria. Il valore probatorio dell’elemento da acquisire va assunto nell’oggettiva e sicura utilità/idoneità del probabile risultato probatorio ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio, nell’ambito dell’intero perimetro disegnato per l’oggetto della prova dalla disposizione generale di cui all’art. 187 (Sez. 5, 11908/2016).

Il giudice di appello, allorché una parte lo richieda, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, intende fare riferimento a tutta l’istruzione dibattimentale che può essere assunta in primo grado. Ne consegue che la rinnovazione dell’istruttoria in appello comprende tutte le prove previste dal libro III dello stesso codice ovvero tutti i fatti che possono essere oggetto di prova ai sensi dell’art. 187, ivi compresa la perizia: prove che, pertanto, il giudice di appello deve ammettere eccezionalmente solo quando non si ritiene in grado di decidere allo stato degli atti. Peraltro, il rigetto della relativa richiesta di parte, ove congruamente e logicamente motivato dal giudice di appello, è incensurabile in cassazione, trattandosi di giudizio di fatto. In tema di ricorso per cassazione, può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale solo qualora si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 1, 869/2016).

L'efficacia probatoria dell'atto ricognitivo è condizionata all'adozione di cautele che consentano alle parti e al giudice di esercitare la necessaria verifica postuma in ordine al grado di attendibilità di colui che opera il riconoscimento. Il grado di attendibilità di tale atto probatorio, infatti, può mutare in ragione della ricezione, prima dell'atto ricognitivo, della descrizione puntuale delle fattezze dell'autore del reato e della precisazione del contesto della percezione visiva avuta del medesimo, anche nella sua durata e nelle sue modalità, nonché della disponibilità della fotografia o del fotogramma sulla base della quale è operato il riconoscimento (Sez. 4, 35499/2021).

L’accertamento sulla imputabilità, non tempestivamente dedotto come condizione alla richiesta di rito abbreviato, non può più essere proposto in modo diretto dalla difesa, successivamente alla ammissione al rito, perché, diversamente opinando, si permetterebbe di riaprire la questione inerente alla rilevanza della prova richiesta e della sua compatibilità con il procedimento ormai instaurato su presupposti già determinati e vagliati dal giudice. Solo quest’ultimo, può, in forza di diverso principio, disporre, all’esito del giudizio, ex art. 441, comma 5, l’accertamento sulla imputabilità qualora ritenesse tale elemento utile ai fini della decisione. In tal senso la decisione del giudice, assunta ex officio, ben può essere sollecitata dalla parte, ma in tal caso, la decisione del giudice non può che essere ancorata al solo dato della necessità dell’accertamento ai fini della manifestazione della decisione e non più al parametro della compatibilità con il rito abbreviato (Sez. 2, 21356/2015).

In tema di prova scientifica, la Cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice del sapere scientifico ed è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. Ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti di una consulenza, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se - come nel caso di specie - congruamente motivato (Sez. 5, 6754/2014).

In presenza di un reato permanente nel quale la contestazione sia stata effettuata nella forma cosiddetta "aperta" o a "consumazione in atto", senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, la regola di "natura processuale" per la quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado non equivale a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all'accusa l'onere di fornire la prova a carico dell'imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all'indicato ultimo limite processuale (Sez. 5, 10763).