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Art. 449 - Casi e modi del giudizio direttissimo

1. Quando una persona è stata arrestata in flagranza di un reato, il pubblico ministero, se ritiene di dover procedere, può presentare direttamente l’imputato in stato di arresto davanti al giudice del dibattimento, per la convalida e il contestuale giudizio, entro quarantotto ore dall’arresto. Si applicano al giudizio di convalida le disposizioni dell’articolo 391, in quanto compatibili.

2. Se l’arresto non è convalidato, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero. Il giudice procede tuttavia a giudizio direttissimo quando l’imputato e il pubblico ministero vi consentono.

3. Se l’arresto è convalidato, si procede immediatamente al giudizio.

4. Il pubblico ministero, quando l’arresto in flagranza è già stato convalidato, procede al giudizio direttissimo presentando l’imputato in udienza non oltre il trentesimo giorno dall’arresto, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini.

5.  Il pubblico ministero procede inoltre al giudizio direttissimo, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini, nei confronti della persona che nel corso dell’interrogatorio ha reso confessione. L’imputato libero è citato a comparire a una udienza non successiva al trentesimo giorno dalla iscrizione nel registro delle notizie di reato. L’imputato in stato di custodia cautelare per il fatto per cui si procede è presentato all’udienza entro il medesimo termine. Quando una persona è stata allontanata d’urgenza dalla casa familiare ai sensi dell’articolo 384-bis, la polizia giudiziaria può provvedere, su disposizione del pubblico ministero, alla sua citazione per il giudizio direttissimo e per la contestuale convalida dell’arresto entro le successive quarantotto ore, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini. In tal caso la polizia giudiziaria provvede comunque, entro il medesimo termine, alla citazione per l’udienza di convalida indicata dal pubblico ministero.  
6. Quando il reato per cui è richiesto il giudizio direttissimo risulta connesso con altri reati per i quali mancano le condizioni che giustificano la scelta di tale rito, si procede separatamente per gli altri reati e nei confronti degli altri imputati, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini. Se la riunione risulta indispensabile, prevale in ogni caso il rito ordinario.

Rassegna giurisprudenziale

Casi e modi del giudizio direttissimo (art. 449)

Il procedimento di convalida dell’arresto è scandito dalle seguenti fasi: a) la fase della convalida che si conclude, formalmente, con un’ordinanza con la quale il giudice accoglie o respinge la richiesta del PM, impugnabile con ricorso per cassazione, b) la fase in cui il giudice applica, eventualmente, una misura cautelare, ove ne sussistano i presupposti di cui agli artt. 273/274: contro la suddetta ordinanza può essere proposta istanza di riesame ai sensi dell’art. 309; c) la fase del processo per direttissima, ai sensi dell’art. 449 comma 3, se l’arresto è convalidato. In ordine ai rapporti fra le suddette fasi processuali, ognuna delle quali è scandita formalmente da un’ordinanza, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente enunciato il principio di diritto, ormai consolidatosi, secondo il quale l’ordinanza di convalida dell’arresto di PG è provvedimento del tutto autonomo ed indipendente rispetto agli altri susseguenti e rispetto alla stessa ordinanza applicativa della misura coercitiva, sicchè le eventuali nullità di una fase non si comunicano all’altra, in deroga, quindi, alla generale regola di cui all’art. 185 comma 1.

In particolare, quanto all’autonomia fra le varie fasi, va osservato che l’ordinanza di convalida è costituita da due provvedimenti: con il primo, il giudice decide sulla legittimità dell’arresto convalidando o meno l’arresto; con il secondo, conseguente al primo, ove convalidi l’arresto, dà impulso, incardinandolo, al processo per direttissima (processo che, quindi, è obbligatorio non rientrando nella facoltà del giudice stabilire se disporlo o meno come si desume dallo stesso tenore testuale dell’art. 449 comma 3), altrimenti restituisce gli atti al PM. Si tratta, come può notarsi, di due provvedimenti che hanno finalità del tutto diverse: con il primo, che si può qualificare di natura sostanziale, il giudice accerta se un cittadino sia stato o meno legittimamente arrestato e, quindi, privato della propria libertà personale; con il secondo, di natura processuale, il giudice dà corso al processo per direttissima.

II primo provvedimento, incidendo sulla libertà personale, può, quindi, essere autonomamente impugnato con l’immediato ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 391 comma 4, rimedio che non costituisce altro che l’applicazione del combinato disposto degli artt. 13 e 111 comma 7 Cost.

Si può quindi affermare che, essendo il giudizio di convalida autonomo dal processo direttissimo ed avendo ad oggetto il solo status libertatis, l’esito favorevole dell’eventuale impugnazione non può in alcun modo interferire sulla legittimità di un provvedimento di natura esclusivamente processuale (ordine di procedersi al giudizio direttissimo) e, quindi, sull’esito di un processo che ha un diverso oggetto e cioè l’accertamento o meno della responsabilità penale dell’imputato circa i fatti addebitatigli (Sez. 2, 45302/2015).

In sede di convalida dell’arresto, il giudice, oltre a verificare l’osservanza dei termini previsti dall’art. 386, comma 3, e 390, comma 1, deve controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito arresto, ossia valutare la legittimità dell’operato della PG sulla base di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza ed all’ipotizzabilità di uno dei reati richiamati dagli artt. 380 e 381, in una chiave di lettura che non deve riguardare né la gravità indiziaria e le esigenze cautelari (valutazione questa riservata all’applicabilità delle misure cautelari coercitive), né l’apprezzamento sulla responsabilità (riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito) (Sez. 6, 8341/2015).

Le nullità verificatisi nel procedimento di convalida, per quanto assolute come quella relativa all’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato (SU, 24630/2015) non sono rilevabili fuori dallo specifico procedimento di convalida (Sez. 1, 6831/2016).

È abnorme l’imposizione al PM, in presenza dei presupposti di cui all’art. 449, comma 4, di un diverso e non consentito modo di esercizio dell’azione penale, tenuto conto che la norma sopra citata non richiede affatto che l’imputato debba essere sottoposto a misura cautelare perché si proceda a giudizio direttissimo (Sez. 5, 569/2017).

Il rito direttissimo non richiede, a differenza del giudizio immediato, l’evidenza della prova (Sez. 4, 12927/2013).

Anche dopo le modificazioni introdotte all’art. 449, comma 4 ad opera del DL 92/2008, convertito in L. 125/2008 (misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), non è configurabile un obbligo del PM di procedere con il rito direttissimo tutte le volte che sia convalidato l’arresto in flagranza e la scelta non pregiudichi gravemente le indagini. Il sindacato del giudice non può estendersi al punto di individuare il rito che il PM dovrebbe richiedere (Sez. 2, 36656/2010).

Dopo la mancata convalida dell’arresto, il consenso dell’imputato integra una condizione di legittimazione sopravvenuta che rende legittimo lo svolgimento del giudizio direttissimo (cosiddetto giudizio direttissimo consensuale) (Sez. 5, 7890/2018).

Il provvedimento di restituzione degli atti per mancata convalida dell’arresto per il reato di cui all’art. 13, comma 13, D. Lgs. 286/1998 è funzionalmente abnorme in quanto la regressione del procedimento che ne deriva può essere fronteggiata solo con l’esercizio, da parte del PM, dell’azione penale con una modalità non consentita dalla legge.

Deve infatti ricordarsi che, per il reato in questione, il processo – a norma dell’art. 13, comma 13-ter – deve necessariamente essere celebrato con il rito direttissimo, il quale diventa, in sostanza, per detto reato, il rito “ordinario”, (sicché è inibito al PM intraprendere percorsi processuali alternativi), anche fuori dei casi in cui esso sarebbe possibile (Sez. 1, 9685/2014).

L’obbligatorietà del rito direttissimo per i reati in materia di armi permane anche quando siano superati i termini ordinari previsti dall’art. 449. In effetti, la deroga introdotta dall’art. 12-bis del DL 306/1992 si estende ai “termini” indicati nel predetto articolo, compresi nei “casi”, intesi quali presupposti processuali e temporali del rito, e non nei “modi” nei quali il giudizio direttissimo, se ammissibile, deve svolgersi; tale interpretazione trova conferma nell’art. 452, comma 1, che stabilisce la restituzione degli atti al PM “se il giudizio direttissimo risulta promosso fuori dei casi previsti dall’art. 449”, quindi includendo il mancato rispetto dei termini nei “casi” e non nei “modi” del rito (Sez. 1, 25849/2016).

Ogni qualvolta particolari disposizioni di legge prevedano come obbligatorio il giudizio direttissimo anche fuori dei “casi” previsti dall’art. 449, salvo che siano necessarie speciali indagini (vedi L. 189/2002 in materia di immigrazione clandestina; art. 12-bis L. 356/1992 in materia di armi ed esplosivi; art. 6, comma 5, L. 205/1993 in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa; art. 8-bis L. 401/1989 con riferimento ai reati commessi in occasione di manifestazioni sportive; art. 12, comma 4, D.Lgs. 286/1998 per colui che procura l’ingresso clandestino di uno straniero; art. 13, comma 13-ter, D. Lgs. 286/1998, per lo straniero espulso che faccia rientro nel territorio dello Stato in assenza di autorizzazione; artt. 235 e 312 Cod. pen., come modificati dal DL 92/2008 in materia di violazione dell’ordine di espulsione adottato in giudizio quale misura amministrativa di sicurezza), la deroga concerne anche i “termini” indicati nell’art. 449, da ritenersi compresi appunto nei “casi”, intesi quali presupposti processuali e temporali del rito, e non nei “modi” nei quali il giudizio, se ammissibile, deve svolgersi.

Trattasi di ipotesi di giudizio direttissimo cosiddetto “atipico”, in virtù del quale al soggetto accusato è consentito di essere chiamato in giudizio attraverso un iter più spedito, sebbene si prescinda dall’evidenza probatoria qualificata (confessione o arresto in flagranza), prevista per le tipologie ordinarie di tale istituto. La scelta di tale forma di esercizio penale, pertanto, va ricollegata esclusivamente all’intento del legislatore di manifestare rigore nel perseguire determinati reati, idonei a provocare particolare allarme sociale (Sez. 1, 6443/2016).

Il legittimo impedimento dell’imputato, impedendo la sua “presentazione” e il conseguente dibattimento è incompatibile con l’incardinazione del procedimento davanti al giudice e, quindi, esclude la possibilità della cognizione del giudice del rito direttissimo, tenuto conto della necessità della contestazione orale dell’imputazione (Sez. 4, 26450/2009).

In senso contrario: In tema di giudizio di convalida dell’arresto e di contestuale giudizio direttissimo, la mancata presenza dell’arrestato all’udienza dovuta a legittimo impedimento non osta a che il giudice, nella sussistenza dei requisiti di legge, provveda alla convalida, essendo la possibile non comparizione dell’arrestato evenienza contemplata dall’art. 391, commi 3 e 7, come richiamati dall’art. 449 (Sez. 3, 27128/2008).

E, più di recente: La tesi che nega l’applicabilità dell’art. 391 comma 3 al caso della richiesta di convalida e contestuale giudizio direttissimo si fonda sostanzialmente su due ragioni: a) l’impossibilità di procedere alla contestazione orale dell’imputazione; b) l’incompatibilità strutturale del rito in assenza dell’imputato arrestato, perché legittimamente impedito.

Si osserva al riguardo che l’impossibilità di una contestazione orale dell’imputazione è peculiarità propria dell’impedimento a comparire dell’arrestato e, per sè, non spiega perché tal genere di contestazione potrebbe mancare davanti al GIP (e non violando in modo determinante alcuna possibilità di difesa) ed invece essere essenziale (sempre sotto il profilo dell’efficacia della contestazione dell’imputazione) davanti al giudice del dibattimento.

Inoltre, non può affermarsi sussistere alcuna incompatibilità strutturale tra convalida/rito direttissimo e temporaneo impedimento dell’imputato arrestato. Il rito direttissimo, infatti, è per sè compatibile anche con l’assenza dell’imputato, essendo adottabile anche nei confronti di imputato in stato di libertà.

Nè la assoluta contestualità tra convalida e giudizio (inteso come celebrazione del processo e decisione sull’imputazione) risulta essere elemento strutturale indispensabile: basti pensare alla fisiologica possibilità che l’arrestato, pur presente, chieda i termini a difesa e, in esito al loro decorso, eventuali riti alternativi.

Infine, nessuna diversità va rilevata tra le fattispecie dell’impedimento legittimo e della volontà di sottrazione (nel caso di evasione), posto che sul piano sistematico vi è in entrambi i casi la situazione di una convalida di arresto con richiesta di rito direttissimo proposta in un contesto di urgenza, per la valutazione della legittimità dell’arresto, e tuttavia nella fisica assenza dell’imputato arrestato. L’ipotizzata differenziazione di trattamento tra le situazioni dell’arrestato assente per legittimo impedimento e quello tale per scelta (l’evaso) condurrebbe ad un esito irragionevole imponendo la carcerazione dell’assente per impedimento legittimo, a fronte della possibile trattazione in stato di libertà dell’evaso.

Risulterebbe del tutto singolare, sul piano della ricostruzione sistematica, che a fronte del ritenuto eccezionale pregiudizio del non poter avere una tempestiva contestazione orale dell’imputazione (e nonostante il suo difensore debba essere ascoltato e possa svolgere ogni difesa) l’arrestato fosse, come conseguenza immediata della tutela apprestata per tale potenziale lesione, costretto a “passare” per la casa circondariale, appena cessata la situazione che ne ha determinato l’impedimento legittimo e dopo aver comunque “subito” un provvedimento di convalida in sua assenza (art. 391) e l’adozione di misura cautelare custodiale (art. 391, commi 4 e 5) (Sez. 6, 41783/2017).

Il giudice, investito della richiesta di convalida dell’arresto e di prosecuzione del procedimento con il giudizio direttissimo, ben può procedere a pronunciarsi sulla convalida nonostante l’evasione dell’imputato dagli arresti domiciliari, impregiudicata restando altresì la trasformazione del rito a norma dell’art. 452 (Sez. 6, 17193/2007).

La mancata presenza dell’interprete, pur se non imputabile all’arrestato, configura ipotesi di forza maggiore che non impedisce la convalida dell’arresto, di cui il giudice deve valutare la regolarità formale indipendentemente dall’interrogatorio non possibile (Sez. 6, 38791/2014).

In senso contrario: Nel giudizio direttissimo la convalida dell’arresto, pur prescindendo dall’interrogatorio, non esaurisce la fase, ma introducendo il rito, impone all’imputato di compiere scelte processuali (richiesta di termini a difesa, giudizio ordinario, abbreviato, patteggiamento), cui sono collegate preclusioni, che richiedono un previo contatto con il difensore che, nel caso di imputato alloglotta, non può che avvenire per il tramite dell’interprete.

Di tal che, non appare corretto il richiamo alla forza maggiore o al caso fortuito per giustificare il venir meno da parte dell’AG procedente all’obbligo di assicurarsi che la materiale conduzione dell’indagato in vincoli nell’aula d’udienza costituisca valida “presentazione”, ex artt. 558 e 449 al Tribunale.

Nel senso che il richiamo, contenuto nell’ultimo periodo dell’art. 449 comma 1, alla disposizione dell’art. 391 trova limite nell’inciso “in quanto compatibili” e la partecipazione consapevole dell’arrestato in udienza implica necessariamente, per la corretta instaurazione del rapporto processuale, l’assistenza di un interprete (Sez. 1, 22133/2016).